A volte per capire se le cose sono andate bene o male, se si era visto giusto o no, se si erano davvero messi in conto tutti i fattori, tocca riflettere anche sulla prospettiva di osservazione, cioè su quali fossero gli obiettivi prioritari. Altro aspetto, per nulla secondario, sarà anche capire se quegli obiettivi fossero comuni, o indotti, evidenti o impliciti solo per una parte degli attori in campo, mentre altri subivano convinti però di agire di propria iniziativa spontanea. Figuriamoci quanto è intricato il processo di espansione o dispersione urbana novecentesco, osservato secondo questa visuale critica e autocritica. All’inizio di tutto c’è la caduta, economica, simbolica e tecnologica, del tabù della città industriale compatta, ovvero dei limiti dello sviluppo gravati per tutta la prima fase della crescita industriale. C’è una redistribuzione della ricchezza, sotto forma di salari, servizi, accessibilità, tale da far sì che stili di vita un tempo appannaggio di pochissimi si allarghino a fasce sempre più ampie di popolazione, sino a includere almeno in prospettiva la maggioranza delle famiglie. Una possibilità molto «teorica» però, e proprio perché non tutti ne avvertono le forti limitazioni: lo stile di vita borghese ed elitario che si intende imitare, a volte addirittura superare in opulenza dei consumi, è di fatto irrealistico e inventato a tavolino. Proviamo a riassumerlo per sommi capi.
Abitare, lavorare, divertirsi
Chi abbandona lo stile abitativo della città industriale tradizionale cerca più spazio, meno inquinamento, più tranquillità. Esattamente come i privilegiati borghesi che l’hanno preceduto più o meno da metà ‘800 in poi, e di cui sogna di ricalcare in tutto o in parte gli stili di vita. Ovviamente però il mercato e le stesse possibilità di adattamento di individui e famiglie all’offerta, gli riservano ben altro, a partire dal vero essenziale: il borghese privilegiato suburbanizzandosi non rinunciava affatto a tutte le comodità e stimoli urbani, visto che l’abitazione lontana dal centro era in qualche misura una sorta di «seconda casa». Aspetto che appare ad esempio esplicito in quel caso estremo che è la Garden City originaria di Long Island, quasi quarant’anni prima della declinazione sociale e di massa di Ebenezer Howard, ma altrettanto evidente in tanti altri casi. Mentre col dilagare di automobili e case unifamiliari in proprietà del dopoguerra gli «uomini dell’Organizzazione» sceglieranno forzosamente un’esistenza monca, i cui vuoti saranno via via riempiti bene o male da una serie di nuovi bisogni inventati a tavolino dal mercato, e che vanno dall’attrezzatura di casa al tempo libero ai consumi immateriali. Spesso si crede che le masse in cerca di condizioni abitative migliori cercassero consapevolmente proprio quelle cose, ciò che nella memoria resettata costituisce il «mito di Suburbia»: il fine settimana tra barbecue, lavoretti di manutenzione, shopping familiare al centro commerciale, quelle lunghe trasferte pendolari per ogni funzione diversa, che diventavano attività a sé, e poi quelle relazioni sociali vagamente devianti e caratteristiche. Una nuova specie, l’homo suburbanus.
Sorpresa destra/sinistra
Ci sono parecchi modi per leggere questo epico minestrone di strategie di mercato più o meno virtuosamente o viziosamente mescolate all’arte di arrangiarsi, a epopee o tragedie individuali e collettive. Ma come si usa fare, schematizzando pure senza prendersi troppo sul serio (nel senso di senza pretendere di esaurire davvero il tema), possiamo dividere le prospettive di lettura tra progressiste e conservatrici, o meglio tra urbano-progressiste e suburbano-conservatrici. Vediamo come. C’è chi legge nel suburbio, nelle sue aspirazioni attuali sia meccaniche che effettivamente ideali, comunque un tentativo di costruire in modo imperfetto il progetto di mercato novecentesco, di centralità della famiglia, di un rapporto subordinato all’impresa e al tradizionale profitto, di sottomissione delle risorse naturali a questi primi due processi. Tutto ciò che visibilmente non funziona, dall’inquinamento, alle relazioni sociali, allo sviluppo culturale e civile, si può risolvere senza nulla concedere all’intaccare i fondamenti essenziali di quel progetto, magari con metodi tecnici o politiche sociali (ed è la tesi, più che conservatrice del saggio linkato). C’è chi nella crisi suburbana legge, forse più correttamente, soprattutto il permanere del disorientamento di chi cercava in fondo una «città diversa» più umana, ma non è riuscito né a trovarla, né a costruirsela ritagliando porzioni individuali e familiari di urbanità. Ma ripetere il medesimo errore degli urbanisti novecenteschi, ovvero agire sul solo fattore spaziale, come in tutte le idee di densificazione o Suburban Retrofitting che si susseguono, pare goffo e antistorico, pur magari animato da ottime e fondate intenzioni. È quel metodo, di plasmare prima i contenitori e poi il contenuto, ad aver sempre prodotto distorsioni incontrollabili e deviazioni impensabili. Forse chiarire prima cosa si vuole, invece delle tecniche per arrivarci, aiuterebbe ad evitare altri clamorosi abbagli.
Riferimenti:
Patrick Brown, The Suburbs Can’t Be Blamed for Everything, The American Conservative, 28 settembre 2018
Immagine di copertina: American Conservative/Creative Commons