Certi comportamenti li odio, ho la forte tentazione di tirare in testa a quella gente la prima cosa che mi capita in mano. Per adesso prevale ancora, per fortuna, il ricordo dell’unica esperienza di confronto diretto, casualmente positiva. Erano le tre del mattino passate, di una notte afosa, e tre idioti continuavano a raccontarsene di irresistibili due piani sotto, ridendo a crepapelle e sempre più sgangheratamente man mano aumentava la fila dei vuoti sul muretto. Messo davanti all’alternativa tra il rischiare una coltellata e l’incubo dell’ennesima notte in bianco dentro a quel frastuono da osteria, sono sceso paludato in modo ridicolo, a chiedere se gentilmente potevano sghignazzare più piano. Beh: ho risalito con orgogliosa sicurezza le scale che avevo disceso in disordine e senza speranza, per parafrasare la famosa lapide. Nel senso che l’hanno proprio piantata di fare tutto quel casino, di cui magari non si stavano proprio rendendo conto. Certo non succede sempre così, come leggiamo nelle cronache, ma può anche succedere, anzi dovrebbe succedere quasi sempre.
Ergo è perfettamente comprensibile il fastidio, per usare un eufemismo, nei confronti di chi fa, da sobrio o meno, confusione tra ambito pubblico e ambito privato. E ce ne sono parecchie varianti, di quel genere di confusione, non ultima quella micidiale privato-privato, in stile padroni a casa nostra, scordando che si continua a condividere il medesimo pianeta con tanti altri, diciamo a respirare la stessa aria che trasporta onde sonore. Il privato-privato si esprime nel classico vicino fracassone, che essendo il fracasso prodotto dentro casa propria ne ignora artatamente (o in stupida buona fede) l’ampliarsi verso orecchie altrui occupanti altri spazi privati adiacenti. Ma in fondo non è affatto diverso, questo conflitto, dalle forme classiche di space-sharing dette in tempi moderni spagnolescamente movida, e di solito riassumibili nel muoversi da una bevanda alcolica all’altra, aumentando grazie al pieno di carburante il volume sonoro. Fino alla più silenziosa, ma spesso altrettanto fastidiosa, espulsione del prodotto finito contro qualche manufatto edilizio.
Sulla cosiddetta movida se ne sono dette e scritte di tutti i colori, ivi comprese riflessioni del tutto condivisibili riguardo alla necessità di considerare il fenomeno alla stregua di qualunque altro momento di espressione dell’urbanità, che come tale va digerito nel metabolismo locale evitando indigestioni e stupidi tentativi di espulsione in stile segregazionista. Manifestazione urbana appunto, che come tale in alcuni ambienti e varianti deve essere letta come sintomo positivo, ovvero tendenza evolutiva di un sistema. Nel classico suburbio villettaro ad esempio, che come ben sappiamo vorrebbe avere tutto il meglio della campagna e della città insieme, ovviamente non ce l’ha, ma fa anche di tutto per peggiorare le cose non riconoscendo neppure l’evidenza. Accade infatti che via via inesorabilmente (è così, piaccia o meno agli ideologi) in qualche modo lo sprawl converge verso modelli più urbani, anche i relativi comportamenti inizino a scavarsi una possibile strada personalizzata nell’ex idillio della famiglia neotradizionale.
Il primissimo passo è un minimo di densificazione, ad esempio con provvedimenti di lungo periodo che restringono le dimensioni dei lotti (di fatto promuovendo prossimità e relazione), ma anche con interventi meno morbidi, che vanno dall’urbanistica alle politiche locali più o meno complementari. Contestualmente all’imposizione di lotti più piccoli, e reti viarie più permeabili inclusi passaggi pedonali e ciclabili, slarghi a uso piazza eccetera, ci può facilmente essere anche una desegregazione funzionale se, per dare una botta di vita al rinnovato tessuto suburbano, vengono introdotte diverse funzioni e edifici a contenerle. La più banale di queste funzioni è quella commerciale, e la più banale tra le banali funzioni commerciali è quella del chiosco di ristorazione o locale analogo. Il quale solleva esattamente le medesime perplessità del tradizionale soffiatore di foglie o tosaerba il sabato, salvo farlo in un contesto orario diverso, e secondo una angolazione politica diversa.
Il contesto orario ovviamente diventa quello serale, quando difficilmente si fa manutenzione al prato, mentre l’angolazione politica cambia: non siamo più al famoso scontro titanico privato contro privato, la tua libertà che finisce contro il solido steccato bianco, ma interferisce con quella altrui se si tratta di onde sonore. No, stavolta siamo proprio all’anarchia, come intuiscono spontaneamente i suburbanites incalliti, quelli che votano vuoi Tea Party, vuoi Ukip, vuoi Front National, vuoi Lega Nord, a seconda delle varianti locali. Anarchia che ha introdotto nel tempio della famiglia e del privato quel luogo di perdizione detto spazio pubblico, e connotato da posti a sedere dove si chiacchiera del più e del meno, magari bevendo qualcosa, e magari facendo un po’ di casino nel frattempo. Con classica pruderie ideologica, i nostri neoreazionari non tollerano minimamente questo tintinnio e cicaleccio delle cene all’aperto, sommesso al punto che non si capisce neppure perché sollevi obiezioni. Il fatto è che non si tratta di obiezioni al fatto in sé: loro hanno confusamente intuito davvero qual che sta succedendo, un po’ come i banditi della frontiera iniziano a tremare istintivamente quando nel loro regno dell’arbitrio e del più forte si iniziano a stabilire delle regole, e arriva lo sceriffo. Nel caso specifico arriva l’urbanità, e speriamo che ce la faccia alla svelta anche col resto delle varianti.
Riferimenti:
Fabrizio Bottini (a cura di), Il governo della complessità urbana dalle politiche per la notte alla salvaguardia della diversità, Metronomie n. 30, 2005