Quasi tutti abbiamo tentato prima o poi di coltivarci qualcosa da mangiare sul davanzale, sul terrazzo, nell’orto sul retro se ne abbiamo uno. Di solito, anche nei casi migliori, anche chi ci sa veramente fare con la zappa, le sementi, la scelta dei tempi, risulta abbastanza ovvio come quel “mangiare” sia molto, molto, molto relativo. Non perché zucchine, fagioli, cicorie, o le uova della gallina per chi ne tiene e le consuma, non siano commestibili, a volte ottime, ma perché dal raccogliere cose da mangiare attorno a casa e sostentarsi ce ne passa un bel po’. Del resto l’avevano capito e poi sperimentato sulla propria pelle i due inventori della dieta delle cento miglia, poi ribattezzata con qualche variante chilometro zero, che uscire dal cosiddetto mercato globalizzato, anche provandoci assai seriamente, è quasi impossibile. Perché siamo immersi da generazioni in una specie di piano regolatore mondiale a zone omogenee, dove (per motivi di solito geografici, economici, storici, ma non solo) ci sono territori dove si fa qualcosa e non altro, esattamente come accade dall’era industriale nelle grandi città: qui si coltivano le patate, lì abitano gli operai delle fabbriche, le quali fabbriche stanno da un’altra parte ancora, e lì c’è il bacino idrico per irrigare i campi di patate, ma attorno ci mettiamo anche le case della borghesia che si gode il panorama …
Questo sì che è un paradigma, e finora ha funzionato!
Non ci si pensa troppo spesso, a questa nostra dipendenza dalle specializzazioni, finché non si prova sul serio a far mente locale, a fare un inventario di quel che stiamo mettendo in tavola, e riflettere sui viaggi che ha fatto quella roba, magari pure avanti e indietro diverse volte, per migliaia di chilometri, altro che zero! Ma poi, anche a constatare che in fondo allo stato attuale delle cose era l’unico modo, non solo perché potessimo mangiare quello specifico prodotto, ma in fondo perché riuscissimo proprio a sopravvivere. Altro che cicoria dello zio in terrazzo: di quella ce n’è al massimo per tre o quattro contorni nella stagione giusta, che si fa nell’altro 99,9% dei casi? Da considerazioni del genere, nasce l’idea dell’enormità degli obiettivi di relativa autosufficienza territoriale regionale (il chilometro zero ovviamente è solo uno slogan facilone per tenere in mente un concetto), di nuova integrazione metropoli/campagna su cui si discute a volte, con parecchi equivoci, quando si parla di contenimento del consumo di suolo per usi urbani. Questo contenimento non ha in sé nulla a che vedere con la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, non ha nulla a che vedere col ritorno ai bei tempi andati in cui Berta filava, non ha neppure nulla da spartire con le utopie vagamente catastrofiche del movimento Transition Town, quello che immagina tracolli energetico-climatici e un ritorno a piccole comunità autosufficienti. Il nuovo patto fra città e campagna deve, invece, guardare in faccia la realtà di una urbanizzazione galoppante, di una popolazione che esplode a livello mondiale, e guardare avanti anziché indietro.
Passin passetto, da qui a lì, prima o poi ci si arriva
La vera cosa interessante di questa apparentemente superficiale moda dell’autoproduzione, è che si tratta di un sintomo di tutt’altro, ovvero della strisciante ma poderosa crescita di coscienza, della necessità di cambiare davvero verso. Non un generico “nuovo paradigma ambientale” ma un assai più immediato e concreto spostamento da un’idea globale di agricoltura e alimentazione, a qualcosa di più locale, legato a bacini alimentari veri e propri, anche se ovviamente siamo ancora molto lontani da certe idee di parziale autosufficienza territoriale. L’ultima notizia, in sé non rilevantissima, è che qualcuno ha scoperto l’acqua calda: se si urbanizza a macchia d’olio, si allontanano sempre di più le campagne, e ti saluto agricoltura regionalizzata e autosufficienza. Notizia che diventa però assai importante se pensiamo che questa sensazione ce l’hanno i governanti cinesi, quelli che ancor oggi sono impegnatissimi in pratiche del tutto opposte come quelle del land grabbing in Asia e Africa. Chissà che iniziare a tirare il freno nell’automatico vortice urbanizzazione+crescita economica+sviluppo demografico, non finisca per far sì che il gigante asiatico riesca a sviluppare e poi lanciare a livello mondiale anche nuove tecniche e metodi di coltivazione urbana, dalle vertical farm in giù. Se ne sente un gran bisogno, di andare oltre la pura buona volontà del nostro vasetto di rosmarino sul davanzale, commoventemente ridicolo.
Riferimenti:
Jonathan Kaiman, China’s urban sprawl raises key question: can it feed its people? The Guardian, 16 febbraio 2015