Partiamo dall’estremità opposta, e riflettiamo un istante sul luogo che dovrebbe essere il massimo della salute, e invece non lo è particolarmente o non lo è affatto, ovvero il suburbio. Eppure è verso la bassissima densità urbana che, sulla base di constatazioni forse un po’ datate ma innegabilmente basate su dati scientifici, si indirizzavano e ancora si indirizzano in parte le speranze degli ideologi antiurbani riguardo alla salute fisica e mentale: disponibilità di grandi spazi aperti, prossimità alla natura, possibilità infinite di attività motorie sportive e non, ambienti rilassanti, silenzio, spettacoli dell’agricoltura, della flora, della fauna, delle attività tradizionali non scandite da tempi meccanici. Tutto questo pareva poter garantire non solo una qualità della vita soggettiva infinitamente superiore a quella dell’abitare urbano classico, ma anche un benessere fisico e psicologico saldo e duraturo, età media della popolazione più avanzata, sviluppo fisico di una specie di nuova razza, per dire. E invece niente, o al massimo molto poco e molto per caso. Perché?
La colpa non è delle automobili
Il lettore forse qui si aspetterebbe lo svolgimento classico della fiaba urbano-territoriale: tutte le promesse dei pionieri della suburbanizzazione sono state tradite dal mutare della situazione con l’automobilismo di massa, che ha iniziato a distorcere l’idillio perfetto iniziato nella traccia degli utopisti di età industriale … Ma non è affatto così. La questione del suburbio è ben diversa: a quanto pare tutta la voglia di lasciarsi alle spalle i mali della città ha finito per abbandonare a propria insaputa anche certe intangibili qualità che conferivano all’ambiente cittadino una marcia in più, quanto a qualità della vita e della salute. Un posto salubre per il corpo e lo spirito, in senso individuale e collettivo, si deve poter costruire e rinnovare da solo, ovvero non dipende affatto da un «progetto» (come quello sostanzialmente edilizio ed economico del suburbio) ma da un processo storico molto più complesso, che include via via soggetti ed elementi ad assetto variabile.
Per farla breve
Un posto sano non lo è una volta per tutte: si costruisce di continuo di contributi e alleanze. Ci vogliono certo piani e programmi intelligenti e avveduti, ma anche visioni politiche, investimenti, coscienza collettiva al lavoro. Edilizia e urbanistica hanno un ruolo importante, a volte essenziale, ma non sono nulla senza aggregazioni sociali, singoli individui che esprimono indirizzi, amministrazioni elette lungimiranti. Poi ci sono le stratificazioni culturali, accademiche, i servizi propriamente socio-sanitari (in senso allargato, pensiamo all’ambiente, pensiamo agli spazi dell’economia e via dicendo) a svolgere una funzione essenziale: ogni innovazione in questi ambiti vuol dire riplasmare immediatamente, e ancora di più nel tempo, il metabolismo urbano e lo spazio in cui si svolge. Insomma lasciamo che la prospettiva del «progetto» lavori al meglio là dove riesce a isolare una domanda, un campo circoscritto, una propria offerta. Il resto è vita, come prova a spiegare dal proprio punto di vista anche chi di progetti vive da sempre, come un centro studi fondato da costruttori illuminati.
Riferimenti:
Urban Land Institute, Building Healthy Places Through Innovation and Exchange, rapporto settembre 2015 (scarica direttamente il pdf dal sito della sezione di San Francisco)