Immaginiamoci la città sognata da qualche nerd ipertecnologico dei nostri tempi, dove più nessuno «va a lavorare» né a scuola né a fruire di vari servizi pubblici o privati che siano, perché tutto avviene attraverso i flussi immateriali della rete. Niente più ora di punta, quando per sincronismo meccanico come raccontavano agli albori del XX secolo i futuristi, «le grandi folle agitate dal lavoro» si incanalano dentro «le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano», e nemmeno più ovviamente il più triste e notoriamente micidiale serpentone fumante dell’ingorgo automobilistico urbano, piccolo o grande che sia. Immaginiamoci anche, che il successo dei vari social network online sia tale per cui nemmeno le relazioni sociali spingano la gente a incanalarsi per strade e metropolitane, dato che ogni scambio si risolve in un colpetto di polpastrello, un battito di palpebra, direttamente dal divano del soggiorno o dall’amaca stesa tra i due alberi canonici in giardino. Con questi presupposti, potrebbe magari diventare realtà il genere di surrealismo metropolitano intravisto dai quadri di De Chirico in poi dentro i fascinosi schizzi prospettici degli architetti: edifici ordinatamente allineati, eventualmente un po’ sfalsati ad accentuare il gioco delle ombre, un alberello qui e là, ma niente esseri umani che sporcano e schiamazzano. Scherzi a parte, e anche non scherzando affatto sulle potenzialità offerte oggi e probabilmente ancor più domani dai flussi immateriali in tanti campi, appare piuttosto ovvio che una rete elettronica (almeno con le possibilità attuali e prevedibili) non si sostituisce affatto alla circolazione fisica dei mezzi di trasporto.
Quel che la rete non regge
Quando da cittadini esasperati dal traffico e dall’inquinamento spontaneamente sbottiamo «ma perché questi non vanno tutti a piedi?», probabilmente ci riferiamo a un «tutti» assai relativo, che comprende un segmento non necessariamente maggioritario dei flussi materiali. Pensiamo in realtà quasi esclusivamente a chi il mezzo a motore privato lo sceglie, non a chi ad esso è quasi indissolubilmente vincolato. Un grande insieme di categorie, a sua volta articolabile fra chi trasporta persone e chi trasporta cose, cui si somma in varia misura chi proviene da aree del tutto prive di possibilità alternative, e che non può o non ritiene di cambiare modalità una volta entrato dentro l’area servita. Basta pensare a questo proposito all’infinita e articolatissima serie degli addetti alle manutenzioni urbane, sia correnti che di pronto intervento, che trasportano sé stessi, attrezzature, ricambi entro una rete così ampia e al tempo stesso così capillare, da rappresentare tutto un universo a sé, quando iniziassimo a parlare di intermodalità e possibilità alternative. Ed esiste poi il trasporto merci vero e proprio, ovvero tutto ciò che va ad alimentare le attività economiche e commerciali della metropoli che non si basano su servizi immateriali. Dentro a questo trasporto merci, già piuttosto complesso e intricato perché ad esempio è suscettibile di oscillazioni, oltre ad essere estremamente capillare, si distingue la particolarità dei trasporti di alimentari.
Mangiare non è una cosa facile
Il flussi della logistica alimentare urbana risultano particolarmente complessi dentro una rete che già non scherza quanto a complessità, perché dipendono anche dal mercato, dalla domanda e offerta (e articolata su vari livelli) ovvero dai cangianti gusti di chi mangia e beve. Insomma muovere derrate nella metropoli è assai più fluttuante che non spostare pendolari da casa all’ufficio, e dipende necessariamente assai di più da una mobilità elastica, in grado di adattarsi relativamente all’imprevedibilità, così come è imprevedibile la reazione del pupo davanti alla pappa di mezzogiorno: la vuole o dobbiamo trovargli un’alternativa? In fondo tutto si risolve in quello, domanda e offerta, moltiplicato vari milioni di volte, e anche spalmato sui tempi, gli spazi, gli intrecci sociali, etnici, delle reti distributive urbane. Esiste, qualcosa di diverso dal veicolo individuale o analogo, in grado di garantire (come prova a volte con successo a fare oggi) la medesima capillare risposta a tutte le esigenze? E soprattutto, si dovrebbe porre il problema chi ha un approccio nel segno delle politiche urbane, quali sono le vere alternative a basso impatto all’attuale monopolio dei grandi e piccoli veicoli a benzina, con la loro rete complementare di spazi e strutture? Proviamo a iniziare a rifletterci, perché anche accettando (cosa che personalmente eviterei, ma non si sa mai) quel genere di lavoro schiavistico di consegna in bicicletta attuale di pizze e analoghi, restano pur sempre le forniture delle materie prime per cucinarla, la pizza, che non arrivano certo in uno zaino. E neppure via internet. Per comprendere meglio la complessità della questione, il linkato recentissimo rapporto sulla logistica alimentare in una grande metropoli come Londra.
Riferimenti:
Feeding London 2030, United Kingdom Warehousing Association 2017