Senza il Welfare lo stato moderno e la politica stessa perdono la propria legittimità. Persino la politica estera, l’attività più pertinente ed esclusiva dello stato, si giustifica, anche nelle sue pratiche meno apprezzabili, come la guerra, in funzione di un fine più generale, la sicurezza e il benessere dei cittadini. La questione non è certo nuova, anzi è vecchissima, e risale almeno alle politiche del dispotismo illuminato settecentesco, per restare all’epoca moderna. La critica illuministica di Kant allo Stato Eudemonologico ha creato un certo disorientamento anche fra gli studiosi, perché questa riguarda proprio gli aspetti della politica statale che si riferiscono alla vocazione che lo stato si è assunta riguardo alla «felicità dei sudditi» in contrasto col vigente credo liberale. Si può dire in sostanza che con Kant, se le libertà civili fanno un passo in avanti, il Welfare State fa un passo indietro. Toccherà ad Hegel, e in particolare alla sua formulazione dello Stato di Polizia, ristabilire in qualche modo un criterio di legittimità dello stato centrato sulla sicurezza e sul benessere dei sudditi ormai diventati pienamente cittadini. Però non va dimenticato che la storia era cominciata prima di Hegel.
Abbiamo così il teorico dell’illuminismo che si fieramente contrario allo stato di benessere, perché incompatibile con le libertà civili, e il filosofo dello stato organico che ne ristabilisce la validità quale criterio di legittimità del governo in funzione del superiore diritto alla vita. Per mille ragioni legate alla crisi economica e politica, il Welfare ritorna dunque la questione centrale ma, come è dimostrato dalle recenti vicende inglesi, non è per niente acquisito che i partiti nel loro insieme lo possano assumere come criterio di validità della loro politica. Anzi, la crescente finanziarizzazione dell’economia e l’insolubilità della questione occupazionale dovuta alla nuova rivoluzione tecnologica, accompagnate dal decadimento del ceto politico, lasciano pensare che torneranno a far la voce grossa le ideologiche semplificatorie che ne sanciscono la morte, come avvenne sul finire degli anni ’70.
Le posizioni più agguerrite nei confronti dello stato sociale però, per ragioni ideologiche e di consenso, non avranno vita facile nemmeno a destra, perché l’emergere dei sovranismi e delle nuove forme di totalitarismo statalista vanno esattamente nella direzione opposta. Sorge un problema decisivo per la sinistra, perché se non riesce a dotarsi di una politica autonoma all’altezza dei tempi è destinata a marginalizzarsi e si troverà ben presto a dover scegliere se parteggiare di fatto per una destra sovranista, corporativa e autoritaria, impegnata nelle politiche di un Welfare, tendenzialmente competitivo e su base etnica, o per un’altra destra, liberale e democratica, ma sprofondata nel liberismo e animata dai cosiddetti spiriti animali, come quella che recentemente ha fatto una sua fugace apparizione nel Regno Unito, da alcuni ritenuta velleitaria solo perché sgangherata e intempestiva. Si comprende che come alternativa non sia granché. Per questo occorre, ed è abbastanza urgente, che la sinistra imposti una nuova politica di welfare, riconoscendone le radici tutt’altro che lineari e la problematicità, per andare oltre. E andare oltre oggi significa sostanzialmente rifondare lo stato sociale su basi scientifiche, strutturandolo come criterio di validità e legittimità di tutta la politica economica. Vedremo se il dibattito congressuale del Partito Democratico riuscirà almeno a lambire la questione.