Un mio conoscente di epoca giovanile aveva una spiccata passione per le donne vestite vistose. Niente di che: la moda, specie quella popolare, vive di queste cose, abbigliamento che attira l’attenzione, messaggi sessuali di vario genere, identità vere o presunte cacciate dentro un accostamento, un accessorio, un tipo di stoffa o un giochetto sulle taglie più abbondanti più minimali. Però mi chiedevo fino a che punto, quel mio conoscente, riuscisse a distinguere la forma dalla sostanza, perché a volte pareva davvero scivolare dentro una specie di feticismo, ignorando o quasi bellissime persone per perdersi invece dietro a totali banalità o autentici pugni in un occhio, purché addobbati dentro i simboli del caso. Confuso, nelle sue poco meditate preferenze sessuali (o perlomeno in quelle manifestate pubblicamente) al pari di tante altre persone in tante altre preferenze e orientamenti, basta pensare a quello agricolo-alimentare, dove i simboli esteriori ormai paiono assai più pesanti del pur apparentemente essenziale nucleo centrale. E per questo partivo da un esempio di «basso ventre» analogo se non identico, come quello sessuale: l’istinto pavloviano feticista è un conto, ma si dovrebbe anche pensare un po’ di più a ciò che lo spinge.
La moda bio naturalista
Quanto «feticismo» c’è in chi adotta certe diete e comportamenti collaterali di fatto seguendo una moda, anche se in ottima fede e con l’idea che possa davvero trattarsi di una scelta di vita eterna? Classicissimo il caso di quanti si orientano verso certe etichette o reti di distribuzione, che convogliano immagini di rispetto per l’ambiente, armonia con la natura, e condiscono questo messaggio (peraltro del tutto legittimo, per quanto parziale, molto parziale) con richiami a stili di vita, luoghi, relazioni assai accattivanti e condivisibili. Poniamo le diete salutiste, o vegetariane-vegane, con tutto il contorno di salute, abitare sostenibile, rispetto della biodiversità e magari anche allargandosi alle forme del territorio, la tutela della campagna, il rispetto degli animali e delle varie forme di vita. Fin qui però c’è appunto quanto si definiva feticismo, ovvero viscerale amore fisico spontaneo per la sovrastruttura: dove casca l’asino? Casca per esempio, e facendo il caso opposto speculare del «carnivoro sostenibile», quando si scopre che oggettivamente, un apporto proteico da fonti animali prodotte con tecniche sostenibili, non può andare oltre il simbolico. Che se davvero una popolazione locale volesse sperimentare in modo coerente questo genere di rapporto fra alimentazione e territorio, si dovrebbero ribaltare decisamente troppe cose. Troppe perché il sistema riesca a reggere. La medesima cosa accade per esempio quando i vegani integrali dichiarano di ricorrere abitualmente agli integratori di produzione industriale, sorvolando sugli impatti verificati della loro produzione e distribuzione, ben più rilevanti di quanto eventualmente «risparmiato» dalla loro pluriennale scrupolosa dieta.
L’ossimoro dell’agricoltura urbana sostenibile
La medesima cosa avviene di fatto nel pur dibattuto e interessantissimo campo della produzione alimentare ad elevata tecnologia in ambiente cittadino, il chilometro zero per eccellenza. Dove peraltro si mescolano ad alto livello esattamente gli stili di vita e scelte individuali, le oggettive possibilità di farli corrispondere a qualcosa che vada oltre il simbolo (che sia almeno una affermazione di principio), e l’uso dei comportamenti e dei loro effetti alla stregua di laboratorio urbano. Elemento centrale in questo caso è la sovrastruttura feticcio dell’agricoltura high tech, quella di cui si parla con riferimento alle fattorie verticali, all’idroponia, all’uso e riuso di contenitori industriali, commerciali, residenziali, per questa funzione, eventualmente integrata ad altro. E la domanda suona in generale: cosa si può ragionevolmente fare, per accorciare davvero i chilometri-caloria, risparmiare suolo sottraendolo non solo all’urbanizzazione, ma anche all’agro-industria chimica, e agire in una logica compatibile (magari indicativamente, compatibile) coi criteri di mercato sani, quelli più o meno legati alla domanda e all’offerta più che alla pura speculazione e profitto? Sinora, ne abbiamo ascoltate davvero tantissime, e interessantissime, in termini simbolico-feticisti, dai tetti verdi sopra uffici finanziari dove i manager vanno a cogliere l’insalata per la pausa pranzo, ai vertiginosi rendering architettonici di torri da cui spuntano cavi, tubi, ciuffi di verzura, tutto assai elegante ed evocativo, ma non si capisce bene di cosa. Scendendo in questa valle di lacrime, cioè andando a vedere cosa poi partorisce concretamente la montagna simbolica, si scopre il micro-topolino di qualche costosa foglia di erba aromatica, magari per giusto guarnire il Margarita di qualche rarissima cena di rappresentanza. Ecco: se vogliamo davvero «risolvere la contraddizione città campagna», partendo dall’agricoltura e dell’alimentazione, forse stiamo sulla strada sbagliata, come quel lontano conoscente che inseguiva dei manichini in autoreggenti leopardate.
Riferimenti:
Steffi Koh, The urban farming pioneer who wants to feed the city’s soul, Channel News Asia, 5 marzo 2017