Chiuso l’evento mondiale che ha focalizzato su Milano tanti interessi variamente legati al tema dell’alimentazione, significativamente si riorganizzano le politiche della principale associazione ambientalista locale. E perché mai «significativamente», verrebbe da chiedersi? Che ci azzeccano le strategie per nutrire il pianeta, e le loro patenti vistose contraddizioni emerse a Expo 2015, tra rivendicazioni contadine e baraccone pubblicitario multinazionale, con un paio di comitati il cui interesse difficilmente andrà oltre i confini amministrativi regionali? C’entrano parecchio, e proprio a partire dalle vistose contraddizioni di cui sopra. Non è un caso se fra i punti programmatici dell’azione locale associativa spiccano tre, coordinatissimi punti: consumo di suolo, pratiche agricole, infrastrutture di trasporto, e immediatamente dopo una questioncina apparentemente specifica, ma che specifica non è affatto: il riuso delle aree usate per gli spazi espositivi. Ovvero in sostanza tutto ciò che da un lato ha costituito il motivo fondante dell’evento, da un altro quanto è stato oggetto di conflitti e distorsioni, da un altro ancora il suo aggancio con l’altro tema del millennio e dello sviluppo, ovvero il processo di urbanizzazione planetario. E questo aggettivo, «planetario», non ci deve far dimenticare che il processo avanza a rate, grandi come piccoli tasselli, diciamo quelli di competenza delle associazioni locali.
La città che mangia sé stessa
Con buona pace di quei folkloristici appassionati di trattorie e abbuffate tipiche, convinti che la «cultura del chilometro zero» consista nelle celebrazioni dei loro agriturismo biologici preferiti, qui davvero la questione è un’altra, anche se in fondo comprende anche le loro amate tavole apparecchiate. Perché al crescere della popolazione, e al scientificamente provato inarrestabile sviluppo delle migrazioni che trascinano questa popolazione verso le città, corrisponde un allargamento, di queste città. Che i folkloristici oppositori appassionati di trattorie e paesaggi chiamano a volte «cementificazione», scordandosi del piccolo particolare che anche casa loro, l’amato nido della sacra famiglia da nutrire di piatti tipici locali, è una forma di cementificazione (a meno che non abitino e lavorino, cosa improbabile, appesi a un ramo). Visto nelle sue forme generali, il fenomeno si riassume più o meno nell’allargarsi dell’urbanizzato da edifici e infrastrutture, e nell’allontanarsi del non urbanizzato che produce quegli alimenti a chilometro zero, trasformandoli in alimenti di importazione da lontano man mano le colture migrano altrove. Se esiste una risposta a questo assillante ed evidente problema, possiamo tranquillamente dire che proprio su quel punto si è assistito alla schizofrenia di Expo 2015 Nutrire il Pianeta, ovvero al mascherato ma non troppo scontro di opzioni.
Il vero Orto Urbano Planetario Post-Expo
Chi opera a scala globale ha un proprio modus operandi, e non intende certo rinunciarci per compiacere i localisti della trattoria agriturismo biologica. E questo a Milano lo si è visto molto chiaramente sin dal principio, quando l’approccio diciamo così «contadino» è stato soppiantato addirittura nell’impianto espositivo, nel substrato infrastrutturale e nelle sovrastrutture architettoniche e mediatiche, dalla logica delle multinazionali della pappatoria: reti mondiali di distribuzione, agro-industria, ricerca tecnologica per intensificare le produzioni, questa è la risposta al problema alimentare del futuro, secondo i grandi interessi dell’agro-industria e della finanza che ci investe. Naturalmente nella parte più istituzionale e politica non sono mancati gli intrecci, o se vogliamo gli scontri, fra l’opzione ambientalista e quella industrialista (per riassumere al massimo), ma ad esempio sul versante dell’immagine e del messaggio per adesso la visione delle multinazionali sembra prevalere su quella dei contadini. Se proviamo a leggere questo scontro in termini di tesi-antitesi-sintesi, però, vediamo come un’idea diversa di città-regione (non lontana da quella classica della pianificazione territoriale novecentesca) possa proporsi come contenitore di processi virtuosi. A patto, naturalmente, che anche la pianificazione territoriale in quanto tale sappia rinnovarsi, ad esempio abbandonando certe centralità estetizzanti che confondono il sintomo (il paesaggio) col problema (l’equilibrio ambientale e sociale), o per puri motivi storico-disciplinari continuano a non accettare la produzione agricola in quanto tale, o i flussi di trasporti e comunicazioni, come soggetti a pari merito e dignità (anche scientifico-tecnica e politica) nel determinare le scelte spaziali. In fondo, il programma di quell’associazione locale citato all’inizio, parrebbe mirare a qualcosa del genere, speriamo che se ne accorgano, e che si accorgano anche di quanto il loro problema locale è identico ovunque, anche agli antipodi.
Riferimenti:
R. Carey, J. Sheridan, K. Larsen, To feed growing cities we need to stop urban sprawl eating up our food supply, The Conversation, 26 ottobre 2015