Da decenni ormai zoologi e altri ricercatori studiano le forme di adattamento della fauna selvatica a spazi e tempi della grande città, verificandone via via anche importanti evoluzioni in termini di comportamento e non solo. Adesso però c’è una grossa novità: arrivano i predatori, proprio quelli feroci e spaventosi. Tutto inizia notando l’evoluzione nel mondo delle prede, come quandosi si pedala lungo le piste ciclabili di qualche canale urbano, e si vedono bambini intenti a lanciare briciole ai paperi: non ci sono più solo i pennuti ad aspettare quelle briciole. A volte in bella vista anche ritti sulle zampe posteriori se c’è dove appoggiarle, enormi topi si lisciano le vibrisse, contemplando placidi il paesaggio. In realtà non propriamente enormi topi, ma nutrie, che osservate da una prospettiva diversa non paiono troppo diverse, dai comuni branchi di conigli selvatici che scorazzano ormai numerosi nei quartieri con prati di dimensioni sufficienti, o nelle fasce di rispetto ferroviarie dove si possono scavare agevolmente delle tane. Roditori dalle orecchie lunghe, roditori dalle orecchie corte, che in fondo anziché evocare degrado ambientale, certificano a modo loro una discreta salute degli spazi che scelgono come casa.
L’unica vera questione (come spesso succede con gli animali in città) pare solo un eccesso di presenze: in effetti vederne a volte centinaia in un colpo solo lungo una striscia di canale o di prato abbastanza breve, in pieno giorno, colpisce un po’. E succede anche con tante altre specie, pensiamo agli uccelli quando interferiscono con gli aeroporti, ma in quei casi intervengono coi rapaci, coi predatori insomma. Detto in altri termini, e seguendo coerentemente la logica di chi vuole la natura in città, bisogna ricordarsi che la natura funziona per catene alimentari, in cima alle quali sta un predatore. Per i conigli tradizionalmente ci sono le volpi o i lupi, per le nutrie pare che nei territori originari della specie i principali predatori siano caimani e giaguari: ci pensate, introdurre nei nostri quartieri quelle bestie per contenere «naturalmente» la popolazione delle invadenti nutrie? Insomma la faccenda dei predatori e della natura in città richiede accurati studi, ricerche, conoscenze integrate e multidisciplinari, come quelle che si stanno ad esempio sviluppando nelle città nordamericane da tempo alle prese con un predatore locale di taglia media: il coyote.
Esiste la pluriennale ricerca di Stan Gehrt dell’Università dell’Ohio sul progressivo adattamento di questi canidi predatori all’ambiente urbano, in particolare attraverso rilievi sistematici nell’area metropolitana di Chicago. Attraverso numerosi cicli stagionali e riproduttivi, si è riusciti a stabilire non solo come una ex specie selvatica di notevoli dimensioni sia riuscita a inserirsi nell’apparentemente ostile tessuto della città, ma come via via singoli e branchi abbiano cambiato comportamenti, alimentazione, stili di vita e rapporto col contesto. Poi ci sono anche cose folkloristiche, a volte anche con qualche risvolto drammatico come le aggressioni, comunque folkloristiche perché ci allontanano dal tema centrale. È solo folk ovviamente quel coyote che stava dentro a un chiosco di hamburger, e lo sono anche certi sgradevoli incontri ravvicinati, se ascoltiamo gli esperti e capiamo quanto anche la nostra vita debba un pochino cambiare, man mano cambia la città che abitiamo. Se ne estende l’area a comprendere anche spazi prima habitat naturali o misti, e se ne modifica il senso. Ma la città metropolitana di oggi, così come non riproduce all’infinito i vicoli del centro storico tradizionale, non può e non deve allargare la distesa umana-industriale artificiale come si è affermata fra XIX e XX secolo, sia nella forma compatta che in quella dispersa del suburbio.
Tutte le ricerche sui temi dell’urbanizzazione del pianeta e della sostenibilità escludono che il nostro futuro possa essere una sostanziale asfaltatura degli spazi abitati, e indicano invece un rinnovato connubio tra natura e artificio, di cui anche piccolissime cose come gli orti urbani sono sintomo e componente. La metropoli come habitat complesso insomma, dentro al quale c’è posto, udite udite, per i grandi predatori. Non è una sparata a casaccio, ma una indicazione precisa di Gehrt, il quale in una sua recente comunicazione sul classico tema dei coyote urbani ha esposto una propria teoria, a quanto pare fondata: il coyote è un predatore di dimensioni medio-grandi, che mai nessuno fino a poco tempo fa si sarebbe aspettato di veder correre tra autobus e grattacieli, né di adattarsi benissimo a territori di caccia grandi una frazione di quelli dei suoi antenati. Ora, visto quanto già ampiamente osservato per altre famiglie e associazioni zoologiche, si può sostenere che i coyotes sono solo l’avanguardia di altri, più grandi carnivori, ad esempio l’orso e il puma nelle città americane, di cui non mancano sporadici episodi.
E qui tornano in mente anche certi articoli che parevano un po’ esagerati, resoconti dalle megacittà africane, nelle cui periferie sempre più spesso si aggirerebbero leoni, non a caccia di improbabili antilopi, ma di bidoni della spazzatura o al massimo di pollai in fondo al giardino. Tutto si tiene, in fondo, ce lo spiegano da anni che dove c’è la preda prima o poi arriva anche il predatore, ma le cose non finiscono neppure lì. C’è l’habitat nuovo, la necessità e la voglia di adattarsi e sfruttarlo al meglio, i nuovi rischi e le nuove occasioni. Fino a non molto tempo fa questo tipo di sovrapposizione fra città e campagna era impensabile, visto che dal sorgere della città moderna in poi realtà e leggi concepiscono un confine netto, più o meno segnato dal fronte della periferia (comunque intesa). Oggi non più, vuoi con una idea di città diversa, vuoi con l’urbanizzazione dispersa che in un modo o nell’altro si inerpica sin sulle montagne prossime ai grandi centri di pianura. I predatori sono notoriamente anche grandi viaggiatori: in definitiva, come direbbe il presidente Mao il disordine sotto il cielo è grande, e la situazione (per i predatori) pare eccellente. Noialtri, che siamo i predatori più pericolosi, dovremmo saperlo benissimo, e iniziare a pensare meglio le nostre città anche in quella prospettiva. Perché se vogliamo la natura, dobbiamo anche accettarne il funzionamento, ben diverso da quello del vaso di gerani o del canarino in gabbia.