Centinaia di candide colonne forate da piccole aperture cilindriche coprono il tetto del centro mostre di Paris Expo Porte de Versailles a sud della capitale francese. Odoroso basilico, fragole scarlatte, intrichi di kale verde scuro, tra i tanti colorati vegetali che spuntano da quei buchi, nel dispositivo di coltura senza terreno che si chiama Torre Aeroponica. «Sotto non c’è nulla» spiega Eugénie Mercier, sollevando una manciata di kale e mettendo a nudo le radici fluttuanti dentro la struttura di plastica. «Si irriga, la pianta assorbe ciò che le serve, poi l’acqua viene riciclata senza sprechi». Mercier dirige Nature Urbaine, la più grande coltura d’Europa sul tetto di un edificio, inaugurata nella primavera del 2020. Con 14.000 metri quadrati di superficie copre tanto quanto lo Stade de France non molto lontano, ma può produrre oltre dieci tonnellate di frutta e verdura ogni stagione, senza terreno né pesticidi. Secondo i produttori di Agripolis, il sistema idroponico e aeroponico a controllo computerizzato utilizzano l’80% di acqua in meno ed emettono il 62% in meno di anidride carbonica rispetto a una coltura tradizionale con la medesima resa. L’anno scorso Ecocert ha classificato il sistema di produzione agricola urbana come il primo sostanzialmente senza emissioni. «Non è greenwashing – conclude Mercier – fa davvero bene al pianeta».
Iniziative come Nature Urbaine stanno spuntando come funghi in tutta Parigi, già ce ne sono decine. Anche in altre città francesi si sperimenta questa strada di produzione locale alimentare; i promotori del modello sostengono che può ridurre drasticamente le emissioni, conservare spazi verdi urbani che arginano le temperature estreme, stimolare le relazioni sociali nei quartieri e migliorare le sicurezza alimentare e la resilienza climatica. Il riscaldamento del pianeta inasprisce la concorrenza per spazi e risorse, e sembra crescere a dismisura il ruolo potenziale di una agricoltura insediata nelle città. Secondo la FAO Food and Agriculture Organization il 79% di tutti gli alimenti prodotti nel mondo vengono consumati nelle zone urbane, ma il passaggio dal campo alla tavola è climaticamente assai oneroso.
Uno studio del 2022 rileva che quei chilometri-caloria, ovvero la distanza coperta dalla produzione al consumo, valgono un quinto del totale emissioni legate al cibo, ovvero molto più di quanto calcolato in precedenza. Mentre un citatissimo articolo da una ricerca condotta a Chicago nel 1998 calcolava in poco meno di 2.500 chilometri medi la distanza degli alimenti diretti a quella città, nel caso di Ontario, Canada, la distanza raddoppia. «Dobbiamo sfruttare meglio gli spazi produttivi alimentari più vicini a dove abitano le persone» spiega Elisa Appolloni, esperta di agricoltura urbana all’Università di Bologna in Italia. Ma restano aperte molte questioni su quale modello, di agricoltura urbana – fattorie verticali, pareti alimentari, serre o colture sui tetti — possa garantire veri vantaggi ambientali. Dove come e a vantaggio di chi?
Sul tetto
Le colture in verticale sono riuscite a rastrellare miliardi di investimenti finanziari negli ultimi anni, con la promessa di dar da magiare al mondo con strutture high-tech basate sulle energivore illuminazioni LED. Ma con considerevoli costi di gestione e prezzi dell’energia che crescono, il nascente settore fatica. La Infarm di Berlino sta licenziando 500 dipendenti, e in Kentucky AppHarvest che a ottobre aveva inaugurato il più grande impianto del mondo indoor oggi esprime «dubbi sostanziali sulla possibilità di proseguire»». Le colture verticali secondo la professoressa Appollini «sono più produttive di qualunque altra tecnica di agricoltura urbana ma non paiono sostenibili su larga scala e dappertutto». Funzionano in contesti come la Svezia dove c’è poco sole e l’energia costa meno.
Ad altre latitudini una risposta più conveniente e green può essere l’agricoltura sui tetti degli edifici che sfrutta spazi inutilizzati. Secondo studi di Appollini del 2014, queste colture sui tetti potrebbero produrre fino al 77% delle 16.000 tonnellate necessarie alla popolazione di Bologna, operando su una superficie calcolabile in 82 ettari. C’è abbondanza di spazio da usare: in un’altra ricerca analoga del 2021 su 185 casi di città globali il gruppo di lavoro ha rilevato «una capacità produttiva pochissimo sfruttata» sui tetti. Una tecnica agricola che ha vantaggi ulteriori rispetto alla produzione: «La rooftop farm – prosegue Appollini – ha potenziali benefici che vanno dall’isolamento ai rumori, al riciclaggio delle acque grigie, all’isolamento termico, al rafforzamento delle coperture». Nature Urbaine ha un approccio composito per equilibrare i costi. La produzione vegetale va ai ristoranti, agli abitanti vicini, agli alberghi. Un tetto bucolico con 156 spazi destinati all’uso locale, dove si organizzano visite e attività, che finanziano il tutto pareggiando il bilancio.
Ci sono altri che seguono modelli analoghi: Gotham Greens coi suoi circa 1.300 metri quadrati di serra operante in Brooklyn dal 2011, oggi gestisce 13 impianti in 9 Stati diversi. Recentemente è stata installata una coltura di frutta e verdure sopra il Javits Convention Center a Manhattan. A Parigi, Agripolis oggi gestisce altre sei fattorie urbane sul tetto di alberghi, una piscina municipale e un impianto di depurazione delle acque, mentre molti altri insediamenti sono spuntati in città francesi da Marsiglia a Lione a Tolosa. Sempre a Parigi esistono altre iniziative come una coltura di funghi in un ex parcheggio che li distribuisce in un raggio di quindici chilometri, e una serra da 7.000 metri quadrati su cui operano 300 server da un centro dati posto al di sotto.
Addirittura le decorate architetture ottocentesche della città possono ospitare produzioni alimentari: come le arnie da miele sul tetto dell’Opera del Paris. Altrove, da Nantes a Bordeaux, si piantano alberi da frutto. Ma il potenziale commerciale resta comunque limitato. Proiettato a scala globale, una analisi del 2018 concludeva che l’agricoltura urbana potesse arrivare a produrre fino a 180 milioni di tonnellate di alimentari l’anno, ovvero circa il 10% della domanda di legumi, radici, tuberi, verdure in foglia. L’Agenzia Parigina di Urbanistica (APUR) stima che sarebbe necessario coltivare 11.000 ettari per garantire di mangiare alla popolazione di Parigi, e altri 5.000 per chi ci lavora ma non ci risiede: una volta e mezzo le dimensioni della città. «L’agricoltura urbana non è una soluzione integrale ad alimentare la città» spiega Pascal Hardy, fondatore di Agripolis, secondo i cui calcoli si potrebbe coprire dal 5% al 10% del fabbisogno di Parigi. «Ma si possono avere comunque effetti molto significativi considerandola anche solo un complemento»
Coltivare i margini della città
Guido Santini, esperto di sistemi agro-alimentari resilienti nelle regioni urbane alla FAO, sostiene una forma di coltura focalizzata sulle prime fasce peri-urbane da ripristinare o mantenere alla funzione tradizionale. «Non si tratta semplicemente di produrre alimenti, ma garantire una migliore accessibilità a cibi freschi, nutrienti, specie alle famiglie più povere. Nelle fasce periurbane o rurali metropolitane c’è disponibilità di superfici per questo. Promuove aggregazione sociale , lavoro, reddito». Con questo obiettivo, l’Agenzia Francese per il Rinnovo Urbano nel 2020 ha promosso il programma Quartieri Fertili per 100 urban farm in tutto il paese, specificamente orientate alle comunità svantaggiate. Come nel caso di Lille, dentro e a servizio di un complesso di 1.500 appartamenti sociali, o la micro-azienda agricola che crea posti di lavoro in una zona come quella di Lorient, dove il reddito medio è di 7.400€, o un impianto di compostaggio e produzione-commercio fiori in una superficie industriale dismessa a Parigi, Seine-Saint-Denis. A parte i problemi determinati dalla pandemia, 95 su 98 progetti sono attivi, e si sta costruendo un bilancio. «Non volevamo certo solo costruire legami sociali spiega uno dei responsabili, Nicolas Le Roux. «Intendiamo realizzare veri e propri progetti produttivi».
Come tante altre moderne iniziative ecologiche Fertile Neighborhoods vorrebbe ricostruire qualcosa che è andato perduto. La Parigi pre-industriale stava su suolo fertile e ancora fino al XIX secolo era alimentata dalle proprie produzioni di frutta e verdura dalla Plaine des Vertus, vasta distesa agricola dove oggi si trova Aubervilliers. Qulcosa di simile si può dire di tante altre città del mondo là dove l’espansione urbana si è ingoiata le terre coltivate che un tempo davano da mangiare ai cittadini. In molti casi del Sud Globale centri come Quito o Lagos ancora attingono da questa risorsa storica di filiera locale, anche ostacolate gravemente dal sistema della proprietà e da alcune leggi e norme. Ma sta qui la prossima sfida dell’agricoltura urbana: dilagano le costruzioni nelle metropoli sempre affamate di nuove case, e si urbanizzano i terreni più fertili e coltivabili. «L’espansione attuale delle città a cui assistiamo in Africa o in Asia si divora i migliori terreni che non possono essere recuperati» spiega Johannes Langemeyer, professore al Laboratorio di Giustizia Urbana Ambientale e Sostenibilità di Barcellona. «Non si valutano a sufficienza le aree periurbane: non le si utilizza e attivamente le si cancella».
A Barcellona, per esempio, si tende a tutelare legalmente molto meglio ciò che ha valore culturale e storico rispetto a quanto ne ha di agricolo. Col risultato di spostare altrove quella produzione, continua Langemeyer. Nonostante così riescono comunque a conservare alcune superfici, come il Parc Agraris di tremila ettari considerato un modello di agricoltura periurbana. Anche nella capitale dell’Ecuador, Quito, si sono inseriti nel piano territoriale spazi di agricoltura urbana, ricorda Santini della FAO, che collabora con le amministrazioni locali proprio a coordinare sviluppo urbanistico e produzione alimentare. «Occorre considerare che esistono enormi differenze regionali per quanto riguarda la sicurezza alimentare» osserva Langemeyer. «In Europe, esiste spazio di lavoro, mentre in paesi come Haiti, si è sempre al limite dell’emergenza, è facile arrivare alla fame».
Tornando a Parigi, ci si sta preparando agli scossoni globali , regionali, locali dell’approvvigionamento alimentare. Col programma Les Parisculteurs attivo dal 2016 si sono istituite più di 50 attività di agricoltura urbana, incrementando la superficie dedicata dagli 11 ettari del 2014 ai 30 ettari attuali, e con l’obiettivo di arrivare a 100 ettari. Entro fine anno sarà pubblicato il nuovo piano di Green Belt Parigi, un anello di 350 km attorno alla città istituito dal 1983 a tutela degli spazi agricoli e naturali contro la dispersione edilizia. In più altri 3.000 ettari dedicati nell’area della Grande Parigi entro il 2030. L’istituto scientifico ambientale AgroParisTech collabora coi coltivatori per adattarsi al cambiamento climatico. «Vogliamo ancora più terre» afferma Christine Aubry, professore e consulente perl’agricoltura urbana. «Siamo ancora lontani dall’obiettivo a Parigi, ma stiamo crescendo e si tratta di una tendenza in accelerazione».
da: Bloomberg CityLab, 7 luglio 2023; Titolo originale: Can a City Feed Itself? Traduzione di Fabrizio Bottini