Milano: il declino del concetto di piano urbanistico

Cascina Merlata Bloom Shopping Mall la lottizzazione suburbana dentro la città – foto F. Bottini

Ai tempi del PRG di Milano del 1980 esisteva ancora cultura di governo con un’idea sufficientemente chiara di come sia importante garantire a tutti i cittadini lo «stare bene» nel territorio che si abita, in un rapporto agevole e positivo con tutte le cose che servono a una vita civile: si considerava che una casa dignitosa e servizi pubblici per tutti, e quindi una condizione di benessere individuale e collettivo fosse utile anche per l’efficienza del sistema produttivo; in sostanza era soprattutto ancora sufficientemente chiaro «perché e anche per chi si fa il piano».

Nella cultura del tempo e in molti settori della società e quindi anche in alcuni partiti politici, sia pure da angolature e con accentuazioni diverse, era presente la necessità di una attenzione concreta alle cause dei disagi sociali e delle disuguaglianze perché un benessere equamente distribuito era considerato anche un motore importante dello sviluppo economico e per questo si costruivano ancora complessi di edilizia popolare e cooperativi davvero economici.

L’urbanistica di quegli anni aveva scelto per questo alcune regole unificanti di tecnica urbanistica: lo «standard», cioè l’obbligo dell’individuazione e del vincolo, anche ai fini di una di una possibile espropriazione, di una quantità minima di aree in dotazione ad ogni abitante per la realizzazione dei servizi indispensabili, una regola davvero democratica e unificante che valeva per tutti i comuni senza distinzione; anche lo zoning, espressione di un nuovo modello di ordine urbanistico, era un provvedimento benefico, che unificava le modalità di sviluppo e di organizzazione degli insediamenti umani e dei relativi servizi e che garantiva di non avere rapporti conflittuali fra funzioni diverse e in particolare fra la residenza e l’industria, a cui si proponeva un graduale decentramento in spazi più ampi e ade- guati alle necessità di sviluppo, dotati di nuove e più efficienti infrastrutture.

I piani si facevano così in tutte le città d’Italia, secondo un comune modello. Da questo insieme di regole emergeva il ruolo centrale della residenza come matrice di rap- porti vitali nel sistema di tutte le funzioni e per questo la residenza doveva avere un carattere stabile e sicuro per tutte le componenti sociali. Anche il Piano regolatore di Milano del 1980 ha adottato lo zoning, ma collegato da una visione aggiornata di rapporto con l’impianto infrastrutturale, in particolare con le linee di forza del trasporto pubblico e del passante ferroviario per quanto riguarda la dislocazione delle attività più attrattive, soprattutto terziarie; ma in accordo con questa impostazione tecnica l’Amministrazione pubblica milanese credeva anche necessario proporre un modello di crescita oltre che ordinato ed efficiente anche condiviso.

L’istituto del decentramento cercava di valorizzare le esperienze degli anni della contestazione e del- le mobilitazioni popolari per dare soprattutto ai luoghi della residenza un valore particolarmente rappresentativo della qualità urbana, tanto che si attribuiva al decentramento amministrativo e idealmente a ciascun cittadino, il compito di verificare le nuove istanze di edificazione: il rilascio di concessioni edilizie in difformità del parere dei Consigli di Zona poteva avvenire solo dopo aver sentito la Commissione Consigliare competente con la partecipazione di rappresentanti della zona interessata. Per gli interventi di rilevante dimensione necessari per «completare« la città e attuare il Piano si riteneva necessario predisporre strumenti di maggior dettaglio rispetto alla zoning, per un «passaggio controllato» al progetto attuativo privato: i Piani d’Inquadramento Operativo e i Piani d’Area di iniziativa pubblica.

Per un collaudo di questa procedura l’Amministrazione comunale ha anche provveduto anche a predisporre per l’area della Fiera Campionaria di fatto dismessa, il «Progetto d’Area Portello Fiera» con l’accompagnamento di analisi preliminari, in particolare per quanto riguarda il tema della mobilità di penetrazione dalla direttrice del Sempione. Il progetto è risultato inutile a causa della decisione del’Ente Fiera di costruire nuovi padiglioni lungo il percorso urbano di via Scarampo, rendendo disponibile la vecchia area per remunerativi interventi immobiliari (CityLife).

L’attuazione tramite strumenti di dettaglio urbanistico serviva per definire meglio i caratteri e i contenuti delle proposte di piano, con una non schematica e rigida interpretazione dello zoning, in sostanza per temperare la rigidità dello zoning e ottenere un’efficace interpretazione e trasferimento degli obiettivi e dei contenuti dal piano urbanistico nel progetto esecutivo anche per un apporto positivo dell’iniziativa degli operatori privati allo sviluppo della città e il termine collaborazione non aveva ancora il significato di sottomissione della Pubblica Amministrazione alle richieste private perché l’idea che l’Amministrazione comunale avesse il precipuo compito di ricavare dagli interventi di rilevante trasformazione il massimo possibile di concreti benefici per la collettività degli abitanti ancora prevaleva nella concezione di governo, tuttavia nelle proposte di collaborazione con gli operatori privati e in alcuni indirizzi amministrativi di gestione si delineava già una incauta e troppo fiduciosa tendenza di apertura ad una «collaborazione» col mondo degli operatori immobiliari, senza considerare il rischio che derivava di un’implicita riduzione del ruolo pubblico e del significato stesso del termine «interesse pubblico».

La tendenza ad attribuire alle caratteristiche tecnicistiche del PRG la responsabilità delle difficoltà che si incontravano nella realizzazione di interventi di grande rilevanza dimensionale e complessità funzionale e strutturale – quindi urbanistica – veniva alimentata anche ad arte, si insisteva sul troppo rigido fondamento vincolistico del piano, sui «lacci e laccioli» che impedivano lo sviluppo delle libere iniziative. Il Comune cercava di mantenere il proprio controllo sul rapporto tra «piano» e «progetto» per dare un’interpretazione più aperta e di più ricco e diversificato contenuto ai dettati del PRG, ma anche per orientare il progetto d’architettura ad una efficace e corretta rappresentazione dei contenuti funzionali del piano generale anche con appropriate scelte tipologiche e di forma degli edifici, realizzando insieme elementi nuovi di paesaggio urbano.

La città tuttavia si sviluppava e trasformava già in modo rapido e complesso, non compiutamente intercettabile dalla tecnica dello zoning, e se la regola dei parametri numerici assunti come immediati lasciapassare operativi non si rivelava sempre adeguata al bisogno di progetto, non si è proceduto ad approfondire la natura e il carattere delle nuove tendenze di sviluppo, tenendo conto della rapidità con cui si manifestavano, con una conoscenza adeguata della complessità dei problemi per affrontarli con altrettanto adeguati e nuovi strumenti di pianificazione e prima di tutto con nuovi impegni di ricerca, analisi e valutazione, poi con un metodo più rapido di accompagnamento al progetto esecutivo da parte dell’Amministrazione pubblica per acquisire dalle iniziative private tutti i possibili benefici per l’intera collettività urbana.

Oggi l’accelerazione alla trasformazione della città avviene per impulsi tutt’altro che produttivi – se al termine produttivo si da il significato di contributo a produrre un beneficio generale – e con lo sfruttamento di risorse di suolo e ambientali che sono di tutti per uno sviluppo che appare sempre più privo di risultati utili e riconoscibili, da poter democraticamente condividere; questo avviene senza un vero controllo da parte della Pubblica Amministrazione degli effetti di questo uso indiscriminato di beni irriproducibili, suolo e qualità ambientale, che sono di tutti e che dovrebbero produrre benefici equivalenti per tutta la collettività urbana. Si ritiene, o si vuol far credere, secondo una alterata concezione di sviluppo, che l’utilità generale di ciò che si chiede di realizzare è accertata anche solo per il fatto che qualcuno ne chiede la realizzazione ed è disposto all’investimento economico necessario – a chi vada davvero il vantaggio della realizzazione non occorre saperlo.

Questa concezione di sviluppo insediativo ha avuto una convalida decisiva nelle norme di indirizzo della legge urbanistica regionale del 2005 che in modo sostanziale riducono di fatto il ruolo dell’Amministrazione pubblica, che secondo la legge deve lasciarsi guidare dai suggerimenti del mercato e dagli impulsi dell’iniziativa degli operatori economici e immobiliari nella definizione dei «contenuti» del piano urbanistico generale: così il progetto privato e non solo quello puramente attuativo, finisce col prevalere sul significato pubblico del piano e il ruolo della Amministrazione comunale diviene essenzialmente gestionale. La legge urbanistica regionale lombarda del 2005, che ha inserito fra i suoi principi la possibile integrazione dei «contenuti» della pianificazione da parte dei privati, ha di fatto precisato con chiarezza risolutiva e cinica, se ancora ci fosse qualche dubbio, «con chi si deve fare il piano», sostituendo questo dettato all’idea democratica, ma purtroppo non altrettanto esplicita, che si identifica nel «per chi lo si deve fare».

È vero che la legge parla anche di «pubblicità e trasparenza delle attività che conducono alla formazione degli strumenti» e di «partecipazione diffusa dei cittadini e delle loro associazioni alla formazione del piano», ma in questo caso non si parla di contenuti e il varco aperto alla iniziativa e proposta privata è troppo largo per poter essere colmato dalla volontà politica sempre più debole di chi governa. Da questa operazione legislativa è derivato il definitivo depotenziamento del potere delle Amministrazioni pubbliche, con un conseguente abbassamento del ruolo e delle competenze dei suoi apparati tecnici. Il compito di interpretare i complessi e nuovi problemi proposti da un mo- dello di sviluppo sempre più determinato da poteri economici e finanziari incontrollabili è passa- to totalmente in mano all’iniziativa privata senza considerare che i processi di trasformazione in atto non hanno solo contenuti economico-finanziari dettati dal mercato – ammesso che questi siano una guida sicura e democratica -, ma anche sociali e culturali.

Nella gestione del territorio questo radicale cambiamento della logica della pianificazione ha de- terminato di fatto anche il passaggio diretto, su iniziativa degli operatori privati, dal piano generale al progetto, con la prevalenza sempre più spesso di quest’ultimo. A Milano la conseguenza immediata e apparentemente «naturale» di questo trasferimento dei poteri è stato quello di scegliere per sindaco una persona che anche nella direzione del Comune rappresentasse adeguatamente il mondo imprenditoriale e dell’economia per una efficiente gestione.

Letizia Moratti, Giuseppe Sala e già prima Gabriele Albertini, sono il risultato di una politica indirizzata soprattutto all’efficienza operativa, che è cieca se non ha chiari i contenuti e gli effetti diretti, ma anche ampiamente pervasivi, di quello che si produce. L’attuale Amministrazione comunale di Milano per questo obiettivo non ha semplicemente accettato di collaborare col settore privato nella definizione dei contenuti della pianificazione, ma ha di fatto progressivamente ceduto la sua istituzionale funzione di governo a un potere che dispone di grandi capitali e che ha bisogno di continuare a alimentare il mercato stimolando in ogni modo la domanda da cui può trarre il proprio maggior vantaggio.

da: Alberto Secchi, Milano: due o tre cose che so di lei, ciò che ho visto e ciò che vedo, Planum, Roma-Milano 2024

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