A partire dal 1960 le new towns britanniche avviano una nuova fase (Mark III) volta a sperimentare talune innovazioni capaci di renderle la punta di diamante di una diversa pianificazione urbanistica, orientata a superare le passate esperienze troppo convenzionali e poco proiettate verso le esigenze di una moderna società in rapida crescita. Le realizzazioni si distinguono sia per una maggiore dimensione demografica ed estensione spaziale, sia per la localizzazione, scelta in aree strategicamente capaci di stimolare la crescita regionale. La città che più di ogni altra ha rappresentato quella visione è Milton Keynes, designata nel 1967, ubicata a metà strada tra Londra e Birmingham su un’area di 8500 ettari destinati a ospitare 250mila persone.
Uno degli allora più prestigiosi studi internazionali di planning, Llewelyn-Davies Weeks & Partners, è incaricato dalla Milton Keynes Development Corporation (MKDC) – responsabile della realizzazione della città – di predisporre il piano. Lord Richard Llewelyn-Davies (1912-1981), affermato architetto, urbanista e docente universitario, ha avviato proprio in quegli anni – grazie a un corposo finanziamento della Ford Foundation – il Center for Environmental Studies (CES), un contenitore di studiosi ordinato a promuovere la formazione e la ricerca nell’ambito della pianificazione e degli studi ambientali, cui contribuiranno molti esperti e professionisti americani, il pensiero di alcuni dei quali si rivelerà determinante per la visione della nuova città.
Decisive saranno, in particolare, le idee di Melvin M. Webber (1920-2006), docente alla University of California a Berkeley, da taluni considerato il vero padre di Milton Keynes per l’influenza esercitata sulla concettualizzazione della sua forma. Invitato dal CES a tra- scorrere un anno a Londra, Webber dedica parte della sua attività a periodici incontri con lo studio Llewelyn-Davies. Webber ha lungamente analizzato Los Angeles e altre città della California in rapida crescita, per comprendere i mutamenti della vita urbana nel passaggio da una economia industriale a una terziaria, nel corso del quale persone, occupazione e attività tendono ad allontanarsi dai tradizionali centri poiché residenze, uffici, supermercati, strutture per il tempo libero, sono facilmente decentrabili in aree esterne, a costi inferiori.
Questa dilatazione non cancellerebbe le relazioni sociali ed economiche, che sono tenute assieme, fisicamente, dalle automobili e, immaterialmente, dalle telecomunicazioni come la televisione o la radio, capaci di fornire accesso istantaneo a notizie ed eventi, indipendentemente da dove gli individui si trovavano. Una «centralità virtuale» che rende la prossimità sempre meno necessaria visto che le persone rimangono connesse e continuano a interagire anche se non vivono vicine le une alle altre. Prende così forma il concetto di «community without propinquity», comunità senza prossimità, in ragione del quale appare opportuno – postula Webber – che gli urbanisti si liberino dell’idea limitante che uno sviluppo urbano ad alta densità attorno al centro delle città rappresenti la sola forma ideale di vita urbana: in una società affluente l’aumento delle opportunità di movimento grazie alla velocità degli spostamenti, consente di accedere a una ben più ampia gamma di scelte residenziali e occupazionali.
Così, la suburbanizzazione non minaccia il senso di comunità e la vita sociale, al contrario: le persone sono interessate alle nuove e crescenti opportunità derivanti dal poter partecipare ad attività sempre più diversificate, coltivare nuovi interessi, assaporare esperienze di maggiore ricchezza, in posti diversi. Dunque il ruolo della prossimità come fattore di stimolazione dell’interazione sociale è sempre meno importante, sia perché alla base di una comunità può esservi solo l’associazione volontaria e non la pura vicinanza, sia perché stanno assumendo sempre maggior peso comunità flessibili, legate da comuni interessi o gusti, invece che dalla contiguità fisica. L’adesione a questa visione comporta una diversa concettualizzazione della new town, pertanto Llewelyn-Davies opta per la realizzazione di una struttura capace di ospitare queste nuove opportunità creando un contesto dotato di ampia flessibilità – per assorbire le future trasformazioni – ma anche in grado di non essere modificato nel suo complesso. Un approccio definito unfinished planning. La traduzione fisica in un piano implica che la forma della città dovrà consentire un rapido, libero e diretto accesso da ciascun punto a un altro, ribaltando i princìpi sui quali si sono fondate le precedenti new towns.
La più diretta e ovvia conseguenza di tale approccio è quella di affidare all’automobile il ruolo di principale mezzo di comunicazione. E poiché la migliore forma urbana per un sistema del traffico fondato sulle auto è rappresentata da ciò che gli urbanisti allora chiamavano motor box, Milton Keynes viene disegnata come un insediamento a bassa densità, altamente disperso, rigidamente reticolare, tenuto insieme da una rete stradale ad alta capacità omogeneamente distribuita, in grado di assorbire – grazie anche a una localizzazione diffusa delle attività – i momenti di congestione delle ore di punta. A tal fine i progettisti adottano un grid system ortogonale di strade urbane veloci, capace di servire un pattern disperso – ma facilmente accessibile – di insediamenti residenziali: gridsquares di circa un chilometro quadrato contenuti entro la griglia stradale.
Il concetto di «comunità» è di conseguenza ampiamente ridiscusso, proponendo – in alternativa ai tradizionali bacini di utenza calibrati sui servizi o sui luoghi di lavoro – la creazione di aree di servizio sovrapposte, ottenute da punti nodali (intesi come fulcri gravitazionali) distribuiti diffusamente nello spazio. L’allontanamento dal paradigma della Neighborhood Unit è evidente: nei due volumi del progetto il riferimento all’idea di Perry, adottata pur con alcune varianti in molte new towns precedenti – è quasi inesistente, poiché il principio stesso dell’unità di vicinato – un modo di organizzare le abitazioni attorno ai servizi di quartiere assumendo che la maggior parte dei residenti viva per gran parte del tempo nelle immediate adiacenze – viene considerato del tutto superato visto che, come i sociologi urbani osservano con crescente frequenza, raramente le persone limitano le proprie attività nell’ambito di un singolo quartiere.
La logica viene dunque rovesciata: se i gridsquares ospitano le funzioni residenziali e produttive, gli activity centres, ciascuno capace di servire circa 5mila abitanti, sono localizzati ai margini, al fine di facilitarne l’accessibilità dalle diverse parti della new town e così sostenere le opportunità di scelta delle persone, evitando la suddivisione della città in aree più o meno monofunzionali introverse, tipiche – secondo i progettisti – del tradizionale disegno per quartieri locali. Gli activity centres sono definiti come «un gruppo di servizi localizzati nei punti di attraversamento pedonale delle maggiori strade». Si sviluppano attorno a una fermata dell’autobus e ospitano negozi, pub, scuole elementari e medie, mentre a un livello intermedio vi è una maggiore gamma di negozi e l’aggiunta di una scuola secondaria, un luogo di culto, una biblioteca, un ambulatorio e altri servizi.
Entro i gridsquares sono sperimentate diverse varianti del Radburn Layout anni ’20, e ciascuno è connesso agli altri attraverso percorsi pedonali (redways) separati dalle strade destinate ai veicoli, passando sopra o sotto la griglia delle arterie principali. Le strade di distribuzione interna servono il traffico locale, realizzandosi così un sistema gerarchico sotto il profilo fisico, funzionale e della mobilità. Se è vero che la città è stata pensata e disegnata per l’automobile, essa consente dunque, perlomeno in teoria, anche buone opportunità di mobilità lenta ciclo-pedonale. Una rete verde formata da una serie di parchi lineari controbilancia quella stradale: costituita da superfici erbose e boscate a ridosso dei percorsi pedonali e ciclabili, testimonia anch’essa del fatto che sin dall’inizio la mobilità automobilistica non è stata la sola ad essere presa in considerazione. Nel tempo, inoltre, saranno realizzati interventi di abbellimento paesaggistico: per le strade, con lo scopo di mitigare gli effetti negativi del traffico, per le redways ciclopedonali al fine di renderne più gradevole l’uso.
L’elemento acqueo è presente sia con il Grand Union Canal che penetra in profondità nella città, sia con un paio di corsi d’acqua minori realizzati per la nautica, la pesca, le passeggiate lungo gli argini e il miglioramento della qualità paesaggistica. I laghi, ricavati artificialmente dalle cave destinate all’estrazione dei materiali da costruzione e funzionalmente utili per il drenaggio delle acque dalle strade, sono invece usati oltre che per nautica, pesca e attività ricreative, anche per sport acquatici. Riprendendo la pratica tutta americana della libera localizzazione nello spazio degli shopping malls, gli urbanisti designano un numero di nodi dispersi ma geometricamente localizzati – generosamente serviti da ampi parcheggi – ove insediare i vari servizi, la qual cosa, unitamente alle basse densità residenziali, riduce ulteriormente la portata dell’idea di unità di vicinato come struttura capace di generare coesione fisico-sociale.
Se il nodo centrale avrebbe dovuto rappresentare un primus inter pares, condividendo le sue capacità funzionali con gli altri, nei fatti esso accrescerà rapidamente la sua dominanza e questo rafforzamento di centralità, in presenza di un contesto residenziale diffuso, porterà ad un aumento del numero di movimenti pendolari, della loro ampiezza media e, conseguentemente, dell’uso dell’auto come modalità di spostamento prevalente. Così, nel 1979 lo Shopping Building dell’area centrale è il maggiore mall della Gran Bretagna, con una superficie di oltre 125mila metri quadrati. Climatizzato e totalmente pedonale, circondato da un vastissimo parcheggio per le auto, offre anche servizi ricreativi e per il tempo libero: cinema, bar, ristoranti, night club. Curiosamente, il modello dello shopping mall suburbano così praticato negli Stati Uniti, qui è stato declinato nel bel mezzo di una città, forse perché è essa stessa così suburbana che un centro vero e proprio non è in fin dei conti facilmente riconoscibile.
Le promesse sono state comunque mantenute: la libertà di scelta e di movimento è stata massima sin da subito, grazie a quella mobilità automobilistica così sollecitata dal disegno del piano, ma ciò è avvenuto a scapito del trasporto pubblico, penalizzando gli anziani, i più giovani, coloro che non potevano permettersi un’auto e le famiglie numerose che, con una sola vettura a disposizione, non erano in grado di assolvere a tutte le necessità familiari in quell’insediamento così car-oriented, che somiglia più a un grande sobborgo che non a una città vera e propria. Una somiglianza non solo fisica ma percepibile anche nella composizione sociale: una comunità middle-class fortemente omogenea, frutto dell’affidamento al libero mercato – con le sue regole e i suoi costi – della realizzazione di una consistente parte dell’offerta abitativa (il 50%), al fine di superare i limiti delle prime new towns in cui la prevalenza di alloggi in locazione non aveva attirato proprio quella middle class desiderosa di una casa in proprietà, capace di contribuire in maniera più significativa all’economia urbana.
Specie a partire dal 1980, una serie di considerazioni commerciali unitamente all’approvazione dell’Housing Act con cui si poneva fine all’intervento pubblico residenziale da parte delle development corporations nelle città nuove, al contempo introducendo il diritto di riscattare le abitazioni pubbliche detenute in affitto, produrranno una spinta senza precedenti verso la proprietà dell’abitazione, con effetti immediati sulla forma della città. Gli operatori edilizi, trovando meno vincoli alle loro iniziative, si orientano verso più tradizionali soluzioni suburbane: così dalle 30-60 ab/ha nel caso di abitazioni in affitto, si scende a 10-20 ab/ha per quelle in proprietà, di maggiore pregio. Nel contempo, crescendo anche le dotazioni di verde, si consolida la vocazione a bassa densità della città.
Una caratteristica fortemente apprezzata e tale da farla considerare, a torto, il più fedele esempio di realizzazione di Garden City, la migliore espressione dell’ideale howardiano, quando non potrebbe discostarsene di più, indipendentemente dal rilevante successo per il quale, al censimento del 2011, contava quasi 230mila abitanti. La crescita di Milton Keynes è stata costante, sia nel corso degli anni Settanta – in ragione soprattutto delle politiche di decentramento pianificato che le hanno garantito un flusso ininterrotto di immigrazione, sia in seguito, allorquando la progressiva riduzione delle densità ha contribuito a modificarne la composizione sociale. Difficile un giudizio definitivo: se da un lato rappresenta un indiscutibile successo poiché soddisfa lo stile di vita suburbano meglio di molte altre realizzazioni, un paragone con analoghi contesti rivela un insieme di criticità tipicamente associabili alla sua forma.
Almere è una new town olandese ubicata a nord est di Amsterdam, la cui progettazione è stata avviata nel 1976. Inizialmente concepita come ambiente residenziale per i pendolari delle città vicine, ha avuto un tale successo che il governo ha deciso di concentravi ulteriormente lo sviluppo insediativo, programmando di farle raggiungere i 400mila abitanti, raddoppiando l’attuale numero di residenti. Esempio leader di new town europea, persegue uno stile di vita suburbano ma a densità elevate, nel contesto di una città tanto verde quanto compatta. Quali i riflessi di questa differente organizzazione della forma nelle due new towns? A Milton Keynes l’uso dell’auto domina con il 60% degli spostamenti contro il 35% ad Almere. Nella città olandese le alte densità hanno consentito una maggiore prossimità che ha permesso di incentivare la mobilità pedonale e soprattutto ciclabile: 28% contro il 6% di Milton Keynes, dove le elevate distanze rendono il ricorso all’auto praticamente obbligatorio. Inoltre, mentre nella compatta Almere – ove la densità media è di 35-40 ab/ha – l’85% degli spostamenti è inferiore ai 3 km, nella città inglese tale valore si dimezza.
Non pare azzardato dunque il paragone con la prima, più grande e più matura di quelle città non pianificate che hanno rapidamente trasformato piccoli villaggi in sobborghi sempre più grandi, saldatisi tra loro a formare lo sterminato agglomerato urbano della costa occidentale degli Stati Uniti, ovverosia Los Angeles. Nelle dovute proporzioni – l’area metropolitana americana supera i dieci milioni di abitanti, la città inglese è cinquanta volte più piccola – la sua forma tuttavia ne evoca, di diritto, l’assoluta somiglianza. La qual cosa sorprende considerando che se la prima rappresenta il trionfo della deregulation e dell’intervento speculativo privato non pianificato, la seconda è il prodotto della mano pubblica nel contesto del grande progetto post-bellico delle new towns britanniche.
da: Città sostenibili. Cento anni di idee per un mondo migliore. Aracne, Roma 2018. Nota: il titolo originario di questo capitolo in realtà era sintonizzato sullo spunto suggerito dall’ultimo paragrafo del testo, ovvero «Milton Keynes, 1967 La piccola Los Angeles nel cuore dell’Inghilterra». Per gli altri brani estratti dal medesimo volume disponibili su questo sito si veda a piè di pagina il tag dell’Autore Antonio Galanti