L’outlet della segregazione strisciante

macerie

Foto F. Bottini

Ammetto la mia ignoranza in materia di outlet, o più precisamente della funzione specifica per cui sono stati ovviamente concepiti: lo shopping. Cosa piuttosto curiosa, al limite scandalosa, per chi ha in pratica dedicato agli outlet un libro, ma tant’è. Sono stato tantissime volte nei villaggi outlet, però MAI con l’idea anche vaga di comprarci qualcosa. Ero troppo concentrato a percorrere quegli spazi in lungo e in largo, a passi veloci o misurati, tra la folla dei saldi o il sole e il silenzio delle mattine d’inverno, addirittura nella poetica solitudine di un pomeriggio di Natale. Conoscevo gli interni dei villaggi, gli angolini delle false vedute storiche, il punto in cui i parcheggi diventavano angoscianti verso il terrapieno della superstrada, magari anche il corridoio dei bagni o la panchina nell’angolo della piazzetta. Ma l’interno di un negozio, quello per cui alla fin fine arrivano le folle, no. Poi sono arrivate le crisi globali: la crisi climatica e la crisi economica.

Localmente, la crisi climatica vuol dire come noto che la pianura padana già in primavera comincia ad arroventarsi, manco fossimo nel cuore dell’estate. Si cavano così fuori in fretta e furia le cose estive, e non fa più tanto poi ridere, quella tiritera delle vecchie zie sulle mezze stagioni che non ci sono più. Fra le varie cose cavate in fretta dagli armadi, anche un paio di scarpe estive di tela clonate, ancora nella loro confezione, prese probabilmente da un cestino delle offerte speciali a qualche svendita settembrina e rimaste a svernare dentro il cellophane. Hanno in tutto e per tutto l’aspetto del noto modello di marca che vorrebbero imitare, salvo l’etichetta e qualche dettaglio per veri appassionati. Salvo, anche, il prezzo: molto meno di 10 €, contro i 50 e oltre che si leggono davanti al modello esposto nei negozi del centro o nelle navate di qualche shopping mall suburbano. Tutto bene? Macché. C’è anche un’altra differenza, di cui mi accorgo solo dopo un’ora che le ho addosso: fanno un male cane, come se fossero di un numero più piccole. E non serve a nulla provare a infilarci dentro dei giornali appallottolati, bagnarle, lasciarle “in forma” per una notte intera, manco fossero raffinati prodotti artigianali su misura. E qui, per via ovviamente anche della crisi economica che si fa già sentire sul conto corrente, mi torna in mente di aver visto da qualche parte quel cartello FACTORY OUTLET, col prestigioso marchio delle scarpette di tela. Magari andare a dare un’occhiata non guasta.

Si tratta presumo di un outlet classico, ovvero di quelli che fino a dieci anni fa si chiamavano spacci aziendali e non se li filava nessuno. Niente a che vedere con villaggi della moda in stile assiro-padano color pastello spuntato, coi festosi caroselli delle macchine teleguidate per chilometri da quei poveracci degli addetti alla sosta in pettorina fosforescente. Verificata più o meno la posizione geografica dell’utile baracchino, decido che posso arrischiarmi a una spedizione in bicicletta del sabato mattina, col vantaggio di risparmiare benzina e possibili scocciature col parcheggio (la crisi economica, quella energetica, e l’orlo di quella di nervi).

Il posto, come spiegato dalle indicazioni sul sito web, dovrebbe essere quello standard: la striscia laterale di una arteria abbastanza importante, non troppo lontano dallo svincolo dell’autostrada. Anche usando tutti i trucchi dell’apache/ciclista metropolitano per avvicinarsi di soppiatto sottovento alla preda, mi ritrovo comunque a percorrere almeno qualche centinaio di metri sobbalzando pericolosamente contromano su una strisciolina di terra smossa dai cantieri, fra un guard-rail zincato e i veicoli che mi passano a pochi centimetri dal gomito. Unica consolazione: l’ambiente generale è proprio quello giusto, quindi tra non molto per forza ci siamo. Infatti appare dietro una rotatoria particolarmente insidiosa il cartellone che avevo intravisto a suo tempo dal finestrino dell’auto. C’è qualcosa di strano, indefinibile ma strano.

La stranezza è che non c’è nessun baraccone, almeno non del tipo che ci si potrebbe aspettare. Il parcheggio è messo nell’esatta posizione che consigliano gli architetti new urbanism per evitare – almeno dal punto di vista estetico e delle relazioni spazio-sociali – l’alienazione commerciale suburbana. Il negozio ha un inopinato ingresso pedonale-ciclabile, con giardino, rastrelliere per le due ruote quasi tutte occupate, bambini che giocano, mamme sulle panchine. Mi tocca fare dietrofront per verificare di essere entrato dalla porta giusta, ma poi vedo in fondo a un vialetto la porta d’ingresso con gli adesivi dei marchi e delle carte di credito … insomma sono proprio all’outlet. E le sorprese non sono ancora finite.

Perché la decantata cittadella degli affari, progettata in forma di fascinoso villaggio o semplicemente di sbocco commerciale alternativo a prezzo ridotto, a me onestamente vista così pare proprio una patacca. Vero è, come spiegano anche i più esagitati frequentatori e cinguettanti “redazionali”, che la scelta per forza è ridotta, mica si può pretendere di trovare sempre tutte le misure, i colori, i modelli … Vero anche, come rispiegano gli eccetera eccetera, che il prezzo è ribassato ma non sempre in modo esageratissimo. Ma: 40 €, e un solo paio di scarpe disponibile (colore diciamo diverso ma accettabile, un numero in più del mio solito ma di sicuro non faranno male, e non ci devo certo fare le escursioni no limits) prendere o lasciare? Io lascio.

Di nuovo nel giardinetto-ingresso noto qualcosa che prima mi era sfuggito: parecchie signore middle class con bambini a carico del genere che farebbe venire il mal di testa a un legaiolo basic. Perché sono tutte, inequivocabilmente, immigrate, con varie tonalità di pelle e tagli degli occhi e degli zigomi, quanto inequivocabilmente eleganti e si direbbe benestanti, oltre che articolate. Chiamano i bambini (sono figli loro, anche questo quasi inequivocabile per ovvi motivi di somiglianza) in italiano, qualcuna si carica il pupo sul sellino della bici e si allontana dalla parte opposta a quella dalla quale sono arrivato io insieme alle macchine. Il new urbanism evidentemente qui colpisce a man bassa: c’è anche una bella pista ciclabile che si immerge nel verde. Mi viene un dubbio: vuoi vedere che ….

Dovevo capirlo subito: la pista ciclabile non si immerge nel verde, ma entra direttamente nel paradigma nazionale dell’immersione nel verde: l’outlet praticamente era già dentro Milano Due! E io, a sudare e più o meno rischiare la vita in quella striscia d’asfalto ultra-auto-oriented, mentre a una decina di metri stavano ben nascosti i mitici laghetti coi cigni, i ponticelli leonardesco-berlusconiani sui quali si può attraversare tutto il quartiere senza neanche vederla, una macchina. E quelle signore, elegantemente multietniche, venivano proprio da quel “ghetto” per milanesi part-time, anche se i loro bambini probabilmente non rischieranno mai di diventare “ angry young men” come temeva Elvis nella sua famosa canzonetta.

Ma poi, mentre attraverso tutto il verdissimo quartiere, curiosamente affollato di gente che passeggia e chiacchiera nella tarda mattinata di un sabato di primavera (anche attorno al gazebo di Forza Italia), rifletto sul fatto che in fondo tutto si tiene: sono io la nota stonata. Vanno benissimo quei prezzi che giudicavo assurdi dell’outlet, perché è l’idea del risparmio a contare, più del risparmio stesso. Poi fra la gita all’outlet, i cestini traboccanti, la confusione, il fatto che in fondo qualcosa si risparmia pure, tutti contenti e a casa col pacchettino, o il pacchettone. E va bene, benissimo, magnificamente, anche il percorso di guerra che mi sono fatto all’andata, e che ora mi sto risparmiando con la sciolta pedalata a zig-zag nel fresco di alberi e porticati, fra cigni, nonni e bambini. Quella strada non solo era pensata per le auto, ma con le auto, a rafforzare l’effetto barriera tra il nazionalpopolare quartiere periferico a sud e il sedicente suburbio esclusivo a nord. La fifa che provavo, da ciclista contromano alla ricerca della scritta FACTORY OUTLET, faceva parte più o meno consapevole del progetto stradale, e quel guard-rail polveroso serviva proprio a impedirmi di svoltare verso la salvezza del prato: era la fascia di interposizione fra il suburbio di lusso e il resto del mondo, mica la via di comodo o di fuga per chicchessia!

Intanto pedalata dopo pedalata sono arrivato alla fine di Milano Due, quando con passaggio studiatamente graduale finisce l’immersione fatale nel verde e ricomincia quella nella periferia milanese. Dove anche le cose solide finiscono di sciogliersi nell’aria, e diventa quasi un sollievo “godersi” l’aria arroventata della strip d’asfalto davanti a Mediaset, col traffico della Tangenziale che romba sopra. Almeno, qui la periferia non fa finta di farsi il lifting, e le cose costano – più o meno, s’intende – quello che promettono. Però le scarpe di tela continuano a starmi strette.

 

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