Apparteniamo un po’ tutti alla professione del profeta, con qualche propensione a fare l’oracolo, ma mi resta qualche esitazione a rivolgermi a voi su un argomento tanto ben trattato da John Burns e dagli altri relatori di stamattina. Mi avventurerò comunque nell’esposizione di alcune idee che dovrebbero esservi abbastanza note, con un criterio sistematico anziché di pura novità o effetto, il tema della mia relazione è La città del futuro governata democraticamente. Parlo della forma di governo perché occorre condividere questo punto prima di avventurarsi in qualunque profezia sui comportamenti delle persone, e mi riferisco a quella democratica che conosco meglio.
Negli Stati Uniti abbiamo un modello di governo popolare a suffragio universale. E se si prosegue così per un lungo periodo di tempo è possibile prevedere con una certa sicurezza grandi trasformazioni civili nel futuro. Durerà, la nostra democrazia? Molti studiosi di storia ne dubitano, tendono piuttosto a ritenere che gli Stati Uniti stiano spostandosi verso quella fase ben nota e compresa della vita nazionale che sfocia in una rivoluzione e successivamente in un tipo di controllo dispotico; ma io e altri crediamo invece che questa posizione non dia il dovuto peso agli effetti dell’istruzione e allo sviluppo dell’intelligenza. Sono ben consapevole che anche Spencer dubitava della nostra capacità di sfuggire al pendolo della politica, quando affermava: «Non è questione di istruzione, ma di carattere». E in una lettera a un amico americano scritta nel 1857, Lord Macaulay diceva «Goti e Vandali arrivarono a Roma dall’esterno, nel vostro caso li avete all’interno».
Nondimeno, esistono ottimi motivi per sperare che la nostra democrazia continuerà a vivere, motivi che nascono da considerazioni forse non sufficientemente valutate da storici e filosofi, ma che non dovrebbero essere ignorate almeno dai primi. Il popolo degli Stati Uniti è una nuova miscela di razze in un nuovo ambiente, si produce una cristallizzazione umana dentro la provetta della Natura necessariamente diversa da quante l’hanno preceduta: per questa ragione, se non per altre, una forma di governo che non è riuscita a durare in Grecia o a Roma potrebbe farlo nel nuovo mondo, nei grandi spazi del continente Nord Americano. C’è poi un altro elemento che qui è presente mentre non esisteva nelle cosiddette democrazie, e che può solo operare a favore del proseguimento di una forma di governo popolare: la «pubblicità», sconosciuta nei tempi andati, ma che oggi espone in bella vista ogni cosa negli Stati Uniti.
I nostri pensieri diventano titoli di prima pagina sui giornali quasi contemporaneamente a quando si formano nel cervello. Da noi è impossibile qualunque grado di segretezza in politica. Nelle epoche passate i demagoghi potevano cospirare in segreto nascondendo i propri scopi, finché non arrivava il momento di rovesciare la libertà del popolo. Oggi, non potrebbe esserci un movimento occulto del genere, perché i cittadini sanno tutto quasi contemporaneamente al politico che l’ha pensato, a che finalità mira e come propone di arrivarci: per sovvertire la libertà ci vorrebbe un’abilità molto superiore a quella di tutte le epoche storiche che ci hanno preceduto dalla comparsa dell’uomo. Però quello su cui possiamo contare di più è il tipo e livello di intelligenza che siamo in grado di esprimere, che ci guida attraverso le più violente tempeste. L’uomo intelligente sa che deve adeguarsi a una politica pubblica, che nei tempi lunghi ciò che è meglio per la comunità è anche meglio per sé stessi. In passato non c’erano a sufficienza né pubblicità né intelligenza, a sostenere qualunque forma di governo; non esisteva una maggioranza della popolazione in grado di poter sapere ciò che deve sapere, nessuna formazione delle menti a insegnare un’azione collettiva. Quanto sono diverse oggi le cose! E quanta speranza infondono! Comunque sia, la mia premessa è che la democrazia negli Stati Uniti resista.
Un una democrazia di tipo plenario come la nostra si può realizzare qualunque cosa concreta appaia auspicabile; e quando la maggioranza della popolazione di una città arriva a capire quanto siano essenziali bellezza ed efficienza, arriverà a ottenerle, perché la democrazia esercita pieno potere sugli uomini, la terra, le merci, e nel caso può anche approvare delle leggi adeguate ai propri scopi. In una democrazia stabile non si fa nulla di illegale: se sorge un conflitto fra gli obiettivi e la legge, si cambia quest’ultima prima di raggiungerli, perché la stessa democrazia non può continuare senza persone intelligenti, e la vera intelligenza apprezza prima di tutto legge e ordine. Continuando su questa linea di pensiero: quando gli abitanti comprendono il valore per la città di un buon schema stradale che sappia portare fin nel suo cuore efficienza e bellezza, lo sapranno realizzare. Ma lo vogliono davvero? Lo valutano abbastanza per realizzarlo? Ci sono ottimi motivi per ritenerlo. Negli Stati Uniti la nascita della grande pianificazione e costruzione urbana avviene con la Fiera Mondiale di Chicago.
La bellezza dell’insieme e dei singoli edifici ha suscitato profonda impressione, non solo fra la minoranza più acculturata, ma forse anche più sulle grandi masse, un’impressione destinata a durare nel tempo. Primo risultato di questo insegnamento pratico, il Governo ha preso il testimone e proseguito con un piano generale per lo sviluppo futuro della Capitale. Ciò avveniva meno di dieci anni fa, e sino a quel momento negli Stati Uniti non era mai esistita una Commissione di Piano; ma da allora in poi ogni città di qualche importanza del paese ha fatto lo stesso, e oggi sono al lavoro diverse centinaia di Commissioni di Piano. È un vezzo qualunque, una moda del momento, un interesse destinato a scemare e scomparire? Solo un giocattolo, oppure rispecchia una necessità urgente, mai avvertita prima ma che oggi appare essenziale all’umanità? Un esame di alcune di queste entità può contribuire a comprendere i veri scopi che animano questo lavoro. Il Washington Designing Board è stato nominato dal Governo; appoggiato dallo scorso Presidente e ancor più dall’attuale, poi il Congresso ha approvato la legge istitutiva della National Fine Arts Commission, il cui immediato e più importante compito è quello di far nascere il piano che oggi potete vedere qui esposto [si tratta naturalmente dello schema che comprende il progetto del Mall di Washington redatto dallo stesso Burnham n.d.t.].
Poi il piano di Manila, capitale delle Filippine, sostenuto da Taft allora Ministro della Guerra, una sua iniziativa personale. Un’opera ritenuta di alta importanza politica, e condivisa dallo straordinario Commissario Forbes, oggi Governatore delle isole. Poi Cleveland, Ohio, dove lo Stato ha approvato una legge speciale che consente alle grandi città di incaricare consulenti esperi, per progettare le grandi arterie, i parchi, fungere da giudici in tutte le materie di estetica urbana. Poi ancora San Francisco, dove un gruppo di privati si è è fatto carico del lavoro. Infine Chicago, col Commercial Club che ha nominato una commissione di quindici dei propri membri per l’impresa. C’è voluto un anno, e quindicimila dollari, a sviluppare le idee per Washington. Due anni e venticinquemila dollari per il piano di San Francisco. A Chicago si lavora da quattro anni, si sono spesi centomila dollari, e l’opera non è in alcun modo completa.
In tanti altri casi si è lavorato col medesimo impegno, mostrando lo stesso spirito aperto di quelli citati. Ma l’aspetto più significativo di questa nuova fase della vita degli Stati Uniti è il tipo di persone attivamente coinvolte. Si tratta dei migliori e più determinati uomini d’affari. A Chicago in tre anni si sono tenute duecento riunioni della Commissione Generale, alle quali erano presenti centinaia di professionisti: ingegneri, architetti, esperti di salute, ferrovie, trasporti e altro. Nessuno dei quindici componenti della Commissione è estraneo alla gestione di affari di enormi dimensioni, che non abbia importantissime responsabilità dirette in questioni proprie; eppure si sono fatti un punto d’onore di essere sempre presenti quando convocati, disponibilità confermata non solo per un paio di settimane, o un paio di mesi, ma per anni e anni, scrupolosamente. Ovunque è successa la stessa cosa. I sostenitori dell’urbanistica, in ogni città, sono gli uomini più preparati, ognuno di loro sente di non aver dovere più grave e importante: forse può essere interessante per gli inglesi sapere che proprio quando stavo partendo un mese fa, mi ha scritto da Montreal Sir William Van Horn, presidente del consiglio di amministrazione della Canadian Pacific Railroad, per comunicarmi di aver assunto anche la presidenza di una Commissione di Piano, e che voleva consultarsi con me a proposito delle idee per lo sviluppo di quella città. C’è un uomo, uno dei tre o quattro più importanti di tutto il Canada che volontariamente sceglie di dedicare anima e corpo al tipo di cose di cui stiamo parlando qui.
E ci sono tanti altri aspetti, tutti meritevoli di attenzione, che dimostrano quanto l’Urbanistica non sia certo cosa per gente che ha del tempo da perdere; ma credo non ci sia bisogno di spiegarlo proprio a voi. Sapete bene che il profondo interesse per la materia in tutto il mondo non è una moda passeggera, ma un fondamentale progresso nello sviluppo umano; significa che l’intera umanità, sinora animata dagli umori mutevoli del momento caratteristici della gioventù, sta per indossare la propria toga virilis. Se un grido, quasi universale, si leva a favore del buon ordine e della bellezza che ne consegue, se ogni uomo ovunque si trovi inizia a chiedere condizioni di vita più armoniose, ciò significa che la nostra specie è giunta ad una fase di sviluppo che nei singoli individui si chiama età adulta. Esistono altri inequivocabili segnali che la società, in questo 1910, sia progredita sino ad un livello senza precedenti, ma nessuno è più forte dell’interesse profondo nell’Urbanistica, che si manifesta ovunque.
Si possono fare tanti diversi progetti per una data città, ciascuno di essi può essere ottimo, e siamo certi che nel giro di alcuni anni tutte le città di una certa importanza ne avranno uno. Se bastasse questo, potremmo pensare che ovunque si affermino ordine e bellezza; ma oltre a scritti e disegni, c’è anche l’aspetto più difficile da affrontare: precisamente l’attivazione dell’interesse collettivo verso la pianificazione generale, la consapevolezza pubblica della necessità di una azione. Fra le persone presenti in questa stanza probabilmente chiunque saprebbe stendere un ottimo piano per lel grandi arterie di Londra, ma poi dovrebbe anche farsi carico di attuarlo. Però non credo sia impossibile. A Chicago oggi esiste in forma quasi ufficiale una City Commission, composta da cento persone, nominate dal sindaco e confermata dal consiglio, presieduta dalla medesima persona che era alla guida della Commissione di Piano voluta dal Commercial Club, Commissione che ha lavorato negli ultimo quattro anni verso il piano generale per lo sviluppo di Chicago che vedete esposto qui.
La nuova Commissione cittadina è stata istituita meno di un anno fa con l’obiettivo di attuare il piano, istituita con apposita delibera, secondo la quale sindaco e consiglio devono far riferimento ad essa quando sorgano questioni riguardanti le trasformazioni fisiche; l’amministrazione cittadina non può decidere fino al pronunciamento della Commissione. Un potere di controllo del genere può essere straordinario nel momento in cui un forte percentuale della popolazione della città ne capisce gli scopi e lo appoggia. Quattro cento fra i nostri migliori concittadini tesi ad un unico obiettivo sono come una falange greca, irresistibile contro i barbari. L’istruzione è importante, non solo per la soddisfazione dei singoli, quanto e molto più per il bene della cosa pubblica. Obiettivo di un governo dovrebbe essere il tipo di istruzione che sviluppa l’intelligenza collettiva: del genere che consente al cittadino medio di capire che genere e qualità di servizio pubblico può pretendere. Oggi negli Stati Uniti stiamo costruendo questo genere di intelligenza pubblica, forse a livelli mai raggiunti prima.
Tutti gli uomini sono responsabili per sé stessi nell’ambito della legge, ma solo pochi sono in grado, grazie alle proprie capacità e al proprio impegno, di vivere in un ambiente piacevole; tutti gli altri devono accontentarsi di ciò che hanno; ma anche a loro piacerebbe avere ambienti così gradevoli, nonostante disperino di poterli mai vedere. Però dovrebbe venire in mente, prima o poi, a chi vive un contesto di democrazia consolidata, che in quanto comunità si può avere ciò che ci è negato come individui, che si può chiedere un po’ di bellezza nella vita, e ottenerla. Potremmo pensare che arrivare a qualcosa di concreto, da questo punto vista, richieda un tempo molto lungo, ma ricordiamoci quanto è stato rapido lo sviluppo dell’intervento pubblico negli ultimi anni: tanto rapido, in realtà, che sarebbe difficile fissare un limite a quanto si può portare a termine in un solo decennio. Inoltre, il campo di azione si amplia man mano cresce la velocità di realizzazione, come ci insegna la storia degli ultimi sessant’anni. Nel 1850 gli Stati Uniti avevano pochissime strade lastricate, e neppure ce ne erano molte a Londra o Parigi. Pochi condotti fognari, reti idriche, del gas, niente linee elettriche e lampioni, tram, pochi marciapiedi eccetera. Paragoniamo l’insieme delle infrastrutture pubbliche di sessant’anni fa con quello di oggi, ricordando come nonostante questa enorme differenza si sia tutti molto più insoddisfatti di come si vive di quanto non lo fossero i nostri nonni. Facciamo cose che i nostri antenati avrebbero considerato magie, attrezzati come siamo di conoscenze scientifiche ed esperienze che a loro mancavano.
Gli uomini del 1850 sapevano molte cose, ma quelli del 1910 sanno tanto di più, al punto che le loro opere appaiono incredibili al confronto, e possiamo essere certi che gli uomini del 1960 ci guarderanno come noi guardiamo ai nostri predecessori. Ma non è solo nelle quantità di cose fatte o conosciute che si trova il progresso: sta molto più nella crescita esponenziale della raffinatezza, nell’ampliarsi della sfera delle conoscenze, che ogni anno interessano via via quote crescenti di persone. Ricordiamo sempre che conoscenza chiama desiderio, e il desiderio spinge all’azione. Per dirla breve riguardo ad alcune questioni materiali: l’aria delle città in futuro sarà più pulita, l’inquinamento del nostro tempo è fatto di polvere, fumo, scarichi degli impianti produttivi. Il fumo scomparirà adeguando i consumi di combustibili, e deve succedere presto, visto che non si sfrutta più della metà delle calorie del carbone: una stranezza che si fa ogni giorno più grave. Sinora non si è praticata un’attenta economia nello sfruttamento delle risorse naturali, ma si deve iniziare da qui in poi, se non vogliamo comportarci in modo immorale nei confronti della situazione in cui dovranno vivere i nostri figli. In più, dobbiamo fare economia anche per noi stessi, e la concorrenza già ci obbliga in questo senso. Il modo più immediato di economizzare sul carbone è di bruciarlo direttamente sul luogo delle miniere, e trasportare poi energia, luce, calore lungo i cavi, cosa perfettamente fattibile e già realizzata su lunghe distanze.
Ci possono anche essere altri metodi di trasmissione oltre a quello dell’elettricità, e l’uomo intelligente del domani potrà scoprirli. Tutte le vie di comunicazione, come quelle più importanti di New York, oggi sono elettrificate, e recentemente un alto dirigente di rete ferroviaria ha dichiarato che prevede di elettrificare tutto il percorso dalla costa fino a Chicago, una distanza di quasi millecinquecento chilometri. Molti responsabili delle ferrovie sono convinti che sia più economico rispetto a bruciare carbone nelle locomotive, almeno per il servizio passeggeri, dato che per ora non si capisce come il trolley così com’è sia adattabile al trasporto merci. Alcuni anni fa nei mattatoi di Chicago i confezionatori scartavano tutto dell’animale, tranne i tagli di carne; oggi si raccoglie e commercializza il sangue, le ossa, pelo e altre parti un tempo buttate via, diventate prodotti collaterali fonte di reddito. Non si riuscirà a trovare anche un uso commerciale per i gas? Lo chiedo perché chi brucia carbone e fonde metallo ha già imparato a sfruttare i propri gas, invece di buttarli.
Gary, una città non lontana a sud di Chicago, è il più grande laminatoio del mondo. Lì i gas prodotti vengono raccolti e bruciati per rifornire di energia l’intero complesso. La grande ferriera di Duluth vende il proprio gas sia all’amministrazione cittadina di Duluth che a West Superior per riscaldamento e illuminazione. È probabile che alla fine tutti i gas liberati per la produzione industriale saranno raccolti, e non tanto per una particolare propensione pubblica dell’impresa, ma per pura convenienza a non sprecarli e invece venderli. Piuttosto certa anche la previsione che nel giro di pochi anni si eliminerà completamente dalle città il fumo. Senza fumo e senza scarichi nell’aria, cosa può produrre polvere un una città dalle strade ben lastricate? Riesco a pensare solo a due cose: precisamente i cantieri edili e i cavalli. New York e altre amministrazioni obbligano i costruttori a evitare di diffondere polveri e terra al di fuori del proprio perimetro di attività. Gli scarti devono essere conferiti sino ai carri da trasporto in condotti chiusi, e anche i carri devono avere il rimorchio coperto di teli. Molte altre città adotteranno in futuro le medesime norme.
Nelle grandi città si avvia a finire l’era dei cavalli, dato che il veicolo a motore è diventato molto economico, e lo sarà presto ancora di più. Finito l’uso dei cavalli, finirà anche l’epoca di barbarie in cui viviamo ancora oggi. E sarà un vero passo avanti per la civiltà. Niente più fumo, niente più scarichi, niente più sporco dei cavalli, la nostra aria e le nostre strade saranno pulite e pure. Non accadrà la stessa cosa anche alla salute e all’umore degli abitanti? Di sicuro sarà una grande economia, vuoi per l’amministrazione che potrà evitare un esercito di spazzini, vuoi per ogni esercente, industriale, famiglia o individuo la cui persona e possedimenti sono oggi lordati e spesso rovinati. Aria e strade nelle città future saranno pulite quanto il soggiorno di casa nostra; si abiterà in condizioni assai più gradevoli diventando cittadini migliori, non è vero? È ovvio quindi che un’aria più pura è un vero problema di Stato.
Dell’acqua c’è poco da dire in queste considerazioni generali, tanto si è fatto e tanto si sta ancora facendo, con straordinarie capacità, per assicurare condizioni sanitarie sufficienti a bacini e condotti. Ma diventa anno dopo anno più evidente che la norma per il futuro dovrà essere un miglior controllo dei consumi; anche qui, come nel caso di altre risorse, si deve applicare una rigida economia. Le fonti d’acqua delle città negli Stati Uniti sono straordinariamente abbondanti, si tratta di risorse che risparmiate sono più che sufficienti ai nostri bisogni reali. Da questo punto di vista gli uomini del futuro avranno poco da fare salvo continuare con l’economia. Non tratto il tema dell’organizzazione di strade e viali perché è stato specificamente assegnato ad altri, e perché non esistono teorie generali applicabili in ogni caso: il sistema stradale di ciascuna città propone uno specifico e particolare problema.
Se dovessi trattare il tema delle strade, preferirei farlo in un caso specifico, ma non oggi. D’altronde non pare fuori luogo parlare di grandi arterie di comunicazione nel cuore delle grandi città, perché sono sempre congestionate, e la congestione ci porta al tema dei trasporti. C’è una intollerabile congestione in tutti i centri delle grandi città, in Europa e negli Stati Uniti. Là dove esse sono piene di gratta-cieli, come a New York o Chicago, la congestione non è peggiore che in alcune zone di Londra o di Parigi. Le arterie più trafficate sono quelle del commercio al dettaglio, anche se quelle del commercio all’ingrosso o della produzione seguono molto da vicino. Al momento risulta impossibile allargare queste vie — indipendentemente da quanto possa succedere in futuro — e quindi ci sono interventi da fare per migliorare le cose: più precisamente, deviare chi oggi le affolla verso altre direttrici, oppure modificare le strade in modo che possano sopportare più traffico.
Oggi si lavora soprattutto verso le modifiche stradali, e appare abbastanza evidente che si saranno esaurite abbastanza presto tutte le possibilità di far circolare le folle in ogni grande arteria centrale. Ovunque la congestione si fa più grave, e la Stampa spinge sempre più sulle amministrazioni perché intervengano. Un incalzare che porterà le città del futuro a dotarsi di gallerie, single e spesso anche doppie, sotto tutte le arterie commerciali. Che porterà a un utilizzo intensivo delle superfici stradali attuali, alla realizzazione frequente di due livelli, e poi di molti altri al di sopra delle linee di trasporto. Esistono già zone in ogni grande città in cui anche utilizzando tutti gli strumenti citati si riuscirà a malapena a muoversi. Così col tempo dovranno anche cambiare le nostre abitudini: magari con meno propensione a tuffarsi febbrilmente nei grandi centri di attività. Confesso però che non vedo forti segnali in questo senso, e in ogni caso mi sembra un problema troppo lontano nel tempo per doverlo discutere ora. L’urbanista — quello che si occupa di strade intendo — può far molto per alleviare la congestione organizzando sistemi di arterie tangenziali alle zone più affollate; ma la direzione in cui lavorare davvero è far diminuire la quantità di persone, o veicoli, o entrambi, dentro quello spazio, e allentare così la congestione futura.
Aiuta il diffondersi del veicolo a motore, ma il contributo principale arriva dai nuovi modi di gestione delle merci. Parlando molto in generale, nel centro della città futura non arriverà niente che non sia destinato al consumo locale. A Chicago oggi il 66% del tonnellaggio in entrata e in uscita riguarda la distribuzione in altre località, solo il 33% l’uso interno. Da questo punto di vista nella Relazione del Piano per Chicago abbiamo studiato un meccanismo di gestione merci a scala urbana che dovrebbe sostituire totalmente quello attuale frammentato e molto costoso. Si tratta di un grande unico complesso abbastanza semplice di scali, depositi e magazzini coordinati, a dodici chilometri dal centro, verso cui convergono tutti i convogli, scaricano, e ripartono ricaricati. Dai magazzini si dirigono verso la città in galleria tutte le merci. Nel caso specifico di Chicago il sistema scali-magazzini-gallerie si collega ai due porti alle foci dei fiumi Calumet e Chicago, distanti fra loro diciotto chilometri. E si propone di usare anche nel quadro del sistema le gallerie già presenti sotto le arterie centrali.
Si tratta di gallerie alla profondità di circa quindici metri, con una estensione complessiva di cinquanta chilometri. L’impianto coordinato centrale sarà attrezzato di carri ponte e altre strutture per ridurre al minimo i costi di gestione unitaria per peso merce. La proprietà sarà condivisa da tutte le compagnie che ferroviarie operano in città. Negli ultimi anni le strutture dei terminali di Chicago per due volte si sono dimostrate evidentemente inadeguate a svolgere il proprio servizio, dato che ciascuna direttrice opera separatamente con una propria stazione, e con ventiquattro linee ferroviarie che fanno capo alla città, nessuna delle quali poteva gestire i propri flussi al 1907. Spontaneamente ciascuna gestione vuol conservare anche il più piccolo vantaggio rispetto alle altre, quello specifico terminale, e tutti guardano alla struttura unica con scarso interesse; ma insieme le esigenze di commercianti, industrie, artigiani e magazzini imporrano la questione nel giro di pochissimi anni, dato che l’uso attuale di spostare merci in superficie è assai costoso e va superato.
Una volta attuato il piano per le merci le strade del centro città con saranno liberate da quel traffico, che oggi è il 50% del totale, e nelle vie potranno passare molte più persone e veicoli, esclusi quelli più pesanti che logorano la pavimentazione, garantendo così una migliore economia nelle spese pubbliche. Sviluppando ulteriormente il tema stradale, la spesa maggiore nei tempi lunghi è quella della manutenzione, non della costruzione di una strada. Esistono molte ottime tecniche di pavimentazione per le arterie centrali, con costi che non cambiano di molto, ciascuna durevole sempre che la via non venga continuamente scavata e richiusa, o come spesso succede neppure risistemata dopo lo scavo. È anche possibile che vengano sostituiti in tempi non troppo lunghi gallerie, condotti fognari, acquedotti, tubi per la posta pneumatica, perché le conoscenze nei vari campi cambiano e i sistemi attuali potrebbero rivelarsi presto antiquati. Non varrebbe quindi la pena di pensare a un intervento radicale, ovvero di scavare da un fronte edificato all’altro a una profondità sufficiente a qualunque linea di trasporto o rete, così che non sia più necessario intervenire sulla superficie stradale? Sono convinto che si rivelerebbe un metodo economico sia per gli enti che erogano servizi pubblici che per l’amministrazione. Ed eliminerebbe di sicuro una delle cause della congestione, dello sporco, del disagio continuo. C’è qualche dubbio che la città futura gestirà le proprie vie centrali, magari anche tutte le vie, in questo modo?
Quanto tempo è passato da quando non esistevano parchi pubblici? Da questo punto di vista il cambiamento in cinquant’anni è molto visibile. Oggi non esiste una città, di qualunque dimensione, che non abbia almeno un ottimo parco, e tutte quelle più grandi ne hanno parecchi. Le vecchie città europee sembrano aver compreso questa necessità e risposto al bisogno di boschi nei grandi centri, mentre gli Stati Uniti al momento attuale non ci sono ancora arrivati. Ciò perché le aree boscate nei pressi delle città europee erano riserve di caccia per re e nobili, abbastanza facili a spazi naturali per il popolo. Oggi questa necessità inizia ad essere avvertita anche negli Stati Uniti. Per esempio,grazie a una recente donazione di terreni al di là del fiume Hudson la città di New York City avrà a disposizione migliaia di ettari di boschi a uso pubblico. Un urbanista deve considerare di grande importanza le aree a bosco nel suo piano, per l’effetto che la natura ha sul cittadino. Fermi restando tutti gli altri aspetti, l’uomo abituato a vivere a contatto con la natura ha un grande vantaggio rispetto a chi è cresciuto unicamente nell’ambiente della città.
Predisponendo un progetto generale di interventi pubblici per una grande città, l’urbanista deve tenerne conto e prevedere ampie superfici a bosco vicino ai nuclei residenziali sovraffollati, capendone il ruolo costitutivo e salutare nella vita di chi ne subisce l’influsso. Offrite ai vostri concittadini i piaceri della natura e del bosco, è lì che troverà un balsamo per l’anima; la natura dovrebbe essere vicina, in modo che il lavoratore stanco riesca a goderne ogni giorno pur continuando nelle sue incombenze quotidiane; e se una città si afaccia su un’ampia superficie d’acqua, lasciamo che le sponde siano per la gente. Non è questione di semplice diletto e piacere, ma di innocente gioia dei singoli che sa diventare poi bene comune.
Il grande parco a metà naturale, per l’altra metà più formale, non sarà oggetto di alcun mio commento o previsione per il futuro. Ce ne sono già molti, mai abbastanza celebrati, ed è difficile pensare a luoghi più belli e adeguati di quelli che già abbiamo, non in modo episodico ma in tanti posti, soprattutto a casa nostra. L’urbanista ha un compito piuttosto facile per quanto riguarda i parchi delle grandi città, e salvo nel caso in cui stia progettando una città totalmente nuova scopre quasi sempre che ce ne sono già in abbondanza. Esistono alcune teorie generali in materia su cui la mia relazione non si sofferma, fra di voi c’è chi ne sa molto di più. Dirò solo che per quanto belli possano essere tanti parchi di grande città, essi potrebbero diventare ancora più belli se il loro verde crescesse in una atmosfera più pulita. Recentemente si è affermata anche l’idea del piccolo parco di quartiere, e molte città ne hanno realizzati negli ultimi anni pensando ai giochi all’aperto per bambini e ragazzi.
A Chicago il South Park Board ne ha acquisiti e parzialmente attrezzati quattordici, mentre altri sono in corso di realizzazione. Nei quartieri controllati da questo ente risiede poco meno di un terzo della popolazione della città. I parchi di quartiere variano in dimensione da quattro a ventiquattro ettari. Ciascuno è attrezzato con sala civica, spazi per la lettura, mensa, due palestre (una maschile e una femminile), piccole piscine e comodi spogliatoi, grande bacino per il nuoto all’aperto da usarsi separatamente da uomini e donne in momenti diversi della giornata. Esiste anche una palestra all’aperto per le ragazze vicino al laghetto per i più piccoli schermati da alberi e siepi; poi altri spazi all’aperto per esercizi e corse dedicati ai ragazzi e pure schermati. In ciascun parco ci sono ampi spazi per le attività che li richiedono, e in tutti i quartieri dove questi spazi sono attivi la polizia afferma che certe categorie di reati prima maggioritarie sono scomparse.
I progettisti speravano proprio in questo. I grandi spazi aperti sono un sollievo dalla stanchezza e dal lavoro per gli anziani; si incontrano nelle sale comuni, dedicate a varie attività, dalla lettura alla musica, o alle danze, o a iniziative particolari tutto gestito direttamente; le strutture per i bagni sono molto frequentate quotidianamente da uomini e donne e bambini. Palestre e spazi per esercizi all’aperto sono sempre pieni. Tutte le zone dei parchi sono costantemente controllate da responsabili, maschi e femmine. E i risultati si vedono. Anche gli stessi anziani appaiono comportarsi in modo più consono, di rispetto per sé stessi, di quanto non accadesse quando nessuno li vedeva fuori dalle loro case: gli si dà l’occasione di sperimentare e praticare buone maniere, di elevarsi — il meglio di quanto si può offrire — e appare chiaro quanto esposizione all’opinione del pubblico abbia un effetto salutare su questi anziani, in ciascuno dei piccoli parchi di quartiere.
Ma l’effetto di gran lunga più visibile è quello sui bambini e in genere i giovani. Che sono attirati all’aperto dalla bellezza di spazi e percorsi, dai giochi e passatempi, dove trascorrono gran parte delle ore della giornata libere dalla scuola o dal lavoro, e dove sviluppano nuove e inedite abitudini, del corpo e della mente; dove crescono in piena vista della comunità sfuggendo al tipo di pratiche che si annidano nei luoghi nascosti, e che prima che essi ne siano consapevoli ha avvelenato le loro menti e impedito che diventino buoni cittadini. Gli spazi da gioco promuovono salute, e in urbanistica dovrebbero stare al primo posto: lo saranno nel giro di una generazione, quando se ne raccoglierà il frutto in termini di uomini e donne più soddisfatti e consapevoli. Nelle città del futuro non dovrebbe esserci casa da cui non sia possibile raggiungere facilmente un parco pubblico del genere. Un mio amico ha provato a chiedere a un monello in uno di questi parchi se ci avesse imparato qualcosa. Il ragazzo ha esitato un attimo, poi ha risposto: «Si: ho imparato ad aspettare il mio turno» Ciò dimostra come avesse capito quanto quel luogo sia pensato come ambito in cui si coltiva la legge, e quanto progresso avesse compiuto imparandolo.
Più piccoli parchi del genere, più giovani attirati verso essi, più realizzato quanto Licurgo sperava in ogni legge promulgata. L’ambiente non cambia l’individuo in sé, ma lo modifica in bene o in male. «Caveant consules ne quid res publica detrimenti caperet». L’urbanistica non ha limiti prefissati. La si può coltivare una vita intera senza esaurirne le possibilità per il futuro. Resta sempre però il problema, esaminando una specifica città, se sia più saggio limitare le indicazioni alle attuali possibilità e mezzi disponibili, oppure elaborare uno schema così come detta l’immaginazione pur ragionevole. Se ci si limita alla prima possibilità si penalizza e si rende inefficace il proprio lavoro, e non si evoca entusiasmo, senza il quale non si arriva a nulla di notevole; c’è persino da dubitare che così si realizzino anche le povere cose proposte. Così è l’uomo!
Il sostegno arriva invece per le grandi cause, quando l’uomo si riscuote e sa allontanarsi dall’ovvio, dal luogo comune. Non che ovvio e luogo comune debbano essere trascurati, affatto; ma arrivarci dovrebbe significare anche mirare ad altro. E c’è anche un altro modo di guardare alla medesima questione: esattamente quanto osservato all’inizio del discorso, che ha a che fare con lo sviluppo delle conoscenze umane, della percezione, del desiderio. Il tema da cui sono partito, del possente cambiamento degli ultimi cinquant’anni, de ritmi che si sono immensamente accelerati, dei nostri figli e nipoti che chiederanno e otterranno cose in grado di lasciarci esterrefatti. Ricordiamoci sempre che un grande piano, logico, nobile, una volta proposto non morirà mai; anche quando noi non ci saremo più lui continuerà a vivere, riaffermandosi con autorità crescente. Soprattutto ricordiamoci che l’uomo più grande e nobile deve ancora arrivare, che sarà sempre così, perché altrimenti l’evoluzione è solo un mito.
Estratto da: Royal Institute of British Architects, Town Planning Conference, London, 10-15 ottobre 1910 – Titolo originale: A city of the future under a democratic government – Traduzione di Fabrizio Bottini
Su questa stessa sezione Antologia, vedi anche Daniel Burnham e l’incarico per il Mall di Washington (1921)
Immagine di copertina, quasi ovviamente, da Metropolis di Fritz Lang, 1927