La differenza tra un piano e un progetto, detta in termini brevi, schematici, giusto per capirsi ma magari anche no, sta nelle variabili. Il piano nasce dalle variabili, è un prodotto delle variabili. Il progetto al massimo le tollera, se riesce a digerirle. Un piano è costellato di “se” o di tanti “eventualmente”, ne costituiscono la struttura, mentre un progetto li contiene, li delimita, li sfrutta. Questo nella forma pura, da laboratorio, inesistente nella valle di lacrime che abitiamo noialtri. Qui da noi impera invece il piano progetto, variante spuria a minestrone stracciatella che comprende un po’ l’uno e un po’ l’altro. Tocca contentarsi. L’una e l’altra prospettiva però finiscono per scavarsi da sole un proprio percorso: inerzia della logica, forza del destino. Così nascono le civiltà e le città. Forse consapevoli di stare dentro questo meta-laboratorio, insistiamo da secoli nella pratica del piano-progetto, specie nella variante della cosiddetta utopia, del posto che non sta in nessun posto e che quindi si permette ogni genere di stupidata per licenza poetica. Salvo poi estendere la licenza alla vita di chi, spesso volente ma qualche volta neppure tanto, ci si ritrova immerso.
Nel progetto tutto si deve collocare e risolvere
Quando si progetta l’utopia ogni casella del mosaico deve incastrarsi al suo posto, nulla è lasciato al caso. Faccenda ancor più rigida quando al progetto dell’utopia si sovrappone il racconto progettato del medesimo progetto di utopia, come nel racconto dell’ultima edizione del festival Burning Man, tenuto a Black Rock City, Nevada, nei giorni scorsi. Questa Black Rock City in realtà non è affatto una city, ma una specie di enorme campeggio (da sessantamila e passa abitanti) che però viste le dimensioni fisiche dell’insediamento, nonché le intenzioni degli organizzatori, ha in effetti alcuni caratteri diciamo così urbani. Ed è progettato da una specie di urbanista, e gestito da una specie di amministrazione, ma nulla più di quanto non accada con un campo militare, un campeggio scout, una concentrazione di profughi sul confine di uno stato in guerra. Ma quando si comincia parlare di città, di utopia, di prospettiva progettuale scatta l’automatismo inconscio, col gioco del tutto si tiene. Il racconto di Black Rock City parte da una vaga impressione superficiale, si sviluppa senza verificare e riflettere, e finisce decorosamente ma senza farci andare un passo oltre il solito “teatro come città virtuale” della critica architettonica più classica.
La vera utopia, e quella destinata al consumo personale
Le utopie sociali sicuramente contengono elementi di progetto, ma sanno già in partenza di essere una specie di Ogm destinato alla mutazione appena rilasciato all’aperto. Questo lo sanno gli utopisti, e chi prova a considerarli con un minimo di attenzione, mentre ci sono un sacco di altri personaggi che per così dire guardano solo le figure. Gente che fa un po’ come certi architetti, quando straparlano di “crisi del piano” o addirittura di “crisi della pianificazione”, perché una certa forma spaziale non si è realizzata, o semplicemente non si è realizzata un paio d’anni dopo l’adozione del piano. Stavolta l’analisi di Black Rock City parte dall’immagine aerea ripresa da un drone, senz’altro suggestiva, di una mezza fascia circolare tagliata da radiali, e focalizzata sul lynchano riferimento principale del Burning Man, simbolo ed evento finale del festival. Suggestiva panoramica, ma non al punto di confondere così le idee, da far mettere nero su bianco che “il piano di Black Rock City è molto simile alle città giardino concepite da Ebenezer Howard all’inizio del XX secolo”. A sottolineare il concetto, lì accanto spunta uno dei tanti schemi grafici che si accompagnano da sempre a questa stranota utopia, quello a settore circolare che definisce la circoscrizione della ward, o quartiere autosufficiente, o unità di vicinato come verrà chiamata qualche anno dopo. Cedendo alla suggestione delle immagini superficialmente simili, non solo si accostano due cose che non c’entrano nulla l’una con l’altra, ma si evita scrupolosamente di leggere la precisazione cubitale di Howard, che avverte l’inclita: “Attenzione! Questo è da considerarsi solo uno schema diagrammatico, perché la forma effettiva dello spazio dipende dal contesto specifico”.
La strage degli ultracorpi innocenti
Seguono osservazioni anche magari condivisibili, su questo o quell’aspetto dello spazio simil-urbano, o addirittura simil-suburbano, visto che come accade ovunque esistono luoghi più centrali e luoghi che lo sono meno, ambiti più densi e più sfrangiati. Osservazioni che recuperano addirittura certe teorie di Jane Jacobs (in un festival artistico?) pur ben consapevoli che qui si sta in un contesto artificiale, privo di tensioni economiche degne di questo nome, privo di rapporti qualsivoglia con la rete di consumo, che assomiglia se si vuole parecchio a Woodstock, con molta meno gente, e quasi niente a certi quartieri da sessantamila persone, che però hanno caratteristiche spazio-sociali del tutto irreperibili qui. Perché mai, visto che ci troviamo in Nevada, non si evoca invece la Arcosanti di Paolo Soleri, o salendo ancora un po’ i gradini del riferimento progettuale direttamente la Taliesin di Frank Lloyd Wright? Forse semplicemente perché dentro le utopie con contenuti sociali ci si sente più liberi di cazzeggiare, senza nessuno che ti venga a disturbare perché hai svegliato il mostro della critica conformista. Con le utopie, si sa, il conformismo ci azzecca pochissimo. In fondo ricorda certi nostri poeti-spazialisti nazionali, che risolvono qualsiasi contraddizione con una bella frase, e lanciando il cuore oltre l’ostacolo. Il problema sorge però quando, ed è il destino delle utopie sociali, il cuore lanciato oltre l’ostacolo non è solo il nostro.
Riferimenti:
Steve Pepple, What Burning Man Taught Me About Cities, Medium, 10 settembre 2014 (con numerosi links esterni)