La gerarchia dei valori di spazio, intesa ovviamente come valori di scambio e non d’uso, cambia man mano si evolvono funzioni, possibilità tecniche, gusti. E accade così che su cicli più o meno dilatati nel tempo una determinata qualità edilizia, o contesto complesso di zona o quartiere, attraversi radicali trasformazioni fisiche o di uso o entrambe, a seconda di queste evoluzioni. È avvenuto con la localizzazione industriale e le sue tipologie e concentrazioni, poi a quella terziario-amministrativa, e poi ancora alla rete commerciale (condizionando in parte anche le diverse vicende dell’organizzazione fisica e sociale della residenza, che qui però ci interessa in modo relativo). Un aspetto particolare dei cicli evolutivi spazio-funzionali e di valore relativo è quello del decentramento o suburbanizzazione funzionale, trasformazione dei modelli insediativi, ed eventuale ritorno nel nucleo centrale. Accade prima di tutto storicamente con le attività industriali produttive, sia per questioni tecnologico-organizzative che ambientali, e si tratta in massima parte (almeno sino a questo momento) di una uscita pressoché definitiva dal tessuto denso centrale e dal mix con altre attività. Accade con il terziario amministrativo, che in parte segue le attività produttive, in parte cambia pelle e natura come ad esempio con la «terziarizzazione dei centri» o downtown novecentesca, e infine con la nuova migrazione dagli office park suburbani verso una nuova generazione di poli centrali. E accade naturalmente con il commercio.
La vera migrazione dello shopping mall
Forse non è un caso, che la migrazione suburbana in assoluto più nota e importante non sia quella dei pur giganteschi e caratterizzanti impianti industriali (e dei vuoti spaziali-sociali che lasciano), né dei contenitori e posti di lavoro del terziario amministrativo dentro gli office park automobilistici simbolo di una intera epoca. Il marchio indelebile della suburbanizzazione e poi di tanti altri processi che essa innesca, è certamente il centro commerciale, in tutte le sue versioni possibili e immaginabili. Perché rappresenta la meglio una vera mutazione genetica, quella della tradizionale bottega che diventa tutt’altro (cosa non accaduta con la fabbrica o l’ufficio), cambiando forma, sostanza, dimensioni e organizzazione, valori, e innescando quell’enorme cambiamento sociale e di stili di vita che conosciamo come consumismo di massa. Oggi quando si parla di crisi dello shopping mall, sono decisamente in troppi quei luddisti dell’ultima ora che accecati dalla reazione retrotopica alla modernità tanto in voga, altro non vedono se non una dismissione al contrario: rovine suburbane invase dalle erbacce, parcheggi abbandonati su insegne spente, mentre nei quartieri urbani spunterebbero vitali nuove botteghe chioschi a gestione locale. Niente di più sbagliato, se si legge statisticamente come sta andando, questa crisi dello scatolone suburbano, guidata soprattutto dalla riorganizzazione della logistica legata al commercio online. È sostanzialmente quel trasferimento del passeggio consumista verso l’immaterialità del web, accompagnato dalla massiccia evoluzione delle strutture fisiche, ad essere il vero nodo della questione, apparentemente colto da pochissimi.
Cosa succede in città?
Capita, raramente ma capita, di riflettere con qualcuno sulla relativa assurdità funzionale (limitiamoci per ora a quella) di certe valanghe di metri cubi terziari amministrativi trasferiti dalle grandi imprese, dal deserto mentale suburbano ai nuclei centrali della concentrazione di giovani colti e innovativi, ad alimentare un mercato del lavoro e delle idee in continua evoluzione. Quegli enormi contenitori detti company headquarter, che si tratti dei classici grattacieli o di altre inedite forme magari parcellizzate e decentrate come succede là dove l’urbanistica pubblica è più sensibile, paiono avere assai poco senso nell’epoca della cosiddetta classe creativa operante a tempo pieno ma non a presenza piena, ovvero in regime di telecommuting, in cui si lavora e si è disponibili all’interazione in qualunque luogo e momento. Senza entrare nel merito sindacale, che richiederebbe altra prospettiva di osservazione, appare chiara qui la potenziale obsolescenza dei grandi contenitori ufficio, se non fosse che sta bussando alle porte del mercato immobiliare una funzione davvero inattesa:la logistica urbana legata al commercio virtuale, coi suoi problemi di just on time, di ultimo miglio, e anche di ulteriore evoluzione dei punti vendita fisici. Se si vuole, è anche un ritorno alle origini della fabbrica multipiano nei quartieri densi otto-novecenteschi, o per rimanere al commercio addirittura del fondaco mercantile preindustriale: un grande deposito di merci in continuo rinnovo, pronte alla consegna in tempi brevissimi sull’ultimo miglio del percorso produzione-consumo. Il tutto circondato dalla questione irrisolta dei flussi, delle medesime merci, del lavoro umano o meccanico richiesto, la qualità e quantità di veicoli, infrastrutture, terminali. Il mercato immobiliare ha già da par suo (vedi articolo) colto questo rilevante spostamento di risorse e aspettative: che fanno le pubbliche amministrazioni preposte a urbanistica, lavoro, innovazione, trasporti, ambiente? Tacciono pensando ad altro, per ripeterci a frittata ormai fatta che loro poverini «non potevano sapere»?
Riferimenti:
David M. Levitt, The first to the last mile, The Real Deal, 1 marzo 2019