L’aria della città da sempre rende liberi, e questa libertà assume anche le forme del cosiddetto diritto di cittadinanza, variamente interpretato da diversi soggetti. La questione si fa intricata quando la diversità si articola oltre i limiti della comprensione media. Perché all’inizio di quella ricerca di libertà non sono molto vari, i protagonisti, i borghigiani antenati dei futuri borghesi: commercianti e artigiani in fuga dall’oppressione militar-religiosa assoluta delle campagne, dove il castello o monastero o entrambe le cose incombe sull’immenso contado a controllare tutto. Mentre dentro le mura cittadine che grazie ad astuta contrattazione riescono ad ottenere parziali franchigie (e chiamarsi Villafranca, Francavilla o simili, magari) quantomeno quell’occhiuto controllo e plumbeo peso si fa meno grave, si respira un po’ meglio tutti. Ma appunto essendo così simili nell’atteggiamento e nelle attività, il fatto di respirare appare evidente nei modi e nelle sfumature, facile distinguere tra il lecito, il sopportabile, e ciò che invece è da scoraggiare o reprimere, o addirittura espellere là dove non ci sono che tenebre e sottomissione. Tutto rimane più o meno così, fin quando quell’aria inizia a riempirsi di fumi, e le cose a rimescolarsi nel profondo, con un via vai impensabile nell’era delle porte chiuse di notte verso la campagna minacciosa.
Improvvisamente i secoli scorsi
L’idea di ammucchiare quattrini come destino della vita, sostanzialmente crescita nella cultura dei borghigiani, a un certo punto esce stabilmente dalle mura, da quelle della bottega e da quelle più alte della città, e dilaga nelle campagne sotto forma di investimenti di miglioria, per far rendere meglio le terre. E improvvisamente anche l’aria rurale in qualche modo rende tutti liberi, in particolare liberi dall’incombenza del lavoro perché non c’è più terra da lavorare: il capitalista l’ha recintata dentro la sua enclosure, e lì non si può entrare. Si mormora però all’osteria del villaggio, che magari in città si può trovar qualcosa da fare, e l’ex contadino disperato e affamato si incammina verso quelle fioche luci lontane. Sappiamo come è andata a finire: tante braccia di colpo disponibili, qualcuno che sviluppa intuizioni tecnico-scientifiche e poi organizzative che aleggiavano nell’aria libera senza riuscire a quagliare, ed ecco nata la rivoluzione industriale, il proletariato urbano (specie assai diversa dai borghigiani ed anzi dialetticamente contrapposta), che a sua volta nel corso delle generazioni si articolava dentro a tante sottospecie e interessi diversi, sempre respirando a pieni polmoni quell’aria a dire il vero inquinatissima, ma che non cessava di far sentire liberi. Nascevano nuovi soggetti e soggettività, le donne, i bambini, il segmento di consumatori e diritti detto teen-ager, la divaricazione filosofica tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. E tutto, da un certo punto in poi, iniziava a proiettarsi anche sulle campagne, contemporaneamente sia occupate in parte dalla dispersione urbana, sia organizzativamente ribaltate dalla rivoluzione industriale agricola, detta «rivoluzione verde». Alla antica enclosure, se ne stava sostituendo una a ben vedere assai più inquietante detta encroachment.
Altro che cementificazione!
Siamo all’oggi, o quasi, al momento in cui la cosiddetta urbanizzazione planetaria è un fatto consolidato anche dove nessuno mai si sognerebbe, dove i nostri occhi magari vedono natura, o quantomeno un ragionevole compromesso «sostenibile» fra natura e città, come nelle catene montuose prossime alle megalopoli di pianura. E invece è encroachment, sovrapposizione urbana, assai più subdola del processo da cui ha preso in prestito il nome e che ci appare ovvio quando un’auto si piazza sul marciapiede, o il vicino allarga il suo capanno degli attrezzi oltre il dovuto, occupando due metri quadrati del nostro prato. Una sovrapposizione che non ha nemmeno bisogno di diventare direttamente fisica, a volte basta si limiti a certi stili di vita e movimento, i quali fanno sì che il territorio venga semplicemente affettato dalle nostre reti di comunicazione e trasporto, roba apparentemente invisibile, ma che non lo è affatto per la nuova fauna oggi «liberata» come i contadini di un tempo, e in marcia silenziosa verso le lontane luci della metropoli. Altro non sono, questi soggetti apparentemente improbabili, che gli animali, tutte quelle specie di cui gli studiosi si stanno iniziando ad occupare assai seriamente aggiungendo l’aggettivo «urbano» accanto alla denominazione originale. Perché manifestano comportamenti, attitudini, evoluzioni addirittura fisiologiche, o profondamente sociali, tali da distinguerli nettamente dai parenti, sempre più lontani, rimasti «fuori dalle mura». Insetti, uccelli, piccoli mammiferi preda e poi tutta la catena alimentare dei predatori, in un miscuglio e rimescolamento incredibile di ruoli, che ben conosciamo attraverso certe immagini simbolo, sino al punto in cui ci sono specie (i gabbiani, i castorini nutria, gli scoiattoli ecc.) che l’immaginario non accosta più affatto a sistemi naturali, ma alla figura del vicino di casa, che poi sia gradito o meno è altro paio di maniche. Né potevano mancare, in questa scombicchierata catena, gli ex re della foresta e della savana, i leoni in persona: dobbiamo imparare a conviverci? Sicuramente col mangiatore di tutto quanto gli si muove davanti no, ma se trovassimo equilibri diversi, se come avvenuto col proletariato urbano industriale anche le nuovi classi quadrupedi o alate si trovassero un ruolo dialettico, perché no? Del resto, le soluzioni totali, dello sterminio improbabile e sconsigliabile, poco si addicono all’idea di libertà che l’aria urbana continua a emanare, imperterrita.
Riferimenti:
Kevin Sieff, The lions of Nairobi National Park are escaping to the suburbs, The Washington Post, 3 settembre 2016