Se si cammina per le vie di Manhattan in questi giorni pare davvero difficile credere che, soltanto pochi mesi fa, si trattava di una di quelle rarissime «supercittà» la cui densa concentrazione di imprese innovative e lavoro altamente qualificato spingeva la crescita economica del terzo millennio. Dopo sei mesi di pandemia, è tornato in ufficio meno del 10% dei colletti bianchi della città, si prevede entro la fine dell’anno di arrivare al massimo al 25%, magari al 50% verso la prossima estate, secondo una indagine di Partnership for New York City. I locali di Broadway restano chiusi a tempo indefinito, nessun turista in giro, chiuso permanentemente l’Hilton di Times Square.
«New York City definitivamente morta» titolava il New York Post un articolo in cui lamentavano la propria desolazione un manager dei fondi di investimento e il proprietario di un locale di spettacoli. Ed è vero che il futuro delle grandi città è diventato un tema di primo piano, di dibattito scientifico, amministrativo e politico, manageriale, specie tra chi possiede e ha investito in edifici per uffici, alberghi, centri commerciali, appartamenti, e vede in bilico una cifra complessiva sui 15 trilioni di dollari. Alla decina con cui sono riuscito a parlare appare chiaro come la pandemia cambierà tutta la nostra vita. Ma appare chiaro anche a tutti come se il prossimo decennio sarà doloroso e traumatico, alla fine le grandi città ne emergeranno più abitabili, più eque, più economicamente efficienti e resilienti di prima. Ma cominciamo dalla questione lavoro.
Di sicuro la pandemia ha dimostrato come moltissime mansioni possano essere svolte senza fare il pendolare per un’ora e più ogni giorno, cinque giorni la settimana, per lavorare dentro un cubicolo di pochi metri quadrati che svolge il ruolo di ufficio in centro, e che costa all’impresa diecimila dollari l’anno di affitto (il calcolo è sui prezzi medi per le grandi città). Le indagini di settore mostrano come il 70% delle imprese intenda comunque ridurre il proprio spazio a uffici, e una maggioranza di due terzi dei dipendenti preferisca lavorare almeno due giorni la settimana da casa. Il terzo rimanente a lavorare in ufficio non vorrebbe andarci proprio mai. Ma nonostante tutto gli uffici in centro non spariranno di sicuro. Serve ancora l’interazione diretta per stabilire cooperazione e spirito di squadra, sviluppare culture produttive e stimolare innovazione, dentro le imprese così come tra l’una e l’altra. «È il senso stesso della densità urbana a cadere se le persone non possono lavorare insieme» commenta William Wheaton, professore di economia urbana al MIT e animatore del Center on Real Estate.
Tutti proviamo a indovinare cosa succederà davvero, ma Wheaton e altri con cui ho discusso il problema provano a ipotizzare che la quantità media delle persone che andrà in ufficio ogni giorno potrebbe scendere del 30%. E prevedono anche che dopo anni di affollamento pigiato dentro gli open space, la sedimentata memoria della pandemia porterà le stesse imprese a offrire più superfici pro capite e privacy ai propri dipendenti che operano in sede. Se consideriamo anche alcune variabili gli analisti si spingono anche a considerare un calo di domanda di spazio a uffici del 20%. In passato un calo di quelle dimensioni della domanda ha condotto a diminuzioni dell’affitto fino al 50%.
«Un crollo dei prezzi di ampia portata» prevede Anthony Lanier, le cui innovative trasformazioni urbane hanno tanto contribuito a cambiare il volto di Georgetown e West End a Washington. «E non esiste nulla che possa far tornare le cose come prima». A Manhattan, l’assestamento verso il basso potrebbe risultare drammatico. Anche se gli scambi sono drasticamente calati da marzo a maggio, il prezzo per gli uffici era di circa quattromilacinquecento dollari al metro, ovvero il 57% in meno dello stesso periodo l’anno precedente. Le quotazioni dei principali investitori immobiliari di New York — Empire State Realty, SL Green, Vornado e Paramount — pure crollano del 50% circa. Non sorprende quindi che i giganti del settore implorino in ogni modo le grandi imprese della città di riportare i propri dipendenti in ufficio. L’idea è che gira e rigira più tempo quel lavoro rimane ibernato lontano, meno probabile il ritorno a casa. «Capiscono di essere in profonda crisi» dichiara Kathryn Wylde, presidente di Partnership for New York City, al periodico specializzato Bisnow.
Anche altri segmenti del mercato immobiliare temono assai dolorosi ridimensionamenti. Molti alberghi di New York non riescono più a pagare i mutui a causa del crollo di clientela e turisti in un mercato già inflazionato. Anche quando la pandemia finirà e riprenderanno viaggi e turismo, difficilmente ripartirà il comparto degli spostamenti per affari, da quando le imprese hanno scoperto i vantaggi delle transazioni e trattative di vendita online. Un esperto ha dichiarato al Wall Street Journal che il 20% degli alberghi della città potrebbe non riaprire più, e chi rimane nel mercato dovrà aspettare anni perché i prezzi delle camere inizino a riavvicinarsi a quelli di prima della pandemia. Gli scambi più recenti indicherebbero un crollo di valore attorno al 30% con ulteriori perdite man mano altri immobili pignorati vengono messi in vendita.
Non molto meglio sta andando il settore immobiliare negozi, con la chiusura di parecchi tra i principali grandi magazzini. Amazon ha annunciato l’acquisto dell’ex edificio Lord & Taylor sulla Fifth Avenue da convertire in propria sede newyorchese, mentre Facebook sta valutando di comprare il palazzo Neiman Marcus che avrebbe dovuto ospitare il centro commerciale su sette piani nel progetto Hudson Yard. Grandi catene di distribuzione nazionale da Le Pain Quotidien, a Kate Spade, Gap, Victoria’s Secret o J.C. Penney, prevedono la chiusura definitiva di propri punti vendita a New York. CoStar, specializzata in informazioni immobiliari, calcola che saranno complessivamente circa 7.700 tra negozi e ristoranti della città a chiudere entro fine anno, rovesciando sul mercato una superficie commerciale di circa 10 milioni di metri quadri. Sulla Upper Madison Avenue, dove tutti gli stilisti dovevano avere una sede, gli affitti un tempo fino a diecimila dollari al metro sono calati del 15% secondo l’immobiliare CBRE. A SoHo, il calo è del 37%. Dagli scambi più recenti si calcola che i valori immobiliari commerciali siano scesi della metà.
Anche per un comparto piuttosto abituato a bruschi cicli di alti e bassi, si tratta di una scossa di proporzioni bibliche, e non solo a New York ma in tanti altri mercati immobiliari: San Francisco, Seattle, Los Angeles, Boston, Miami e Washington. Crollano i prezzi e scattano i pignoramenti, si perdono così anche gli investimenti originali. Anche operatori finanziari che svolgono ruoli intermedi — compagnie di assicurazione, fondi pensione, gruppi di investimento privati che rilevano crediti — probabilmente subiranno notevoli perdite. Anche le banche hanno accantonato 111 miliardi di dollari per coprire le perdite dei prestiti immobiliari commerciali, secondo la Federal Reserve. Studi legali e banche di investimento arrancano per riorganizzarsi col personale e gestire l’alluvione di pignoramenti e ristrutturazioni di origine immobiliare. Negli ultimi sei mesi si sono raccolte decine di miliardi di dollari per incamerare immobili o prestiti immobiliari a prezzi fortemente scontati, e a volte sono stati gli stessi che oggi lamentano perdite sugli investimenti. Ma tutta questa congerie di pessime notizie per proprietà immobiliari, investitori e prestiti, potrebbe anche diventare una grande occasione perle città.
Negli ultimi vent’anni, prezzi degli immobili e affitti sono stati spinti a livelli insostenibili nei centri maggiori, da chi giovane e con grandi aspirazioni voleva assolutamente abitarci, da imprese di successo che volevano trovarci sede, dai turisti che si precipitavano a visitarle, da chi voleva aprirci un negozio, e soprattuto in particolare da chi ci investiva. L’insieme di questa domanda insaziabile e offerta relativamente scarsa ha scagliato in orbita i prezzi dei terreni urbani. Chris Leinberger, presidente del Center for Real Estate and Urban Analysis, spiega come nella gran parte delle città, il terreno pesa il 30% sul costo della casa. Mentre a San Francisco o a New York,era schizzato sino al 75%. Alla fine i prezzi erano così elevati che soltanto i veramente ricchi riuscivano ad abitare in quelle città, spingendo i redditi più bassi e anche il ceto medio verso il suburbio e l’esurbio, obbligandoli ad un terrificante pendolarismo. Le imprese in crescita, vista l’impossibilità di attirare nuovi talenti, avevano cominciato ad aprire sedi satellite in centri più accessibili e abitabili, da Austin, a Portland, Oregon, o Nashville o Denver. L’abisso tra più ricchi e più poveri ha poi generato i contraccolpi del populismo e dell’instabilità sociale.
A ben vedere, nel mesi prima che colpisse la pandemia, New York e altre grandi città vedevano da anni diminuire la propria popolazione. Condomini che restavano invenduti, uffici e complessi ad appartamenti non affittati si accumulavano sui mercati. L’occupazione delle stanze d’albergo aveva già iniziato a scendere dai record del passato. Chiudevano le serrande ristoranti e negozi di zona che erano stati affollatissimi, cacciati da affitti insostenibili che crescevano ancora. «L’economia edilizio-immobiliare già prima della pandemia aveva parecchio di distorto» valuta il costruttore Lanier. Nel breve termine adesso accelereranno espulsioni e migrazioni di posti di lavoro, abitanti, capitali, verso il suburbio e le città medie. Ma con la discesa di prezzi immobiliari e affitti prenderanno piede dinamiche diverse: «Prevedo un riequilibrio sia all’interno delle città che tra le varie città» ipotizza Richard Florida, il cui libro del 2002 L’ascesa della Classe Creativa ha tanto influenzato l’idea di trasformazione urbana in tutto il mondo.
Spazi vuoti e affitti che crollano negli edifici più ricercati in centro consentiranno alle imprese che oggi occupano luoghi meno auspicabili e meno comodi in periferia o nel suburbio esterno, a traslocare là dove prima non potevano permettersi. E le compagnie in grande sviluppo che pensavano di trasferirsi in centri satellite resteranno invece nella medesima zona centrale. Con quotazioni più basse condomini e appartamenti diventeranno accessibili per acquisto o affitto a persone che erano spinte verso superfici minori o zone scomode, o addirittura fuori dall’area metropolitana. Chi oggi ha tasche per un albergo a tre stelle potrà permettersene uno a quattro, e chi frequentava quegli hotel remoti suburbani in alta stagione potrà invece venire direttamente in centro.
Con la chiusura di grandi magazzini e punti vendita delle catene nazionali, subentreranno operatori indipendenti di negozi e ristoranti, tra centri commerciali, quartieri e zone ricche di clientela desiderosa di spendere. «Se gli affitti sono adeguatamente contenuti è facile prevedere una rinascita commerciale delle città» spiega Ed McMahon, dello Urban Land Institute. Una ripresa che potrà impiegare anni a dispiegarsi, con tante altre chiusure e ristrutturazioni sul cammino. Le perdite immobiliari le subiranno tutti, ma le più importanti saranno quelle di chi possiede gli edifici meno desiderabili, dove i vuoti disponibili e affitti bassi non bastano a coprire spese di gestione e interessi. Edifici che una volta risolte le questioni finanziarie saranno pronti per una riconversione ad altra funzione, molto probabilmente residenziale e rivolta famiglie di ceto medio e lavoratori.
Il riferimento non è certo a quegli edifici ad appartamenti a torre che oggi tutti vorrebbero costruire, ma magari a case singole a tre stanze su piccoli lotti e ingresso a portico, o palazzine su tre piani con balconi e alloggi su due livelli, in viali alberati da cui si può andare a piedi al parco o a scuola o alla fermata del tram più vicina o ai negozi di prossimità. Insomma il genere di quartieri urbani che un tempo costituiva il nerbo di ogni grande città, di cui oggi resta una forte domanda ma a cui possono accedere solo le fasce più alte di reddito. Ce n’è un gran bisogno di quartieri così, tanto bisogno di rivederli accessibili e abitabili.
Un tipo di trasformazione che ha parecchi precedenti anche non lontani. Dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, abitanti e imprese avevano abbandonato tutta quella zona di Manhattan e non si capiva che fine avrebbe fatto tutta la serie di torri di cristallo svuotate, quegli uffici senza più nessuno. Da allora sono stati convertiti a nuove funzioni oltre 1,3 milioni di metri quadri di immobili, è triplicata la quantità di residenti, oggi l’area è una vivace comunità di uffici, appartamenti, negozi, ristoranti.
Con una adeguata urbanistica e amministrazione finanziaria e il sostegno pubblico, non c’è motivo per cui New York e tutte le grandi città non possano riprendersi nel mondo post-Coronavirus della crescita più lenta, delle densità di persone e attività minori, dei prezzi più bassi. In fondo su quei caratteri le città hanno prosperato per secoli, motori di efficienza, occasioni, innovazioni, sempre più dinamiche e adattabili. Per dirla con Mark Twain, probabilmente darle per morte adesso è un filino esagerato, no?
da: Washington Post, 22 settembre 2020; titolo originale: Not so fast, urban exodus: Coronavirus could make New York and San Francisco great places to live again – Traduzione di Fabrizio Bottini