Mobilità cittadina: il problema non è un altro

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Foto F. Bottini

Qualche giorno fa, girellando per Milano in un pomeriggio di festa, mi è capitato (credo per la ennemillesima volta in vita mia) di provare a percorrere Corso Sempione in direzione periferia. Classica strada viale a larga sezione articolata in più corsie, del tipo che usavano e usano ancora i manuali per farti vedere in sezione il fronte dei fabbricati, le rotaie del tram, il controviale per il traffico locale e separati da alberature quelli centrali per gli spostamenti più rapidi. C’è una lunghissima striscia asfaltata continua nella fascia alberata dove parcheggiano le auto, presumibilmente sfruttata da questi automobilisti giusto per andare e venire dai veicoli, che in pratica va fino a Piazza Firenze (un tratto bello lungo, per chi non fosse pratico). Di solito qui si aggiunge pure un “senza soluzione di continuità”, ma nel caso specifico ahimè le soluzioni di continuità, o meglio di discontinuità, sono una mezza dozzina abbondante. Perché in corrispondenza dei tagli trasversali, pure ovvi e fisiologici in un vialone del genere, quella striscia asfaltata a uso marciapiede per chi parcheggi sotto gli alberi fa un bel gradino, diciamo una ventina di centimetri. Tutto regolare, il solito cordolo di pietra da lavori eseguiti a regola d’arte, ma che impedisce, o rende estremamente difficile, alle biciclette sfruttare quella lunga striscia per raggiungere Piazza Firenze. Quanto costerebbe, in termini di soldi, di tempo, di profusione di competenze e responsabilità, realizzare quella decina di scivoli a raccordare i dislivelli? Lascio la risposta precisa a chi fa quotidianamente queste cose, ma immagino che in un modo o nell’altro suonerebbe: basta decidere di farlo, non mancano certo risorse economiche per quel tipo di cose.

L’idea di città

Ecco, visto che la famosa raccomandazione follow the money qui pare un po’ strabica, forse si può passare al latino e chiedersi cui prodest? Ovvero a chi giova e a chi potrebbe dare fastidio la realizzazione di quella decina di piccoli scivoli. Giova a chiunque usi quei luoghi, dal ciclista occasionale che non trova più quel salto improvviso (che chi non è pratico e si immaginava altro si ritrova di colpo nel buio, ad esempio), ma anche tutti coloro che scesi dalle auto si tirano appresso un trolley, un passeggino, un bambino piccolo per mano, giova alla signora che ha la borsa della spesa con le ruote, a chi ha qualsiasi problema di mobilità e ovviamente preferisce evitare i gradini in ogni modo. Ma a chi da fastidio? Ovvero, in altre parole, chi si oppone anche inconsapevolmente a quel costo ridicolo, in assoluto e rispetto agli infiniti vantaggi? Risposta riassuntiva aggregata: tutti quelli che col sorrisetto da compatimento iniziano a spiegarti che “il problema è un altro”. Ovvero di solito che si sta aspettando il grande finanziamento che renderà obsolete quelle piccole ridicole trasformazioni, di norma “cambiando il paradigma” della circolazione in zona. Oppure, variante nichilista, che se sommiamo aritmeticamente tutti quei piccoli problemi, ne esce uno solo enorme, che si chiama città, e che i nostri eroi affrontano quotidianamente smazzandoselo a quella scala, altro che quisquilie e pinzillacchere da perdigiorno, attenti ai saltarelli di un paio di cordoli. Peccato che la risposta implicita di questi qui del problema è un altro, sia invece: non me ne frega niente di quella cosa, perché non mi riguarda, non rientra nei miei schemi mentali. In altre parole, il nostro interlocutore ha un’idea di città che ci ignora totalmente.

Cambiamo interlocutore

Spesso chi si oppone alla logica delle grandi opere di trasformazione territoriale, edilizia residenziale e commerciale, strade, ferrovie, sostene che non ci vuole alcuna grande opera, ma invece tante piccole opere di tutela manutenzione, salvaguardia. Un concetto che alcuni critici ritengono inadeguato perché troppo conservatore, teso alla semplice conferma dello status quo, poco incline al progresso, ad evolversi come si evolvono naturalmente le situazioni. Anche accettando in parte questo genere di critica, si deve osservare che le piccole trasformazioni riguardanti la mobilità urbana non hanno assolutamente caratteri conservativi, ma anzi sono già esse stesse una somma di opere minori che definisce un nuovo paradigma, un sistema alternativo e innovativo. I soggetti del grande piano, altro non sono che gli utenti di quegli spazi, che individuando via via gli ostacoli a un uso dinamico della città, li aggirano, oppure ne sottolineano la presenza. Vale per i dislivelli, vale per gli attraversamenti (quelle classiche discontinuità indotte nelle siepi tra le corsie delle arterie veloci, per esempio), vale per i percorsi contromano o sui marciapiedi. Ogni punto di crisi, comunque risolto o contrassegnato, segna una rete di piccoli segmenti, che a differenza del mega “nuovo paradigma” evocato dai tizi del problema altro, non solo si colloca su questa terra, ma ne è del tutto complementare. Per così dire, è già in sinergia con l’esistente, lo completa, magari anche stravolgendone il senso, agisce come un murale di Banksy, ma sempre con una carica costruttiva, anche fisica. Per questo, chi usa ogni incidente stradale per evocare nuove grandi costose opere, nuovi paradigmi perché il problema è un altro, non ha capito un tubo e fa sono danni, enormi, scherza con la vita altrui e si meriterebbe solo un paio si sberle. Altro che.

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