Il quartiere diventato rapidamente simbolo della rinascita di Milano, la mini-donwntown di Porta Nuova, diventa di proprietà al 100% del Fondo sovrano del Qatar, e tra gli sfregamenti di mani di chi ha lucrato da questa cessione di quote un commentatore attento come Gad Lerner avverte, chi volesse essere avvertito, come l’operazione si possa anche configurare «un grande punto interrogativo sulla natura di un’operazione che rende protagonista economico del sistema Italia uno Stato come il Qatar, la cui ambiguità negli equilibri geopolitici mondiali resta inquietante». Certo nessuno adesso deve mettersi a frugare tra le fresche frasche del Bosco Verticale di Stefano Boeri, o nei tombini sotto la Torre Unicredit di Cesar Pelli, alla ricerca di qualche emulo di Johnny Jihad infilato discretamente tra la folla metropolitana a tagliar gole meneghine, ma né queste critiche sono le prime del genere, nello specifico delle politiche del Qatar, né è soprattutto la prima volta che si sottolinea la centralità delle politiche urbane, o meglio dell’idea di città più in generale, come strumento di politica estera a tutti gli effetti. E quali possano essere in fondo gli obiettivi di politica estera di uno Stato autoritario, in fondo non è difficilissimo da immaginare. Ma andiamo con ordine nel puntualizzare temi e modi di questa prospettiva di osservazione.
L’idea di città strumento di politica estera
In quell’alba dell’era contemporanea che era il secondo dopoguerra, il nostro giovane Bruno Zevi implorava le truppe americane di completare in modo pacifico l’invasione del mondo iniziata in punta di fucile con le battaglie contro nazisti, fascisti e imperiali del Sol Levante. Dopo aver studiato per tanti anni gli sviluppi dell’opera dei razionalisti europei riparati oltreoceano, da Gropius a Hilberseimer a Mies eccetera, e soprattutto tenendo conto dell’efficienza manageriale delle amministrazioni Usa di fronte alle sonnacchiose burocrazie cittadine che notava altrove, Zevi in una conferenza alla American Planning Association invocava questa salutare invasione della propaganda del way of life consumi lavoro relazioni, direttamente attraverso il know-how per produrre gli spazi fisici entro cui poi quelle relazioni di sviluppano. Un’intuizione geniale, a modo suo, e che per certi versi si può rivelare anche profetica, se consideriamo come è andata a finire in realtà: del vero e proprio sistema di valori ai vincitori della guerra importava abbastanza poco, valeva di più il famoso binomio militar-industriale, e a cascata l’imposizione di una serie di prodotti e sistemi in punta di baionetta, poi di informatica-finanza, sino ai nostri giorni. Ma l’intuizione non ha per questo smesso di essere del tutto valida e fondata.
O tempora o mores, anche nelle trasformazioni urbane
Che il Qatar investa in tutto il mondo la montagna di profitti petroliferi non è una novità per nessuno ovviamente, ma forse sarebbe una novità iniziare a pensare che questo pesante ingresso nel mercato possa configurarsi (esattamente come in fondo avvenuto col consumismo americano) strumento di strisciante invasione, pervasivo sino all’anima. Forse non è esattamente vero, nonostante la vulgata dei nostri liberisti duri e puri, che pecunia non olet, e quell’odorino persistente inizia a farsi forse più fastidioso quando pervade l’aria della città, che dovrebbe rendere liberi ma non lo fa più come una volta. A Londra ci ha pensato lo Shard progettato dal nostro senatore a vita Renzo Piano, a diventare il simbolo di questo timore, a ben vedere un po’ più inquietante degli sventolati timori leghisti di invasione via canotti gonfiabili dal Mediterraneo. Un commentatore attento ha visto in quella grossa scheggia emergente sullo skyline della capitale finanziaria mondiale, qualcosa di più della ennesima torre più alta d’Europa: ci ha visto la punta di un iceberg per nulla subacqueo, l’avanzata di una nuova forma di politica estera dei potentati mediorientali, sotto forma di investimenti immobiliari sparpagliati ovunque sul globo. Peter Beaumont, esperto dell’Observer, spiega che gli emiri del Qatar si stanno impossessando del mondo a modo loro, su fronti economici vari, di cui quel vistoso grattacielo rappresenta la forma tangibile, ma i cui effetti e reti scorrono sotterranei, subliminali a volte, a permeare di sé vari scenari, urbani e non.
Stessa spiaggia stesso mare?
E anche nel nostro paese della pizza e degli stilisti, forse qualche piccolo ragionamento in più lo meriterebbe, quella scheggia emergente delle torri di Porta Nuova, non a caso simbolo di privatizzazione di spazio pubblico nella sua genesi urbanistica, che con un po’ di fatica l’ultima amministrazione di centrosinistra ha cercato di integrare un po’ di più al resto della città in evoluzione. Pensiamo che operazioni analoghe, magari finanziariamente altrettanto se non più rilevanti, riguardano il territorio della nostra splendida Sardegna, dove capitali dal Qatar sostengono sia un master plan turistico per la Costa Smeralda che corposissimi investimenti nella sanità e servizi. Ripensiamo un istante a quel che chiedeva il giovane Bruno Zevi agli urbanisti Usa, e a quel che poi si è verificato, ovvero l’adesione di fatto, nostra e in sostanza di tutto il mondo, a quel preciso modello di sviluppo, di cui i piani e progetti dell’American Planning Association erano solo una infinitesima parte, magari neppure essenziale. Ecco: è quello il nesso logico da cercare, e non certo qualche improbabile Johnny Jihad arrampicato tra le fronde del Bosco Verticale col pugnale tra i denti.
Riferimenti:
Bruno Zevi, L’urbanistica come strumento di politica estera (1946)
Peter Beaumont, How Qatar is taking on the world, The Observer, 7 luglio 2012