Metropoli Usuranti

[Antonietta Mazzette, Emanuele Sgroi, La metropoli consumata: antropologie, architetture, politiche, cittadinanze, Franco Angeli, Milano 2007]

Foto F. Bottini (via Emilia)

«Sono contrario alle piccole gallerie diffuse un po’ ovunque. Meglio focalizzarsi sui luoghi dove c’è bisogno di servizi … però, sarà necessaria la metropolitana» (*). Così si esprime pubblicamente il sindaco di una grande città, definito uno dei migliori leaders mondiali dall’autorevole voce di un cantante pop. Una frase, quella del sindaco, che sembra – più o meno – uscita dai pieghevoli pubblicitari di un operatore della grande distribuzione. A dir poco, una semplificazione eccessiva, magari frutto di qualche forzatura giornalistica: come si sa, proprio quella della capillarità di presenze commerciali e di servizio, è non da oggi questione che anima il dibattito, anche internazionale, sulla forma urbana, sulle pari opportunità di accesso per giovani, anziani, disabili, e financo su tematiche delicate e assai attuali per la politica, come quelle della sicurezza.

Ma questa eccessiva «semplificazione giornalistica» riguardo ai temi della città e del territorio appare troppo ricorrente, per non indicare qualcosa di più profondo. Proprio mentre scrivo queste note, ad esempio, dalle pagine di approfondimento di un altro grande quotidiano il grande architetto griffato di turno dichiara: «Siamo un volano per l’economia. Ecco perché ci chiamano» (**). Decisamente, la sparata autoreferenziale di un artista: come chiunque dotato di un briciolo di buon senso (grande architetto compreso) ben sa, i «volani dell’economia» sono ben altre e complesse miscele di fattori locali, regionali, e sempre più anche globali. Certo, anche le architetture nella nuova economia dei consumi metropolitani globalizzata giocano un ruolo nuovo, ben diverso da quello del semplice simbolo monumentale da proporre nelle cartoline o nella promozione di alberghi. Ma sorprende quanto e con che velocità si stia diffondendo, questa tendenza a confondere la parte col tutto, in un gioco di comunicazione che apparirebbe innocuo se non permeasse di sé decisioni «strategiche», con effetti di lungo periodo, decisioni che spesso e volentieri paiono confidare ciecamente in concetti come l’architettura simbolo (o qualche altro segno o marchio) che si transustanzia in volano dell’economia.

Accade, tutto questo e molto altro, in quello che Antonietta Mazzette e Emanuele Sgroi chiamano «luogo di attivazione del popolo dei consumatori urbani, con i suoi spazi, il suo corredo monumentale ed architettonico, i suoi riti e le sue ribalte. Luogo di consumo totale che deve continuamente rinnovarsi se vuole essere competitivo».

Già: competere sul mercato, sul mercato globale, trasformandosi in una sorta di prodotto da piazzare su scaffali virtuali. Coinvolgendo, che lo vogliano o meno, che ne siano consapevoli o meno, anche tutti coloro che in un modo o nell’altro dentro questa metropoli-prodotto vengono sballottati qui e là ogni giorno fra imperativi a consumare, approvare, applaudire. È possibile, questo passaggio dalla città delle grigie ciminiere alla vetrina scintillante dai cieli d’ordinanza perennemente azzurri? La risposta degli Autori, a questa come a molte altre questioni parallele, è un deciso NO. Almeno non se si osserva l’attuale orientamento delle decisioni di governo di questi sistemi complessi, inediti, e lo si confronta coi risultati concreti e le tendenze in atto: dispersione, esclusione, crisi ambientale.

Ma non è certo con la polemica, e men che meno con la cosiddetta «antipolitica», che questo libro al tempo stesso molto articolato, profondo e agile risponde alle sollecitazioni della cronaca. Per niente banale ed efficacissima, la scelta di privilegiare costantemente percorsi tematici legati all’attualità, rispetto all’abituale incedere da un riferimento scientifico all’altro: non che i riferimenti manchino, anzi, ma si avverte un costante aderire alle realtà quotidiane di problemi e contraddizioni, così come si ascoltano più frequentemente nelle strade o alla televisione, rispetto alle sale di certi convegni, o alle inaugurazioni delle mostre dove spesso (dei problemi, ma soprattutto delle sedicenti soluzioni) si espongono le parti spacciandole per il tutto.

In una sorta di crescendo virtuale, ben dosando e mescolando i due punti di vista tanto distinguibili quanto complementari di Mazzette e Sgroi, lo studio prende le mosse da uno scenario di ampio respiro da cui emergono le varie facce degli spazi e dei soggetti che li attraversano. È la prospettiva della metropoli globale, avviata a diventare ambito che consuma e si consuma, nella realtà e nella percezione. Molto eterea nella fluidità delle immagini, quanto concreta e pesante nelle realtà e negli effetti sui singoli: che si tratti del polo di eccellenza, della città globale alla Saskia Sassen, o del suo – indispensabile e ineluttabile? – rovescio della medaglia, il pianeta degli slum di Mike Davis. Realtà che, unificate dalla lettura di ampio respiro nonché dai paradigmi della globalizzazione liberista, trovano poi in varia misura anche momenti di intreccio spaziale: vuoi nella contraddittoria realtà dello sviluppo a marce forzate della Cina, dell’India, vuoi nella più sottile e sfumata compresenza in spazi a noi più vicini, come le città europee e anche italiane, con le nuove forme di razzismo, le povertà emergenti ma prive di vera visibilità perché ad esempio collocate nei contesti suburbani, i tema della «sicurezza», tanto caro alla semplificazione delle campagne elettorali quanto propenso all’evaporazione nel momento in cui incrocia varie esigenze ineluttabili di «sviluppo».

Temi e soggetti che, come ci ricordano continuamente gli Autori, interagiscono in uno spazio che non è più la grande città industriale, o area metropolitana, ma si qualifica quasi esclusivamente come informe neo-sprawl globalizzato, dove i punti di concentrazione ed «eccellenza», insieme alla bassa densità identitaria di tutto ciò che gli sta attorno (e li alimenta), sono costantemente sull’orlo della perdita di ruolo, o dell’assunzione di un nuovo. Anche questo, è la trasformazione del territorio in una sorta di enorme scaffale da supermercato dove mani visibilissime continuamente mettono e tolgono. Soprattutto tolgono, a ben vedere.

Ma sia il lettore che gli Autori (mi sia consentito) si trovano spesso col fiato corto: da un lato il costante promemoria del fatto che ci si sta spostando fisicamente e criticamente entro uno spazio che non è più città, né suburbio per quanto anonimamente e desolatamente sprawling, né tanto meno campagna; dall’altro il ricorrere di una terminologia che inevitabilmente, anche rafforzata dagli utilissimi riferimenti alla cronaca spicciola, a queste realtà continuamente richiama.
Il lettore si trova così guidato negli spazi apparentemente ariosi e risolti del centro storico pedonalizzato con gli arredi omogenei e la manutenzione gestita dal locale
business improvement district pubblico-privato, oppure fra le pareti a specchio e l’aria condizionata del nuovo centro congressi, con annesso albergo e fashion mall. Ma va sottolineato come alla fine di queste passeggiate tematiche, o nei passaggi più significativi, il testo non manchi mai di far entrare un po’ d’aria (se fresca o mefitica, lo giudichi il lettore) dal contraddittorio contesto metropolitano globale, così come delineato nei primissimi paragrafi.

Anche l’urbanistica sembra non uscire benissimo dal confronto con questa realtà complessa. Da un lato sconterebbe la necessità fisiologica di tempi di adattamento scientifico e operativo a quanto pare non più compatibili coi nuovi contesti. Dall’altro il suo ruolo di «scrittura tecnica sotto dettatura politica» appare in parte messo in crisi: vuoi da una parallela necessità di adattamento dell’ambito delle decisioni politiche (ben nota ahimè anche per altri aspetti), vuoi dalla concorrenza degli eventi pigliatutto, che fingendo di riassumere in sé realtà complesse attraverso facili e vincenti slogan, sottomettono il tutto ad una parte. Nascono così formule fortunate, dalla città infinita (una specie di gottmaniana megalopoli sottovuoto) ai superluoghi (contenitore concettuale multiuso per architetture firmate non residenziali) in grado di veicolare anche contenuti scientificamente rilevanti verso finalità a dir poco deludenti: qualche carriera politica o professionale, un po’ di visibilità personale, qualche rimpianto postumo quando emerge puntualmente dalle contraddizioni lo squilibrio fra aspettative e risultati.

Mentre le questioni, ci ricordano Mazzette e Sgroi, anche dietro la vetrina scintillante della metropoli consumata e consumante, restano assai concrete e verificabili. Una su tutte, quella citata in apertura, ovvero dello stretto legame fra consumo di suolo, qualità ambientale, organizzazione del territorio e pari opportunità nell’accesso ai servizi. Il sindaco e potenziale grande leader mondiale si dichiara «contrario alle piccole gallerie», poi probabilmente qualcuno dell’ufficio stampa gli ricorda come i grandi insediamenti commerciali siano noti come micidiali attrattori di traffico automobilistico, quindi di inquinamento, pericolo ecc. Niente paura, l’ottimo comunicatore e decisore ha già in serbo il colpo alla botte: «però, sarà necessaria la metropolitana». E, amministrando saggiamente il denaro dei contribuenti, magari la si farà pure, la metropolitana. Nessun addetto stampa vuole o sa però ricordare al leader di turno che due progetti non fanno un piano, una «strategia», o che i tempi della storia, della natura, della società, dei sistemi territoriali, possano non coincidere coi mandati elettorali.

Basta scorrere non dico una rassegna di letteratura scientifica, ma semplicemente qualche pagina di Google, per scoprire in pochi minuti la relazione storica fra grandi nodi monofunzionali del commercio, mobilità automobilistica, insediamento diffuso a bassa densità. Un testo europeo «storico» degli anni ’60, curato dalla Camera di Commercio svedese spiega già aglia lbori del fenomeno come coniugare shopping mall e stazioni della metropolitana sia una battaglia persa in partenza …

Beh, per non farla troppo lunga, il consiglio è di leggersi il bel libro di Antonietta Mazzette e Emanuele Sgroi, anche valutando via via gli scenari proposti con la qualità delle decisioni che dovrebbero/vorrebbero in qualche modo governarli. E riflettere magari su cosa rischia di diventare la serie delle variegate politiche urbane alle varie scale, se la «scrittura tecnica sotto dettatura politica» si limita alla migliore soddisfazione del cliente, così come ci si aspetterebbe in un contesto appunto dominato da una logica di rapido consumo. E l’altra suggestione che sottotraccia questo tipo di lavori contengono sempre, è che a monte si sappia e possa formare un sapere scientifico e socialmente diffuso tale da «dettare ai dettatori». Ma questa è un’altra storia.

(*) Riportato da Carlotta De Leo, «Apre Porta di Roma, il centro commerciale dei record», Il Corriere della Sera, 26 luglio 2007
(**) Irene Maria Scalise, intervista a Massimiliano Fuksas, la Repubblica, 15 ottobre 2007
Questa recensione è stata pubblicata in versione ridotta dal Giornale dell’Architettura febbraio 2008 

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