Nella Chinatown è in corso una battaglia fra culture, attività, modi di vita, un contrasto cresciuto silenziosamente nelle scorse settimane. Simboli della guerra – e improbabile bottino – sono i carrelli metallici blu che molti operatori cinesi del commercio abbigliamento all’ingrosso usano da tempo per trasportare enormi quantità di camicie, scarpe, jeans a poco prezzo, verso le auto e i furgoni parcheggiati dei clienti.
Il proprietario di un negozio che si chiama “Mare d’Oriente” racconta che gli sono stati confiscati sette-otto dei suoi carrelli, e che ha pagato infinite multe per riavere la merce. “Stato davvero brutto gli ultimi sei mesi. Come possiamo lavorare?” chiede questo cittadino cinese, che risiede regolarmente in Italia da otto anni, ma vuole essere chiamato solo Chen per timore di ritorsioni. Nonostante una dichiarata tregua la settimana scorsa, un giovane lavoratore cinese che usciva dal magazzino con un carrello è stato circondato da una mezza dozzina di agenti dopo meno di un isolato, e multato di 40 Euro, versati immediatamente.
La guerra dei carrelli è cominciata con le lamentele dei residenti italiani, che hanno spinto l’amministrazione comunale, eletta l’anno scorso, a reprimere pratiche che erano state per lungo tempo tollerate, e che sono fondamentali per le attività della comunità cinese. I carrelli, dicono gli italiani, sono un rischio bambini e anziani. Le auto e i furgoni in sosta che aspettano di caricare, notano, sono veicoli privati senza licenza di trasporto commerciale. La polizia municipale ha cominciato a dare multe: parecchie multe.
E se le scelte politiche per la via Sarpi sono una questione locale, ci sono anche in gioco questioni di più ampio respiro: le tensioni crescenti in molti paesi, dicono gli esperti, con l’Europa che fatica ad accettare, a integrare, le attivissime comunità cinesi, sempre più ricche e potenti.
“Questo una volta era un quartiere milanese, con negozi per comprarsi mercerie, pane, apparecchi elettrici: il tipo di negozi che ci sono in tutti i quartieri” racconta Corrado Borrelli, consulente di impresa che abita da lungo tempo nella zona che gravita attorno alla via dedicata a Paolo Sarpi, uomo politico del XVI secolo. “Il problema non sono solo i carrelli”.
“I cinesi si sono impossessati del quartiere, hanno sottratto spazi agli italiani, ma non hanno sviluppato relazioni coi residenti”.
“Comprano nei loro negozi: la loro cultura li isola” aggiunge. “Poi ci sono tante piccole cose, come il fatto che parlino a voce troppo alta”.
All’inizio del mese, le tensioni che covavano da tempo sono esplose quando 300 manifestanti cinesi si sono scontrati con la polizia per le strade.
I contestatori sventolavano bandiere nazionali cinesi: in assenza – hanno detto – di un altro simbolo più adeguato alla protesta. Anche se ora i rappresentanti della comunità si sono incontrati col sindaco per tentare di risolvere la questione, cresce il risentimento fra i cinesi, che si sentono oggetto di persecuzione, e le soluzioni appaiono lontane.
“Hanno sventolato quella bandiera perché è un simbolo di appartenenza” spiega Angelo Ou, importante esponente della comunità degli affari locale, il cui padre è venuto in Italia negli anni ‘30. Ou è stato uno dei quattro rappresentanti della comunità all’incontro con gli amministratori locali. Nota come i contestatori abbiano ottenuto l’attenzione del governo cinese, il cui Primo Ministro Wen Jiabao ha chiesto un rapporto sulla rivolta, e sulla situazione dei cinesi in Italia.
“In altri anni, questa sarebbe stata considerate una questione di secondo piano, ma è significativo che anche i rappresentanti del governo cinese si siano espressi su cosa stava accadendo” osserva Daniele Cologna, sociologo e insegnante di cinese all’Università di Pavia.
I rappresentanti italiani hanno tenuto un basso profilo, spiegando come la crescita del commercio all’ingrosso in un quartiere storico di strade strette avesse bisogno di un maggior controllo.
“Prima non c’era bisogno di applicare le norme”, spiega Riccardo de Corato, vicesindaco di Milano. “le cose sono cambiate negli ultimi quattro o cinque anni, quando le attività commerciali si sono orientate all’ingrosso. Non stiamo approvando nuove regole contro i cinesi, stiamo solo applicando il codice della strada”.
Racconta di essere rimasto “sorpreso dal fatto che nel giro di qualche minuti erano scesi in strada, con bandiere e megafoni”.
“E per una multa” commenta “sono finite all’ospedale 18 persone”.
E ancora, dice de Corato, c’è una nuova generazione di giovani immigrati cinesi che hanno “sconvolto l’equilibrio” dell’area, dove cinesi e italiani prima coesistevano, “ribaltando le regole non scritte di quasi un secolo”.
Questi nuovi immigrati, aggiunge “non imparano l’italiano” e tendono a isolarsi. Sono anche in ascesa le bande giovanili cinesi, dice.
Ou, l’uomo d’affari, spiega di essere perplesso per l’atteggiamento irrigidito dell’amministrazione. “Soltanto 15 mesi fa l’ex sindaco è venuto a Chinatown a tenere una cena per 500 persone, ringraziando i cinesi per il loro contributo” racconta.
I cinesi vengono sempre più numerosi in Europa, e in Italia, a partire dagli anni ‘30, ricorda Ou, di padre cinese e madre italiana. Allora come oggi, la gran parte è originaria dell’area attorno a Wenzhou, città sulla costa sud-orientale.
Nel corso degli anni ‘90, i cinesi hanno aperto piccole attività – in gran parte laboratori della pelle e del tessile dove lavorano immigrati – o ristoranti. Come successo agli italiani emigrati negli USA un secolo fa, si muove via via tutta la famiglia, con poco carico per l’assistenza pubblica.
“L’Italia si è trasformata da paese di emigrazione a terra di immigrazione” spiega Arturo Lanzani, docente di urbanistica al Politecnico di Milano. “In Via Sarpi negli anni ’90 c’era un contesto di coabitazione, dove una maggioranza di italiani tollerava bene la minoranza immigrata, soprattutto cinese”.
Ma tutto questo è cambiato radicalmente negli ultimi cinque anni, continua Lanzani. Quando è diventato più facile per i cinesi uscire dalla madrepatria, le quantità si sono gonfiate. Ufficialmente, la comunità cinese a Milano è di 13.000 persone, in una città di 1,3 milioni di abitanti, ma alcuni amministratori sostengono che, calcolando gli immigrati clandestini, la quantità potrebbe quasi essere raddoppiata.
Con la Cina sempre più ricca, che esporta sempre di più, i negozi cinesi di Milano hanno cominciato a vendere all’ingrosso – in modo legale e illegale – quanto veniva prodotto a basso costo in patria. Con l’aumentare della ricchezza, hanno cominciato a comprare immobili, pagando prezzi molto elevati sia per l’acquisto che per gli affitti. Spesso rilevavano piccoli negozi falliti per la concorrenza di supermercati e megastore. Occupatissimi a fare affari, i cinesi non erano né politicizzati né organizzati.
“La comunità è molto laboriosa, ha di meglio da fare che dimostrare”, spiega Cologna. “Non fa molto parlare di sé, perché le rivolte fanno notizia”.
Le proteste, dice “danneggiano gli affari”.
Ma la campagna municipale contro i carrelli ha innescato nella comunità cinese un nuovo tipo di reazione.
Stanchi di quella che considerano una ingiusta persecuzione delle loro attività economiche, forse anche rafforzati dal proprio successo economico, orgogliosi della propria nazionalità, i commercianti cinesi hanno reagito.
“Le persone per le strade sono cinesi di seconda generazione, totalmente integrati, che parlano italiano: non vede come sono vestiti?” chiede Lanzani. “Sono consapevoli di non essersi lasciati alle spalle una nazione povera. Sono orgogliosi. Sono cinesi cosmopoliti, con una forte doppia identità”.
Alcuni degli immigrati spiegano di non voler diventare cittadini italiani. Jessica Cheng, che sta caricando grosse borse di plastica di vestiti nel baule di una station wagon in una traversa di Via Sarpi, da rivendere nel suo negozio in un piccolo centro, spiega di non volere un passaporto italiano, anche se parla la lingua e vive in Italia da sette anni.
“Quello cinese va benissimo, e per tornare in Cina non ho bisogno del visto” spiega la signora Cheng, 28 anni, elegantemente vestita in jeans e coi capelli striati di rosso.
E in realtà, una maggior ricchezza e facilità di spostamenti da e per la Cina, hanno significato che molti dei nuovi arrivati degli ultimi dieci anni hanno mantenuto rapporti stretti con la madrepatria.
Ou racconta che molti uomini d’affari mandano i figli in Cina a imparare la lingua durante le vacanze estive, e i più piccoli spesso vengono mandati a casa perché badino a loro i nonni.
Alcuni esperti sostengono che i cinesi di Milano siano stati trattati in modo particolarmente ingiusto dalle autorità, molto più elastiche con gli abitanti italiani. Quando le leggi vengono applicate in modo così incoerente, si crea un casi di discriminazione, commenta Lanzani.
La scorsa settimana in Via Sarpi, i commercianti cinesi correvano senza farsi vedere dai magazzini alle auto parcheggiate nelle traverse, carichi di enormi borse di plastica piene di vestiti, perché non si potevano più usare i proibiti carrelli. Contemporaneamente, davanti a uno dei macellai più noti in Via Sarpi, c’erano auto parcheggiate in doppia fila, a intasare il traffico, a quanto pare impunite.
da: International Herald Tribune, 28 aprile 2007 – Titolo originale: Milan dispute mirrors tensions involving many Chinese communities – Traduzione di Fabrizio Bottini