(parte prima)
Col superamento della società fordista non sono venute meno le visioni del mondo che ne avevano accompagnato l’avvento. Leggendo Hegel in funzione dell’interpretazione del nostro tempo, si ha la netta impressione che alcune figure da lui utilizzate, sebbene poi riprese da Marx nella logica del superamento delle contraddizioni sociali, siano in qualche caso più utili, cioè più adatte alla comprensione del presente, forse perché più universali dell’adattamento che ne ha fatto lo stesso Marx. Penso in particolare alla figura Signoria-Servitù o Padrone-Servo.
La radicalizzazione di questo rapporto, così come si configura in Marx, porta necessariamente, anche se non in maniera deterministica, al suo superamento nella società senza classi. Per Marx, in altri termini, i rapporti di produzione capitalistici, sono l’ultima stazione di una traiettoria storica lungo la quale i rapporti di classe di semplificano fino al limite estremo in cui, soppresse tutte le forme estranee al rapporto economico in senso stretto, schiavitù, rapporti feudali, eccetera, restano sulla scena solo i due protagonisti, il capitalista e il proletario. In qualche modo siamo così ritornatiai primordi della vita umana, cioè a quello che per Hegel era il punto di partenza, la figura universale di una lotta tra servo e padrone che si perde nella notte dei tempi. Il punto critico dello storicismo di Marx consiste nel fatto che lui tira dritto verso un’unica soluzione, quella già intrinseca nel processo dialettico della lotta di classe. Oggi però, per così dire, quella conclusione ci appare avventata, non falsificabile perché non soggetta alla verifica del tempo storico. Il sistema di produzione capitalistico infatti, non essendo formalizzato in istituti e rapporti di tipo giuridico, come era ad esempio l’ordinamento feudale, sembra non poter morire e continuiamo a chiamarlo tale per pigrizia intellettuale, nonostante gli sforzi compiuti da alcuni avventurieri del pensiero per trovare definizioni più adeguate. E questo nonostante il capitalismo abbia perso gran parte delle connotazioni che gli erano proprie al tempo di Marx.
Data la nostra incapacità di ridenominare la Cosa, viviamo così nella inconscia illusione che la storia farà prima o poi un passo a ritroso in direzione della semplificazione che aveva intravisto e previsto Marx, dove il lavoro possa riemergere nella sua piena centralità. È la forza dell’abitudine, o forse il nostro incoercibile passatismo che ci induce a mettere il lavoro in testa a tutti i programmi politici, per lo più in maniera del tutto retorica dal momento che le difficoltà pratiche paiono del tutto insuperabili. Non si guarda però al lavoro come rapporto sociale o come autorealizzazione dell’uomo, cioè come categoria interpretativa della società in senso pieno, ma al lavoro inteso come soluzione pratica di tutte le contraddizioni che sorgono nel cuore della società. In altri termini il lavoro resta, a dispetto di melense retoriche, sempre e solo il corrispettivo di un salario. La semplificazione estrema in questo senso la possiamo ritrovare nell’espressione “creazione di lavoro”, intesa come obbiettivo politico.
In Hegel invece, sebbene il lavoro sia al tempo stesso la ragione del rapporto servo-padrone e il terreno su cui si forma l’autocoscienza del servo, l’idea centrale di tutta la dinamica, cioè l’elemento che innesca e che imprime movimento alla società, è il Riconoscimento, di cui il lavoro costituisce, per così dire, una funzione. La lotta per il riconoscimento è la ragione del movimento storico ed è nell’attività formatrice, cioè nel lavoro in quanto tale, che il servo ottiene il suo primato sul signore, al quale spetta unicamente il godimento passivo del prodotto.
Ma cosa accade se il lavoro viene svalutato al punto da configurarsi come elemento marginale dell’intero processo sociale di produzione, cioè se ha perso la potenza capace di strutturare l’identità del lavoratore e l’interezza dei rapporti sociali, questo né Hegel né Marx l’hanno spiegato. Mentre però nel marxismo la fine della storia sfocia nell’estinzione dello stato e nel comunismo, intesi non tanto come formazioni politiche da realizzare, ma come necessità dialettiche, Hegel, almeno nella figura Signoria-Servitù,lascia aperto uno spazio problematico molto interessante seppur non facilmente colmabile. La questione potrebbe porsi in questo modo: cosa succede se nella lotta per il Riconoscimento viene meno, o meglio si rende invisibile, il campo di battaglia in cui la lotta stessa dovrebbe svolgersi?
Nella società industriale la lotta per il riconoscimento ha una sua evidenza storica contrassegnata da una serie di conflitti che non sono solo e tanto economici, ma veri e propri scontri sociali che hanno come posta in gioco il riconoscimento stesso, nella forma di specifiche rivendicazioni. La lotta cioè è diretta, senza velature o intermediazioni. Proletario e borghese stanno uno di fronte all’altro e il proletario, ultimo rappresentante della genealogia dei sottoposti, ritrova nel suo gruppo di fabbrica e poi nella classe i pilastri che ne sostengono l’identità. Il lavoro è necessario tanto al suo riconoscimento quanto al riconoscimento del borghese in quanto tale e la lotta di posizione che si svolge sul suo terreno finisce con l’essere accettata da entrambi, nei limiti in cui può valere una simile affermazione, come lotta tra “giusti nemici”. In tal modo l’originaria lotta per la vita e la morte, da cui muove la ricostruzione di Hegel, aveva trovato una sua ragionevole ricomposizione in tutta una serie di istituti che toccava alle forze politiche e sindacali rendere funzionali. Il nemico restava nemico, ma era un nemico necessario, perché ormai, portato a compimento il processo del riconoscimento reciproco, era stato, per così dire, raggiunto un buon compromesso sul tipo di armi da utilizzare. Oggi il nemico è sfuggente e le armi non pungono più. SEGUE …