Uno dei tasti su cui insistono di più le culture di centrodestra (qualunque bandiera sventolino per l’occasione) è il tema della cosiddetta eccellenza economica e di consumi: alto livello di servizi, grandi infrastrutture per lo sviluppo, luminosi risultati e ancora più luminose prospettive per la conoscenza e la ricerca. Esiste però un rovescio della medaglia da tutti riconosciuto, ed è la pessima qualità della vita mediamente indotta da questa eccellenza, che quindi in realtà non si capisce bene quanto sia davvero desiderabile. Una qualità della vita che, decisamente buona nei poli urbani centrali, sia nel nucleo metropolitano che nei centri minori, crolla man mano ci si allontana dall’ombra del campanile o downtown terziaria che dir si voglia, per inoltrarsi nello sprawl, che qualche stronzo continua a chiamare città diffusa per cercarci committenze di rammendo. Una dispersione che, come ognuno in fondo ben sa per esperienza diretta, non è per nulla classificabile città: marmellata di svincoli, capannoni, scatoloni commerciali, baccelli di villette chiusi su sé stessi, che punteggia enormi aree dai pedemonti alle pianure alluvionali, il nome geografico dateglielo voi a piacere, tanto è uguale.
Questo sprawl o pseudocittà infinita, secondo il «pensiero» politico ed economico sinora dominante, offre una qualità urbana tanto misera perché mancano le infrastrutture. Uno dei cantori più noti e disinvolti del modello, è arrivato tempo fa addirittura a sostenere nel corso di un dibattito pubblico, che anche certe manifestazioni truculente di arretratezza di costumi, quelle che si manifestano qui e là nei vari «delitti d’onore» familiari e analoghi, magari se ci fossero più corsie autostradali tenderebbero naturalmente a calare: la strada porta modernità, mentalità aperta, insomma urbanità. Parrebbe un’incredibile forzatura, anzi per dirla tutta una palese stronzata in malafede, ma di fatto è parte del substrato culturale al modello di sviluppo socioeconomico-territoriale seguito per decenni, di cui oggi ci godiamo – si fa per dire – i risultati. Le crisi economico-finanziarie come noto un po’ rallentano, le trasformazioni territoriali, ma assurdamente anche le loro peggiori vittime, i lavoratori, paiono non saper fare altro attraverso il loro rappresentanti che richiedere a gran voce sostegni pubblici a «rilanciare l’occupazione» battendo sui medesimi tasti, edilizia e dintorni insomma, il resto al traino.
Di fronte agli evidenti disastri, anche gli economisti se si occupano specificamente del settore trasformazioni territoriali esprimono fortissime perplessità davanti alle ennesime gradi opere autostradali che fungono da spina dorsale dello sprawl presente e futuro: meglio lasciar perdere, e concentrare le risorse in interventi di miglioramento locale della viabilità, con consumo di suolo zero per aggiunta. Ma si rischia sempre, passata ‘a nuttata, di ritrovarci al punto di prima, con gli eroi delle grandi decisioni a spiegarci: ma no, abbiamo scherzato, adesso si ricomincia. Un esempio in positivo è però quello che ci arriva dal New Jersey, stato famoso in tutto il mondo, curiosamente, per quelle barriere autostradali di cemento che nei paesi poco civili si usano quasi sempre a sproposito.
Nel New Jersey, anche lì sono preoccupati per la crisi dei quartieri, dei servizi, della qualità della vita locale, ma perché sta succedendo una cosa inattesa: un sacco di gente scavalca definitivamente i ponti sull’Hudson e si trasferisce nell’adiacente New York. E se proprio non ce la fa fin lì, ci si avvicina parecchio, almeno traslocando dalle circoscrizioni suburbane dell’entroterra verso la fitta conurbazione che sta ancora sulla sponda occidentale del fiume, ma di fatto è già metropoli al 100%. La cosa in fondo potrebbe sembrare banale, no? Da sempre la gente va nella Grande Mela, come nelle strafamose strofette di Frank Sinatra: «Start spreading the news, I’m leaving today, I want to be a part of it, New York, New York». La cosa curiosa, è che oggi si sta manifestando un fenomeno davvero anomalo, ovvero che a trasferirsi sono coppie appena sposate con bambini piccoli, oppure ci sono coppie del medesimo tipo che invece di involarsi tradizionalmente verso un quartiere cul-de-sac e la fatale villetta con giardino, decidono che in fondo ai piccoli il verde va benissimo anche se si chiama giardini pubblici, e che asili e scuole urbane non sono inaccettabili per decreto, per paura ancestrale dell’uomo nero che ci manda i bambini pure loro cattivissimi nei cromosomi.
Risultato? Le circoscrizioni suburbane a ovest dell’Hudson, o nel Connecticut, insomma nella vasta regione urbana discontinua che fa capo a New York, si svuotano. Il passo evolutivo della creative class metropolitana di scapoli e nubili di Richard Florida disorienta statistici e amministratori: si accoppiano, si riproducono, ma il nido lo vanno a fare in un posto inatteso, ovvero nelle aree dense, vitali, stimolanti della città. I più espliciti lo dicono molto chiaramente: mettere su famiglia non deve essere l’equivalente dello smettere di vivere, di avere relazioni, di frequentare i cinema, i ristoranti, gli amici. E naturalmente di camminare per strada anziché prendere l’auto appena alzati dal divano del soggiorno, di mangiare fuori e fermarsi ai giardini, di fare spese meno voluminose e magari più varie di quelle classiche massicce da Wal-Mart.
Uno stile di vita che per generazioni è stato relegato ad alcune fasce di ricchi o stravaganti, o troppo poveri per concedersi l’american dream, e che invece ora si conferma in grande crescita: lo dice il censimento, non qualche giornalista di tendenza, e riguarda anche il New Jersey operaio-impiegatizio. Insomma i segnali paiono inequivocabili: prima il vistoso calo delle immatricolazioni di auto, e la scoperta delle case automobilistiche che il loro prodotto non è più in cima ai sogni degli adolescenti; e adesso si incrina anche l’altro pilastro del mondo da telefilm, la casetta immersa nel verde con mogliettina che saluta il marito in partenza per l’ingorgo dell’ora di punta, rassegnata ad aspettarlo tutto il giorno con la sola compagnia del telefono, o magari della vicina pettegola. Si aggiungano i rapporti sulla migrazione urbana degli uffici centrali di molte imprese, o gli stessi studi della grande distribuzione per nuovi formati commerciali da adattare allo stile di vita cittadino, e qualcosa inizia a chiarirsi.
Quello che è cambiato è il mercato, bellezza, inteso come domanda e offerta, non le nebbie di qualche giochetto da specialisti. Cosa che dovrebbe far pensare, e forse ha già fatto pensare, gli operatori in buona o malafede di tutto il mondo civile, quando anche attraverso alcuni prestigiosi portavoce si dice basta al consumo di suolo, ovvero costruiamo sì, ma più città. Certo la città che hanno in mente di solito i costruttori vuol dire giusto più metri cubi su metro quadro, crescere in altezza, densificare. Ma cosa dice invece la società civile? Cosa dice la pubblica amministrazione che dovrebbe rappresentarla? Anche di fronte ai cantieri delle grandi opere fermi per qualche crisi, occorre una riflessione che vada anche oltre la non disponibilità di soldi per terminare i lavori e ri-distribuire risorse, chiedersi se e a cosa eventualmente servono, quelle opere. Non sarebbe magari più utile usare i soldi che ci sono per interventi di ricucitura locale, rinunciando ai grandi schemi, non tanto perché non ci sono i soldi, ma perché quello attuale non è uno sviluppo sostenibile. Si produce sprawl, da sempre, spesso in modo deliberato, mentre dal New Jersey oltre alle barriere di cemento inventate negli anni ’50 della suburbanizzazione rampante, ci arriva questo segnale nuovo, della ripresa di uno stile di vita urbano, nuovo motore di sviluppo.
Certo, in tutti i programmi elettorali compare prima o poi il tema del contenimento del consumo di suolo, ma poi non è chiarissimo né cosa ne facciamo di quel suolo risparmiato, né cosa si fa delle città e dei quartieri esistenti. A ovest dell’Hudson pare restino schiere di villette invendute, a volte pignorate per la crisi dei mutui, a volte ignorate da quelle nuove famiglie che non sanno che farsene del finto sogno immerso nel verde e nel nulla. Altrove, che vogliamo fare? Sicuramente elaborare un modello di sviluppo non solo territoriale, ma anche di stili di vita, trasporto, fruizione del servizi, a forte caratterizzazione urbana, che non significa stare tutti in un palazzone tipo Shanghai, come magari pensano i teorici della densificazione al metro cubo su metro quadro. Città è anche tanto verde di buona qualità, è natura e agricoltura integrate nel tessuto residenziale, è distribuzione commerciale capillare e pendolarismo meno esasperante. Come vogliamo pensarlo tutto questo? Per ora, ad esempio, sostenendo le forze che cose del genere le dicono da molti anni, e non se le sono inventate ieri perché è di moda, o perché c’è la crisi. Pensiamoci.
Riferimenti:
Dave Sheingold, NYC beckons new parents as North Jersey suburbs no longer seen as only place to raise kids, North Jersey, 17 febbraio 2013