Chi prova solo ad accennare a un ruolo delle attività produttive nella metropoli del terzo millennio viene quasi deriso. Ma è proprio vero che l’unico futuro possibile sia quello dei quartierini di tendenza dove ricchi plurilaureati non oltre i trent’anni lavorano in rete? La stampa ci parla delle città, specie delle città esemplari, modello, che indicano in un modo o nell’altro il futuro, e si ripete più o meno la medesima storia. Cambia lo sfondo, un po’ l’atmosfera e il colore locale, ma paiono pietrificati ambiente e personaggi: abitazioni a densità medio-alta molto accessibili a piedi, direttamente dalla strada o da altri passaggi e percorsi attrezzati, ristoranti e locali vari ovunque, traffico misto 24 ore su 24, e facce tutte, rigorosamente, giovani. È il centro città disegnato dai progettisti new urbanism e popolato dalla cosiddetta creative class nelle sue varianti di moda, un posto dove tutti sembrano fare per mestiere il consulente finanziario, il creativo del web, l’organizzatrice di eventi culturali o convegni multidisciplinari. Ah, e naturalmente il reddito pro capite medio presunto viaggia ben oltre i 100.000 euro l’anno, solo per parlare di chi è appena arrivato e deve un po’ accontentarsi.
Riscuote consenso incondizionato la tesi del «Trionfo della città» per citare il best seller di Edward Glaeser, che da bravo economista sistematico non può fare a meno di esaminare la metropoli contemporanea come sistema complesso, ovvero collocarsi a mille miglia dalle cartoline ottimiste e un po’ ingessate alla Richard Florida, da cui paiono cancellati poveri, anziani, lavori manuali, e anche cose comunissime come ipermercati, quartieri di villette, fabbriche, ospedali …
La città contemporanea in una prospettiva globale è certo invece la somma di tanti localismi, tanti strati sociali, tante qualità ambientali anche estreme, ma è indubitabilmente un posto molto più desiderabile della campagna. Anche quando abitarla significa la vita dello slum, il riciclaggio di spazzatura, o il classico lavoro di fabbrica, senza neppure il conforto dell’organizzazione tayloristica nel modello informale e diffuso di oggi.
Insomma tanta economia e politica pur sostanzialmente strizzando un po’ l’occhio a certe tendenze contemporanee, quando ribadiscono che il futuro sta nelle economie della conoscenza poi recuperano anche alcuni caratteri classici della città industriale. Perché è ovviamente innegabile questo aspetto degli insediamenti contemporanei, se solo si prova a guardare un po’ oltre il proprio naso. Quando qualche tempo fa in Italia la fabbrica milanese della INNSE inaugurava la stagione delle lotte operaie sui tetti, forse non se ne coglieva in pieno il significato anche urbanistico: la difesa non riguardava solo ed esclusivamente i posti di lavoro, ma anche la presenza fisica dell’industria nel core metropolitano, là dove invece la cultura tecnica e politico-amministrativa dominante voleva soltanto residenza, loft, e stilisti. Del resto, se si traggono le conclusioni adeguate anche da recenti quanto contraddittorie politiche urbane di vero mixed-use (non quello artefatto degli immobiliaristi) appare ovvio che la vitalità deriva anche da cose come fabbriche e quartieri popolari. Per non parlare di eguaglianza, democrazia ecc.
Questo naturalmente se l’ente pubblico fa davvero il suo mestiere, cioè non solo cercare di ricomporre in qualche modo gli interessi individuali e tappare buchi, nella tramontata (si spera) logica del capitalismo compassionevole, ma rilanciando un progetto di ampio respiro sia sul versante fisico-ambientale che su quello complementare economico-sociale. Se il futuro sta nelle città, non si può certo lasciare né agli interessi privati, né alla dimensione esclusivamente locale il compito di definire strategie, soprattutto di fronte alle sfide ambientali, energetiche, della competizione globale.
L’uscita dai cicli di recessione economica che ormai si susseguono si trasformerebbe così in un vero e proprio ribaltamento di paradigma per gli investimenti pubblici, in grado di riorientare priorità verso nuovi aspetti e settori. Le nuove frontiere dell’economia e della democrazia sarebbero schematicamente articolate su quattro fronti: esportazione e circolazione di beni e servizi per rispondere alla domanda mondiale; tecnologie e energie a basse emissioni per la sfida climatica; innovazione di ricerca e organizzativa a individuare nuovi ambiti di sviluppo; forte spinta alla partecipazione, inclusione, eguaglianza. Una riflessione che, costruita attorno alle contingenze e problemi specifici delle regioni metropolitane nordamericane, si applica però nei principi di base a qualunque altro contesto.
È evidente, con tutti gli aggiustamenti e modernizzazioni del caso, come questo tipo di prospettiva non possa non rinviare a qualcosa di assai diverso dai quartierini della creative class, che si incarnino nei recuperi ad attività scientifico-tecnologiche di qualche zona degradata di Mumbai, o nella più banale e di breve respiro zona degli stilisti nelle capitali finanziarie europee o americane.
Un appannamento dell’immaginario di questo genere di città plastificate pare emergere anche dagli angoli più impensati. Molti si ricordano quel singolare spot pubblicitario del rilancio Chrysler a proprietà Fiat, col rapper Eminem che decantava automobili «importate da Detroit», fra bassorilievi di nerboruti operai e solide architetture industriali. Qualcosa di simile c’è nell’uso della produzione industriale nell’immagine di moda e pubblicitaria in generale: un solida garanzia materiale così come lo è la terra da coltivare o le risorse naturali.
Da decenni in occidente la discussione sul ruolo delle fabbriche si aggira attorno ai temi della delocalizzazione, della dismissione, un dibattito archeologico che proietta su inconsistenti territori lontani quello che invece è e potrebbe essere ancora di più un ingrediente base per il nostro futuro. L’industria può creare e crea nuovi posti di lavoro quindi reddito, quindi funzioni vitali nelle città e non. Altro che archeologia, altro che pensare alla fabbrica solo come rudere da demolire fisicamente e socialmente, per cavarci ninnoli di immagine e lauti profitti nella ricostruzione e gentrification. Certo il futuro della fabbrica non può ripetere i forzosi errori del passato, dall’inquinamento, alla segregazione spaziale, alla stratificazione dei ruoli ecc. Ma il passato ci offre, come nel caso di alcune tecnologie che riemergono dalla storia, anche utili riferimenti, a partire dalla fabbrica verticale, o dalla maggiore integrazione fra produzione di merci e energia da fonti rinnovabili destinata anche al territorio.
Un ritorno in grande stile della fabbrica in città, lo si potrebbe anche intitolare. Necessario anche alla resilienza nell’epoca dell’urbanizzazione globale con cifre da capogiro: 600 grandi centri che ospitano due miliardi di abitanti e contano per il 60% della ricchezza mondiale secondo calcoli di McKinsey Global Institute. Che mettono in luce almeno due grandi tendenze. Una prima esplicita è quella di una redistribuzione degli equilibri urbani a scala globale, con l’attenuarsi dell’egemonia occidentale e l’affermazione delle nuove polarità asiatiche e sudamericane. Una seconda, forse meno interessante per chi si interessa solo del futuro economico-finanziario, ma certo di più per i cittadini, è che occorre fare un salto di qualità. Ovvero smetterla di pensare a territori d’oltremare esotici in cui scaricare le nostre frustrazioni e diseconomie, ma attrezzarci per accogliere ed essere accolti in una comunità allargata. Ma queste sono osservazioni del sottoscritto.