Quando consideriamo le innovazioni introdotte dai grandi operatori territoriali, è quasi spontaneo soffermarsi sull’oggetto in sé. Specie nel caso dei cosiddetti superluoghi, recente riabilitazione mediatica e ripensamento si spera critico dei non-luoghi stigmatizzati dal Marc Augé. Ma proprio in quanto innovativi e particolarmente ingombranti, questi nuovi oggetti forse meritano di essere considerati anche in una prospettiva un po’ diversa, in quanto prodotti dell’immenso laboratorio suburbano che domina l’insediamento da qualche generazione. La domanda a cui vorrei ameno tentare di costruire uno sfondo nei paragrafi che seguono suona: è in grado, la città contemporanea, di accettare come parte integrante, a volte dominante, questi nuovi organismi? Possono convivere, e come, i grandi contenitori integrati di funzioni composite, determinate dalle contingenze del mercato, e le reti di stratificazione storica e sociale di cui si compone la città contemporanea, specie quella italiana?
Un po’ di storia
È passato più o meno un secolo da quando Henry Ford e gli altri fabbricanti di automobili profetizzavano la fine della città occidentale. Una fine sin troppo facilmente riducibile (per loro, naturalmente) a profezia da autoavverarsi senza nemmeno mettere il naso fuori dalla bottega, ma che (per tutti gli altri) ha creato problemi non di poco conto1. Prendiamo i sostenitori della città giardino. Problemi organizzativi e finanziari a parte, il vero ribaltamento delle intenzioni di partenza avviene proprio quando le automobili iniziano a invadere fisicamente e concettualmente quel territorio ordinato ed equilibrato fra città e campagna, residenza, industria, agricoltura, ambiente. Anche il primo grande portato positivo di questa cultura, la neighborhood unit, cresciuto a New York negli stessi anni in cui si elabora il concetto di freeway (e freeway business center)2 finisce per essere sì un’oasi familiare e pedonale ben servita e almeno a misura di ceto medio emergente, ma già saldamente ancorato e isolato nella grande maglia autostradale.
Le grandi arterie per l’automobile e gli spazi correlati finiscono poi per demolire in gran parte anche l’altro filone dell’idea di città novecentesca, ovvero quello modernista delle grandi densità che interpreta a modo suo l’esigenza di rinnovamento urbano sino a quelle forme di riqualificazione che, spesso confusamente avversate dalla cultura conservazionista, più sistematicamente criticate nei risultati pratici ad esempio da Jane Jacobs, finiranno per rafforzare quell’onda lunga di fuga dalla grande città, e in generale di cultura antiurbana, che alimenta l’ideologia del suburbio. Suburbio dentro al quale alcune funzioni urbane iniziano a insediarsi, a mescolarsi, a ricomporsi3. Così come dell’idea originaria di città giardino, evaporato qualunque anelito di sociale “path to a real reform”, nelle sinuose vie dei platani suburbane rimangono solo gli stili simil-tradizionali dei villini, anche la grande piazza urbana, ridotta negli ambienti originali a poco più di uno svincolo di traffico, comincia la sua mutazione.
All’inizio, negli schemi diagrammatici di Ebenezer Howard, la piazza è il grande spazio verde centrale dopo gli anelli concentrici della fascia di verde agricolo e dei gruppi di unità di vicinato. Il riformatore sociale ci racconta qualcosa di più in un interessante brano recuperato da Peter Hall e Colin Ward nel loro libro per il centenario dell’idea di città giardino: un palazzo di cristallo, poco più di una enorme serra, nel mezzo del parco, rappresenta al tempo stesso punto di riferimento visivo e luogo di incontro, protetto dal maltempo, dove si possono scambiare due chiacchiere, bere qualcosa, e intanto che si aspetta il bel tempo per uscire all’aperto magari approfittare dei chioschi per comprarsi qualcosa. Evidente, il modello modernizzato della piazza tradizionale, sulla quale stavolta non incombono i palazzi del potere, religioso o politico4.
Ma il palazzo di cristallo, nel mondo reale, fuori dal tempo idilliaco e sospeso garantito dalle tre famose calamite della Città Giardino, finirà per doversi mescolare e contaminare con inopinati vicini. Vicini di varia origine e nobiltà, che vanno dal grande mercato coperto ottocentesco in tutte le sue varianti ed evoluzioni, fino al department store urbano trapiantato nel suburbio e attrezzato coi primi grandi piazzali dei parcheggi dedicati. È così che gradualmente si costruisce l’idea dello shopping mall moderno, a partire da una pura razionalizzazione tecnica del gruppo di negozi o arteria commerciale, attraverso vari passaggi e sperimentazioni in forme aperte, semplificate, più complesse, fino alla perfezione (almeno dal punto di vista degli operatori) del paradigma introverted a clima controllato, ovvero del classico cubo a facciate cieche circondato dai parcheggi, che evidenzia la propria eventuale articolazione e accoglienza solo dall’interno. E non è tutto. Concepito dal suo ideatore, Victor Gruen, davvero come la piazza dell’era moderna, viene rapidamente riassorbito dal settore commercial-immobiliare ai soli usi del consumo, nonché sottoposto alle note limitazioni di libertà oggetto di infinite cause legali, che se necessario ne sottolineano ancora di più la natura lontanissima da qualunque idea di ambiente pubblico5.
Mito e realtà
Quasi contemporaneamente al perfezionamento della paradigmatica scatola di Gruen, emerge dal laboratorio suburbano anche un secondo OGM. Come nel caso del centro commerciale, anche il parco divertimenti moderno affonda le sue radici in parecchi modelli, da quelli più ovvi delle tradizionali giostre e attrazioni paesane, a certe macchine complesse usate storicamente per il sollazzo dei ceti dominanti, al contributo determinante del teatro nella sua accezione di città virtuale. Con Disneyland nell’epoca di boom della suburbanizzazione balza in primo piano proprio questo aspetto: lasciate le città a sé stesse, riprodotto nell’insediamento disperso il solo modello della casetta individuale con giardino, segregato nello shopping mall il simulacro della piazza pubblica, il parco a tema diventa sfogo a pagamento della nostalgia per l’ambiente di villaggio.
Proprio come lo spazio pubblico, luogo della espressione di cittadinanza, scivola con lo shopping mall suburbano dalla categoria dei diritti a quella delle merci proposte sul libero mercato, nel parco a tema l’atmosfera del quartiere/villaggio, azzerata nell’individualismo delle villette segregate dalla mobilità esclusivamente automobilistica, si riproduce con ingresso a pagamento. In questo senso, anche le più mirabolanti attrazioni appaiono come aggiunte non sostanziali, sostituibili: parafrasando McLuhan, il messaggio è il contenitore.
Declinazioni locali globalizzate
Nel contesto europeo, in quello italiano poco più tardi, questi modelli a ben vedere fanno la loro comparsa quasi contemporaneamente agli originali, e le varianti di sviluppo e impatto paiono più determinate dalle disparità nel reddito diffusamente disponibile, che non da particolari resistenze o declinazioni culturali e politiche locali. Basta qualche esempio alla rinfusa. Lo shopping mall americano, di cui si decantano (ovviamente, acriticamente) i vantaggi tecnologici, organizzativi, le possibilità di scelta del consumatore, suscita il primo vero interesse critico nei contesti nazionali a più avanzata suburbanizzazione e diffusione media di ricchezza, Svezia e Gran Bretagna, e pur nelle ovvie differenze locali tutto pare ruotare intorno ai due grandi temi: automobile privata, effettiva comodità per le famiglie. Svarioni compresi6.
Più specificamente in Italia, val la pena di accostare ad esempio la celeberrima citazione di William Levitt, “chi possiede una casa con giardino non può diventare un comunista”, alle quasi contemporanee e quasi identiche perorazioni del partito di maggioranza a favore del piano INA-Casa, che introduce tra l’altro per la prima volta in senso proprio da noi l’idea di neighborhood unit. Qualcosa di simile si può dire per il debutto, ancora contemporaneo, della grande distribuzione organizzata, di cui uno dei pionieri ha recentemente raccontato a modo suo il percorso, il progetto suo progetto sottilmente anti-urbano, non tanto nella collocazione fisica quanto nella radicale alternativa alle reti sociali e distributive dell’epoca7.
Unico discrimine, ancora una volta, il reddito disponibile, e la consequenziale scarsa diffusione dell’auto privata. Gli elementi base però ci sono già tutti, anche se la cosa sfugge agli osservatori contemporanei, compreso Lodovico Quaroni quando cerca di definire regole per i nuovi villaggi esaminando Lo “Shopping-Center” e la lotta per l’egemonia nel quartiere.8
Il modello del centro commerciale organizzato moderno, e del parco tematico, in un modo o nell’altro si insediano quindi nei territori come una sorta di bomba a tempo, pronta a deflagrare (nell’articolazione, nella diffusione, e/o nelle sole dimensioni quantitative) nel momento in cui il contesto raggiunge una determinata massa critica. Che si compone abbastanza automaticamente di reddito disponibile diffuso, di propensione a certi consumi, di contesti insediativi e di culture.
Forse solo un fattore culturale, ad esempio, ha fatto sì che anche i mezzi di informazione di massa iniziassero ad accorgersi della mutazione genetica del rapporto fra spazi e società molto in ritardo, dopo che quasi un’intera generazione era cresciuta integrata nel cosiddetto tecnoburbio9, dove identità e appartenenza locale si affiancano a percezioni e simboli diversi: dalle serate nelle varie discoteche della megalopoli padana, al passeggio nei villaggi outlet della moda, alle piazze virtuali del web.
Nel nostro paese il processo cosiddetto di globalizzazione, poi, fa sì che si acceleri – almeno rispetto alle altre forme dell’insediamento – sia il percorso evolutivo degli organismi mixed-use in quanto tali, sia il loro migrare, storicamente dalla città al suburbio, oggi in forme assai più articolate. Avviene così che da un lato prosegua la crescita più o meno dispersa del’insediamento suburbano, con tutto ciò che ne segue in termini di produzione di altri luoghi o non luoghi che dir si voglia (dal centro commerciale totalmente extraurbano al nucleo storico di fatto desertificato da ogni presenza residenziale), dall’altro a una sorta di ritorno a casa del figliol prodigo, che però risulta ormai irriconoscibile. E ahimè piuttosto ingombrante. Un OGM.
Oggi
Sostanzialmente dalla convergenza di vari percorsi, che ho qui tentato di schematizzare brevemente, nasce quanto oggi la pubblicistica chiama superluogo. Anche al di là del successo giornalistico della definizione (il che significa che qualcosa comunque ci azzecca) va riconosciuto che il prefisso super qui non è affatto fuori luogo. Fuori scala paiono infatti sia le dimensioni delle aspettative di investimento, sia l’intreccio di interessi, sia anche le potenzialità innovative di questi nuovi o rinnovati nodi territoriali. Ma una questione resta aperta: cosa sono, esattamente?
L’iniziativa sponsorizzata qualche tempo fa dalla Provincia di Bologna e da un ampio ventaglio di operatori privati sul tema, in effetti fornisce una risposta abbastanza parziale, non molto dissimile da quelle che di solito caratterizzano la discesa in campo dei vari formati proposti sul mercato immobiliare: superluogo è tutto quanto (naturalmente, a determinate condizioni) definiscono tale i promotori10. E le condizioni indispensabili sembrano ripercorrere a grandi linee quelle dei cosiddetti transit oriented development nordamericani, almeno nella versione più metropolitana e caratterizzata sul versante terziario-commerciale. Anche se non sempre, va detto, la componente accessibilità risulta davvero determinante.
Certamente più attenta e sistematica l’indagine sul medesimo tema (o slogan) condotta da Mario Paris, che ne propone una definizione generale al tempo stesso verifica di coerenza: si tratta di prodotti immobiliari, che ospitano numerose funzioni, in grado di garantire attività su tutto l’arco della giornata, che intreccia rapporti proficui sia con il territorio locale che con l’ambito sovra locale a varie dimensioni grazie al fatto di essere nodo di accessibilità e scambi11.
A ben vedere, senza esagerare di molto, esiste già qualcosa del genere, ed è la città, o parte qualificata/qualificante di città. Ciò che sembra cambiare, col superluogo, è semplicemente il suo nascere come proposta integrata e innovativa. Ma lo è davvero? La risposta è si, e arriva da un preciso passaggio della definizione di Paris, quello che li qualifica come “prodotti immobiliari” pronti da servire in tavola, e quindi in teoria in grado di ricostruire in qualche modo, pur in assenza di componenti apparentemente essenziali (prima fra tutte la sedimentazione storica) complessità urbana e si auspica anche capacità autorigenerativa. Ma, specie in un contesto relativamente delicato come quello italiano, si pongono da subito ameno due questioni.
La prima riguarda la possibilità e capacità degli enti preposti al governo del territorio, ehm … di governarlo in qualche modo, questo territorio, ovvero di svolgere nei confronti dell’operatore (che in questo caso è un soggetto in grado di mettere in campo notevole potere di negoziazione) una autentica e produttiva mediazione fra interessi particolari, aspirazioni sociali diffuse, e aspetti più complessi e delicati come sostenibilità ecc. La questione della sostenibilità introduce il secondo aspetto, che sostanzialmente si ricollega a tutto quanto esposto nei paragrafi precedenti, ovvero della genesi sostanzialmente extraurbana dell’OGM mixed-use: è in grado di adattarsi effettivamente alla complessità di un tessuto urbano, di svolgere quei ruoli di riqualificazione che si impongono oggi come fronte principale delle trasformazioni territoriali, oppure alimenta in un modo o nell’altro solo altro sprawl, consumo di suolo, nuova domanda di infrastrutture, degrado e/o segregazione funzionale della città consolidata?
Una possibile risposta indiretta, e sostanzialmente positiva, a questi quesiti, si può trarre da una vicenda emblematica ancora in corso, singolarmente caratterizzata da: un percorso storico-insediativo-funzionale sostanzialmente inverso rispetto a quello seguito di norma dai grandi complessi mixed-use; una forte e articolata struttura decisionale pubblico-privata, ad elevato coefficiente di positiva conflittualità interna e capacità decisionale e strategica; una localizzazione centrale metropolitana, molto vincolata e al contempo assai complessa e aperta nelle opzioni.
Un percorso inverso
C’è una vecchia canzone di Neil Young che racconta la storia di un grande parco giochi chiamato Sugar Mountain, dove si vorrebbe stare per sempre a fare i bambini, su e giù dalle giostre, con lo zucchero filato in una mano e l’altra a stringere quella rassicurante dei genitori. È un sogno, naturalmente, che come ogni sogno rischia di scivolare nell’incubo se non si impara a maneggiarlo con cura. Come nel caso recente dei programmi di rivitalizzazione urbana che interessano proprio un immenso luna park, anzi “il” luna park per antonomasia: l’area di Coney Island affacciata sull’oceano nella fascia meridionale di Brooklyn. Cresciuta curiosamente (ma troppe coincidenze, ci insegnano i giallisti, sono un indizio) sul finire del XIX secolo in parallelo alla primordiale suburbanizzazione della fascia metropolitana di New York, a partire dall’investimento di Alexander Stewart per la Garden City a Long Island12.
Oggi a delineare il potenziale incubo rappresentato dal degrado urbanistico e sociale dell’area, concorrono almeno due fattori. Da un lato il moltiplicarsi dell’offerta di spazi e attrazioni per il tempo libero, che iniziata a metà del Novecento con l’enorme diffusione dei parchi tematici in tutto il paese e il resto del mondo, ha intaccato il primato dei pur straordinari storici impianti sull’Isola dei Conigli (Coney Island deriva dall’olandese originario Konijnen Eiland che significa appunto isola dei conigli), e ultimo ma non in ordine di importanza con le evoluzioni tecnologiche e l’intrattenimento interattivo virtuale via internet che sottrae centralità ai luoghi. D’altro canto, tornando più direttamente alle questioni della città e del territorio, attorno agli impianti delle grandi giostre e attrazioni di Coney Island sull’arco di tutto il secolo si è sviluppato un insediamento metropolitano che da un lato ne alimenta in parte le attività economiche, dall’altro da tempo esercita pressioni crescenti (di varia natura e direzione) perché quei relativamente pochi ettari di enclave destinati al divertimento si integrino di più nel resto del tessuto, fisico, sociale, nei tempi della metropoli.
Nascono da queste premesse sia la Vision per il rilancio complessivo dell’area, che il conseguente processo di variante urbanistica promosso dall’amministrazione Bloomberg.
Il programma strategico di massima così come delineato nella Vision della Coney Island Development Corporation pubblico-privata, pur nella necessaria genericità delle indicazioni specifiche, sottolinea proprio questa necessità di adeguarsi al metabolismo metropolitano, di uscire da un non più sostenibile ruolo di enclave privilegiata ma separata da tutto il resto. Un adeguamento fatto di tempi e di spazi, a ben vedere – salvo le dimensioni del compito – non diversissimo dal riuso di spazi produttivi o commerciali così come spesso avviene con altre sacche urbane vuote o parzialmente svuotate dai processi evolutivi e di crisi ciclica. Un adeguamento che si riassume, così come vuole la logica di una Vision, secondo due mosaici paralleli di progetti: quelli per introdurre una mescolanza più varia di attività economiche, a coprire posti di lavoro e tempi morti (della giornata, delle stagioni); quelli per riorganizzare la rete degli spazi secondo una maggiore permeabilità, da un ambito all’altro13.
Alla variante urbanistica il compito di sostanziare e coordinare questi obiettivi, attraverso gli strumenti propri del rezoning, ovvero della graduale trasformazione dei quartiere dei divertimenti e delle due fasce urbane “normali” confinanti, in un sistema più integrato. Sistema in cui le zone residenziali e le arterie di scorrimento est-ovest assumono un ruolo intermedio, di transizione fra gli spazi tradizionali a carattere quasi suburbano della fascia metropolitana affacciata sull’oceano, e la downtown del divertimento con la sua superconcentrazione di attività e impianti. Gli strumenti sono quelli abbastanza sperimentati di un maggiore mix funzionale (overlay zoning, ovvero ambienti stradali di tipo più europeo con commercio e servizi ai pianterreni e sovrapposta residenza e/o studi), incrementi di densità con la saturazione dei lotti vuoti o sottoutilizzati, e la possibilità di nuova edificazione di aree morte come superfici interne o grandi parcheggi.
Una riorganizzazione parallela riguarda però anche l’ex enclave dei divertimenti, che pure dovrà subire qualche tipo di infill, sia materiale che qualitativo, diversificando l’offerta (ad esempio con attività ricettive, nuovi impianti più piccoli ecc.), aumentando la permeabilità e articolazione dei tessuti interni, favorendo complessivamente usi che possano svilupparsi su tutto l’arco dell’anno e della giornata, anche rivolti al settore urbano/metropolitano, e non solo al mercato nazionale e internazionale del turismo da intrattenimento occasionale14.
A titolo di conclusione
Il percorso, quindi, come anticipato, è di progressivo riassorbimento pilotato del superluogo (chiamiamolo così per comodità) nel tessuto urbano e socioeconomico locale15. Probabilmente anche di questo riassorbimento fa parte il sistema di conflitti e di processo partecipativo più istituzionale codificato nella U.L.U.R.P. (Unified Land Use Review Procedure), che fa emergere le contraddizioni fra i lodevolissimi obiettivi generali, della Vision pubblico-privata e del rezoning pubblico, e quanto si prospetta praticamente: una vera e propria invasione edilizia del quartiere dei divertimenti da parte di puri volumi che semplicemente sfruttano a fini propri e particolari lo sfondo e l’indubbio fascino degli impianti sulla costa. Da qui, essenzialmente, le proteste di abitanti e operatori per quello che sembra, in sostanza, un tentativo di cancellare la vitalità dell’area, in qualche modo monumentalizzando le attrazioni storiche16. Ma è un aspetto, questo, del tutto normale per qualunque parte di città che voglia definirsi così. Anche se derivata da un Organismo Genericamente Metropolitano.
(questo saggio è stato pubblicato nel volume collettaneo Iconemi, Bergamo University Press, 2010)
NOTE
1 La citazione letterale “antiurbana» di Henry Ford, profezia che si autoavvera spesso ripresa da storici e studiosi di scienze del territorio, è: «The modern city has been prodigal, it is today bankrupt, and tomorrow it will cease to be» (My life and work, 1922)
2 Il quartiere integrato moderno come entità autonoma, anche se derivato dal modello tradizionale filtrato attraverso gli schemi spaziali della città giardino, deriva sostanzialmente dalla sovrapposizione del modello di sviluppo stradale automobilistico, di fatto imposto, che a partire da New York si estenderà poi alla cultura del progetto a livello internazionale. Si vedano a questo proposito: Clarence Perry, The Neighborhood Unit, Regional Survey of New York and its Environs, Volume VII, Neighborhood and Community Planning, New York 1929; Edward M. Basset, “The Freeway. A New Kind of Thoroughfare”, The American City, febbraio 1930; Robert A. Caro, The Power Broker. Robert Moses and the Fall of New York, Random House, New York 1974; Anthony Flint, Wrestling with Moses, Random House, New York 2009
3 Si vedano a questo proposito sia Anthony Flint, op. cit. sia la raccolta curata da William Whyte, The Exploding Metropolis, Doubleday, New York 1958, in cui il saggio fondativo di Jane Jacobs, che aprirà la strada al suo più noto la vita e la morte delle grandi città, viene accostato a studi comparati sul degrado e la fuga dei ceti medi verso la città suburbana dispersa.
4 La citazione di Howard è troppo lunga per poterla riprodurre qui oltre la breve sintesi riassunta, si veda Peter Hall, Colin Ward, Sociable Cities: the legacy of Ebenezer Howard, Wiley & Sons, CHichester 1998; il brano è riportato a p. 21
5 La genesi dello shopping mall moderno, secondo il suo ideatore più noto davvero “piazza suburbana” da affiancare a un riformato modello di spazio pubblico centrale urbano, è ben ricostruita da M. Jeffrey Hardwick, Mall Maker. Victor Gruen, Architect of the American Dream, University of Pennsylvania Press, Filadelfia 2004; dello stesso Gruen, sul rapporto fra spazi suburbani e applicazione di alcuni metodi lì sperimentati allo sviluppo urbano, si veda “Dynamic Planning for Retail Areas” – link alla versione in italiano – , Harvard Business Review, novembre-dicembre 1954
6 Cfr. Camera di Commercio di Stoccolma, Swedish Shopping Centers, Stoccolma 1961; Josephine P. Reynolds, “Suburban Shopping in America. Town Planning Review, aprile 1958
7 Cfr. Bernardo Caprotti, Falce e Carrello. Le mani sulla spesa degli italiani, Marsilio, Venezia 2007; Emanuela Scarpellini, La spesa è uguale per tutti. L’avventura dei supermercati in Italia, Marsilio, Venezia 2007
8 Cfr. Ludovico Quaroni, ““Città e quartiere nell’attuale fase critica di cultura”, La Casa, numero unico, 1956
9 La definizione di tecnoburbio, molto efficace e attuale nella descrizione degli stili di vita quotidiano indotti (ad esempio nel pendolarismo metropolitano circolare di mamme e nonni per parcheggiare e raccogliere figli e nipoti tra le varie attività scolastiche e post-scolastiche), è di Robert Fishman, Bourgeois Utopias, The Rise and Fall of Suburbia, Basic Books, New York 1987
10 Il limite fondamentale, anche se non unico, di questa molto pubblicizzata iniziativa, sta nell’immagine pubblica garantita a un approccio sostanzialmente privato e particolare, nonché alla sostanziale modestia degli strumenti divulgativi di approfondimento, specie se comparati alla notevole visibilità mediatica su televisioni, quotidiani ecc. Addirittura, caso più unico che raro, lo stesso sito web attivato contemporaneamente alla mostra e ai convegni, che raccoglieva molti materiali pluridisciplinari che non avevano trovato posto nel piccolo e modesto catalogo, è stato oscurato (anziché ad esempio sviluppato e arricchito) alla fine dell’iniziativa. Cfr. Matteo Agnoletto, Alessandro Delpiano, Marco Guerzoni (a cura di), La Civiltà dei Superluoghi, Damiani, Bologna 2007.
11 Cfr. Mario Paris, Urbanistica dei Superluoghi. Esternalità territoriali, economiche, sociali dei luoghi del consumo della società postmoderna, Maggioli, Rimini 2009
12 A descrivere l’ambiente naturale-rurale in cui inizia a svilupparsi praticamente privo di vincoli questo superluogo ante litteram (e che vale naturalmente poi per qualunque innovazione insediativa suburbana anche di epoca successiva) si veda ad esempio la breve serie di articoli in cui The New York Times riferisce dell’evoluzione del progetto Garden City: “Hempstead Plains. Another purchase by A.T. Stewart. The lands and the improvements. The New-York and Long Island Bridge project” (7 febbraio 1870); “Our prospective gardens. The awakening of enterprise and consequent improvements on Long Island. The effect of a new railway line, and A.T. Stewart capital” (20 marzo 1870); “Garden City: the inhabited park on the great Queens County plateau” (2 aprile 1882; i testi sono tutti disponibili, insieme ad altri contributi, continuamente aggiornati, sulla storia e la cronaca del suburbio e dell’insediamento commerciale, nella parte antologica del mio La Città Conquistatrice – Un secolo di idee per l’urbanizzazione, Corte del Fontego, Venezia 2012
13 Cfr. Coney Island Development Corporation, Coney Island’s Next Act. A Glorious Past Meets a Limitless Future, opuscolo, s.d. Ulteriori dati e indicazioni sul sito http://www.thecidc.org
14 Cfr. City of New York, Coney Island Comprehensive Rezoning Plan (approvazione 30 luglio 2009), tutti i materiali analitici, di progetto, di valutazione ambientale, scaricabili dal sito del Planning Department (il sito ha cambiato URL nel frattempo, e va cercato)
15 Coincidenza, ma forse non più di tanto, il fatto che la signora Amanda Burden, messa dal sindaco Bloomberg a capo del Plannign Department, sia una allieva di William Whyte, formata al suo Project for Public Spaces, a cui ha ispirato molta parte della recente azione di piano a New York come riconosciuto a livello nazionale dal premio conferito dall’Urban Land Institute, Cfr. Trisha Riggs, “New York City Planning Commissioner Amanda M. Burden Is the 2009 Laureate of the Uli J.C. Nichols Prize for Visionaries In Urban Development”, Yahoo News, 13 ottobre 2009
16 Per alcune polemiche e conflitti sulla riorganizzazione dell’area di Coney Island si vedano: “Scompare il mito di Coney Island il primo Luna park d´America”, la Repubblica, 1 dicembre 2006; Nicola Bertasi, “Un viale del tramonto chiamato Coney Island”, il manifesto, 4 gennaio 2007; Barbara Kiviat, “Will Coney Island Survive its Revival?” Time, 17 giugno 2007; Irene Alison, “Mani sul lungomare”, Alias (supplemento culturale del sabato a il manifesto), 10 novembre 2007; Robert Yaro, “Yes To Reinventing Coney Island”, Spotlight on the Region, 8 febbraio 2008
In questo sito sul medesimo tema vedi anche L’infanzia infinita sulle giostre di quartiere, e relativi links