Agli osservatori internazionali, con le scintillanti torri dei nuovi edifici terziari e residenziali, popolata da operatori della moda e architetti, l’ex capitale economica d’Italia sembra proiettata verso un luminoso futuro postindustriale. Ma vivendone quotidianamente il tessuto sociale, il contesto ambientale, la rete delle infrastrutture; subendone le decisioni sul territorio urbano e metropolitano, emerge un’immagine diversa: esclusione sociale, spinta all’insediamento disperso, degrado dell’ambiente e della qualità della vita. Sono le radici stesse di una città giusta, inclusiva e anche efficiente, a essere messe in discussione dall’urbanistica milanese degli ultimi 15 anni.
Oggi la riqualificazione urbana – quando c’è – è pura sostituzione sociale, l’aggettivo post-industriale significa solo ‘privo di industria’, e la sedicente nuova economia si limita al mercato immobiliare. C’è un’alternativa? Certamente si, e sta nel cercare un equilibrio meno brutale e più avanzato fra dimensione locale e globale. Ma proviamo a andare con ordine.
Milano capitale della moda, del design e dell’editoria; hub della creatività e dell’innovazione; capoluogo di una fra le regioni più ricche d’Europa; ai vertici della gerarchia urbana europea: è una immagine di fatto contraddetta da recentissime graduatorie effettuate da istituti specializzati: nel 1989 stava al terzo posto dopo Londra e Parigi, oggi si deve accontentare di un decimo solo per la funzione economica, e occupa posizioni molto più arretrate per quanto riguarda qualità della vita e mobilità, inquinamento, organizzazione degli spazi pubblici e privati. Là dove sarebbe importante investire nella città, dopo anni in cui è mancata una visione complessiva e si sono realizzate soltanto trasformazioni parziali, rinunciando a sperimentare ipotesi davvero innovative, la risposta alla crisi è stata un vero e proprio laboratorio di ‘privatizzazione dell’urbanistica’ solidamente fondato su alcune premesse: delegare all’iniziativa privata l’organizzazione del territorio; considerare la difesa degli interessi collettivi del tutto subordinata; porre ai margini, se non escludere del tutto, ascolto e coinvolgimento dei cittadini, privilegiando gli attori forti.
Si tratta di una scelta che parte da lontano, quando con la dismissione industriale degli anni ‘70/’80 si manifesta la legittima necessità di trovare nuovi obiettivi ed equilibri, ma che si palesa davvero col nuovo millennio e l’obiettivo di «Ricostruire la Grande Milano». In questo obiettivo alcuni ricercatori internazionali leggono, almeno nelle dichiarazioni di intenti, la possibilità di una «ben equilibrata regione metropolitana» nel metodo e nel merito, una città globale orientata ai servizi, fra poli di eccellenza e quartieri a funzioni composite per la creative class. Un prestigioso economista americano di tendenze liberiste, Edward Glaeser, riesce addirittura a intravedere chissà come una «ruggente ridiscesa in campo postindustriale». senza soffermarsi magari a riflettere se, invece, una strategia di lungo periodo non dovrebbe promuovere equità, diritti, distretti mixed-use in cui convivano produzione, residenza per varie fasce di reddito, elevata abitabilità e mobilità sostenibile.
Oggi la città soffre di degrado sociale e edilizio ma, anziché attivare politiche di inclusione, si privilegiano scelte di tolleranza zero per i deboli, e ultragarantiste per chi paga in contanti; si privilegia una deregulation a tutto campo legittimata dalle leggi regionali. Quella urbanistica parte apparentemente da parole d’ordine prese a prestito dal dibattito europeo (densificazione contro il consumo di suolo, casa per i più deboli, sussidiarietà, valutazione strategica …. ), aprendo però di fatto all’intervento privato senza adeguate contropartite e garanzie per la città pubblica, e con infinita e immotivata fiducia nelle presunte virtù del mercato (immobiliare). In questa prospettiva, Milano predispone il suo Piano di Governo del Territorio affermando di mirare a zero consumo di suolo, mantenimento dell’agricoltura, tutela del tessuto storico, emissioni zero, più servizi. Il tutto rivendicando continuità col precedente Ricostruire la Grande Milano, aggiornato con un incredibile incremento di popolazione del 50% per arginare – così si dice – lo sprawl suburbano. Ma come sarà possibile, visto che per sua natura il piano cittadino si ferma ai confini comunali, e la stessa legge ha ridotto a poca cosa la dimensione metropolitana di governo del territorio? Dov’è finita la «ben equilibrata regione» intravista dai commentatori internazionali?
C’è anche una contraddizione irriducibile nel metodo: la governance pensata come rapporto privilegiato fra decisori pubblici e grandi operatori privati esclude la società civile, di fatto riducendo il territorio a merce. Che spazio urbano si prefigura nel Piano? Uno spazio come mero contenitore di interessi immobiliari, che sotto forma di diritti edificatori schizzano in tutte le direzioni a seconda delle convenienze dei grandi operatori: con rischi enormi, visto che qualunque idea di città prescinde assurdamente dallo spazio fisico, e rinuncia in gran parte a qualsivoglia regola. Il cosiddetto Piano delle Regole afferma infatti che «le destinazioni funzionali sono liberamente insediabili, senza alcuna esclusione e senza una distinzione e un rapporto percentuale predefinito» e poi specifica anche che «il passaggio dall’una all’altra delle destinazioni funzionali è sempre ammesso». L’unico obiettivo chiaro è quantitativo: espansioni edilizie per oltre 250.000 nuovi abitanti da aggiungere agli attuali 1.300.000 circa. E le indicazioni ‘politiche’ che hanno accompagnato l’iter del Piano sono state ancor più compiacenti: mezzo milione di nuovi abitanti. Secondo alcuni calcoli attenti sui diritti volumetrici che il PGT autorizza attraverso una perequazione urbanistica reinterpretata in chiave neoliberista, potrebbero addirittura starcene oltre 600.000!
Altro che densificare per contenere lo sprawl, con un piano che si ferma ai confini comunali e che, quando discetta della regione urbana, ignora la pianificazione sovraordinata e fa riferimento a un’idea vaga, scientificamente infondata come la cosiddetta Città Infinita. E che vuole tutelare la storica greenbelt agricola che protegge dalla conurbazione, piazzando uno degli enormi poli di eccellenza scientifica (il CERBA) proprio nel bel mezzo di un cuneo verde. È questo che emerge dalla lettura delle proposte concrete, oltre gli slogan e la comunicazione pubblica. E a conferma degli orientamenti reali e degli squilibri di interesse del PGT milanese c’è infine la prova del nove: a chi piace e a chi invece non piace affatto? Piace ai grandi interessi immobiliari, ossia ai medesimi soggetti che negli anni hanno fatto crollare il rating della città e visibilmente peggiorato la sua qualità della vita. Non piace per niente a tutti gli altri, al punto che, indipendentemente dal merito delle quasi 5.000 osservazioni presentate (e respinte in blocco senza discussione), la cittadinanza giudica illegale e autoritario vedersi imporre un’idea di città decisa nelle chiuse stanze di chi comanda. E ricorre in tribunale. Si dice che la magistratura non deve sostituirsi alla politica; ed è giusto, quando però la politica fa il suo mestiere.
L’esito più inquietante di questa strategia ‘riformatrice’ di radicale privatizzazione delle politiche urbane proposta dal nuovo Piano urbanistico per Milano può essere soltanto quello di riconfigurare la capitale morale del Paese come ‘capitale del mattone’, simbolo e modello per tutta la nebulosa urbana, politica, socioeconomica dello sprawl dal Po alle Alpi, magari da esportare peggiorato verso altre regioni. É da Milano dunque che occorre partire per liberarsi da questa versione locale/lombarda del paradigma T.I.N.A./There Is No Alternative. Le leggi lombarde, e il PGT milanese che di quelle leggi è acritico interprete, hanno rimosso vincoli, affossato principi consolidati nella tradizione urbanistica di tutela della città pubblica, concesso incentivi e premi volumetrici sovradimensionati, accelerato procedure amministrative in una sorta di ‘frenesia distruttiva’ della autorità pubblica e del bene comune che forse occorre interpretare come l’esito non tanto, o soltanto, di un profondo intreccio di interessi, ma come il segnale di un drammatico vuoto culturale. Sta ai cittadini riprendere in mano il futuro di Milano, cambiando amministrazione; sta agli urbanisti e più in generale alla cultura progressista colmare un vuoto teorico: quello che separa le acquisizioni scientifiche e tecniche dal loro uso per promuovere eguaglianza e inclusione. Forse questo traguardo è ancora (*) a portata di mano.
(*) La parola «ancora» è l’unica differenza di questo testo (la cui origine piuttosto lontana nel tempo si sarà sicuramente intuita leggendo) rispetto alla versione pubblicata su Eddyburg nel 2011, poco prima delle elezioni che avrebbero portato uno schieramento di centrosinistra, guidato dal sindaco Pisapia, ad amministrare Milano dopo un tristissimo e lunghissimo periodo di basso profilo e politiche decisamente destrorse. L’ho riproposto, sei anni dopo, perché i lettori possano confrontare l’idea di città egemone allora, con quella che sembra emergere oggi, tra grossi progetti proposti e gestiti in quanto tali, e grandi piani strategici e democraticamente trasparenti che ancora latitano, nel merito e nel metodo.
Immagine di copertina, elaborazione mia (2011) sulla famosa «T rovesciata» di Ricostruire la Grande Milano, che contiene tutt’ora i grandi progetti pubblico-privati in vari stadi di immobilità o trasformazione