Sempre più articoli della stampa raccontano una specie di crisi nella storia d’amore fra gli automobilisti e l’autostrada. Colpa della crisi economica, ci dicono, e spontaneamente verrebbe proprio voglia di credergli: quale altro motivo dovrebbe spingerci a disertare i viaggi, se non l’aumento del prezzo dei carburanti, o la maggiore incidenza di quelli dei pedaggi e anche di piccoli consumi collaterali come la colazione alla stazione di servizio? Però in fondo a ben vedere basta scorrere altre pagine di giornali con la dovuta attenzione per scoprire chiari indizi di una riposta diametralmente opposta: la crisi economica non è la causa di quella amorosa tra noi e il nastro d’asfalto, ma solo un suo acceleratore e evidenziatore. Ma va? Verissimo invece, basta pensarci.
Prendiamola alla lontana, come si addice alle lunghe storie. All’inizio c’è la strada tradizionale, quella del viandante per intenderci, e naturalmente degli altri mezzi che la percorrono. Proprio per questi altri mezzi, relativamente rari, si iniziano a predisporre infrastrutture specializzate varie, che escludono o limitano il rapporto diretto della strada sia col viandante che col territorio. L’esempio più evidente moderno è quello della strada ferrata per il treno, che si costruisce tutto un mondo a sé, ma anche il famoso progetto della cosiddetta città su più livelli di Leonardo da Vinci racconta un approccio identico, dove ai veicoli è dedicato un intero universo autoreferenziale. Il punto di svolta ovvio è prima l’avvento dell’auto privata di massa secondo il modello di Ford, e poi l’organizzarsi per tutto il ‘900 del modello di sviluppo socioeconomico-territoriale attorno ad essa. Ancora oggi risulta molto istruttivo rivedere il film Futurama, realizzato dallo scenografo Norman Bel Geddes per conto della General Motors alla fiera mondiale di New York (insieme al padiglione omonimo e al volume Magic Motorways) in cui le autostrade multi corsia si staccano progressivamente dal modellino originario concepito ingegneristicamente a Milano a metà anni ’20.
In principio ci sono una origine, una destinazione, e una infrastruttura dedicata al traffico veloce. Si parte dalla periferia milanese, e si arriva sulle sponde del non lontano Lago Maggiore. Qualche intellettuale lungimirante, indica già i limiti di un approccio esclusivamente ingegneristico. Il territorio deve reagire predisponendo piani di sviluppo in grado di metabolizzare la nuova infrastruttura, ed evitare di subirla. Succederà invece l’esatto contrario quando nel dopoguerra con la legge Interstate Highway negli Usa prima, e nel resto del mondo ricco poi, quel modello originario si espanderà a rete senza modificarsi, e costringendo anzi il resto del territorio a diventare una interfaccia tecnicamente adeguata, una specie di ubiquo svincolo. L’altro salto di qualità è quello della cosiddetta autostrada urbana, anche nella versione italiana dell’asse attrezzato, di cui emergono da subito i danni devastanti per i quartieri, se ne esistono sul suo percorso, come nella famosa vicenda del South Bronx raccontata da Robert Caro e ripresa con (chissà perché) molto più successo mediatico dieci anni dopo da Marshall Berman nel suo l’Esperienza della Modernità (All that is solid melts into air).
L’autostrada urbana non rende la città più efficiente, ma letteralmente cancella la città, sostituendola via via con una specie di imitazione malriuscita di suburbio ad alta densità, alternato a sacche di puro degrado. E ciò perché la viabilità dedicata è tecnicamente ed economicamente incompatibile con tutto il resto, a meno di realizzare l’impossibile quantità di interfacce indispensabili, che si tratti di svincoli, spazi per i pedoni, o semplicemente di viabilità “ordinaria”, la quale viabilità ordinaria finisce invece per assomigliare sempre più all’autostrada. Per motivi tecnici e di sicurezza, ci spiegano: balle. Quello che invece è avvenuto è il prolungamento automatico del già discutibile tracciato extraurbano dentro il tessuto vivo della città, con una specie di sventramento fisico e logico continuo, che non conosce limiti propri perché si nutre di sé stesso, e al quale anche la logica delle sacche di resistenza (es. la pedonalizzazione dei centri storici) non costituisce una vera alternativa, ma solo un complemento, un adeguarsi al modello dominante riproducendo in città sotto forme diverse la logica dello shopping mall: si lascia l’auto nel punto più vicino e si cammina fino al negozio o servizio, per poi andare a riprenderla e tornare al mondo normale.
Pare un po’ cruda, come descrizione, ma basta pensarci un istante per capire che tendenzialmente si tratta proprio del mondo urbano costruito negli ultimi decenni, con l’unica resistenza (soprattutto in Europa e soprattutto in Italia) degli spazi storici troppo preziosi o troppo complessi per essere adattati alla “vita moderna”, come la chiamavano ancora all’alba del ‘900 gli sventratori per amore o per forza. Oggi, complici varie crisi, da quella climatica-abientale, a quella energetica, e buona ultima quella economica e più recente, lo sprecone modello auto centrico sta iniziando a mostrare la corda. Anche in una prospettiva soffice, per nulla apocalittica, emergono da un lato nuove potenzialità tecnologiche ad esempio nella possibilità di spostare informazioni e lavoro senza spostare fisicamente persone e cose, dall’altro risorgono a nuova vita modelli che si credevano annullati appunto dalla rete di mobilità coatta automobilistica. Però sarebbe sbagliato, ridicolo, reazionario, pensare anche solo per un istante di tornare all’inesistente città ideale tradizionale, relativamente stanziale, e con opportunità di relazione e affermazione assai vicine allo zero, se non per pochissimi. Un’altra metropoli è possibile, anzi già esiste nelle pratiche quotidiane di alcuni pionieri, come quanti sperimentano modelli di interazione spaziale dove la strada recupera modernamente il ruolo antico di spazio pubblico elementare, dove senza alcun bisogno di interfaccia ingegneristici i vari flussi possono convivere e intrecciarsi.
È questa in sintesi estrema la tesi da cui partono gli studi più avanzati per la progettazione stradale cittadina: da un’idea a dir poco angusta e settoriale di carreggiata sempre più specialistica per un tipo solo di mobilità a spazio socioeconomico e arteria di vitalità metropolitana, in grado di contenere e raccordare esattamente come avveniva all’epoca del viandante, ma adeguata a farlo nella complessità dei flussi – materiali e immateriali – di oggi. Di particolare interesse questi studi, quando si sviluppano nel contesto americano, più colpito senza particolari resistenze storiche dal ciclone automobilistico novecentesco. Come la Urban Street Design Guide della National Association of City Transportation Officials, dove la qualità generale dell’arteria stradale urbana, ovvero il suo autentico obiettivo funzionale, non è l’efficienza nel portare nel più breve tempo possibile da una origine A verso una destinazione B, e neppure quello connesso della sicurezza a senso unico (quella che si persegue coi guard rail o la segregazione di percorsi, magari su più livelli ancora alla Leonardo), ma la costruzione di uno spazio pubblico, e/o di transizione fra una modalità e l’altra, fra un’attività e l’altra.
Con questi criteri di massima, accade poi ad esempio che pur senza esplicitamente nominare il concetto di piazza tradizionale se ne perseguano i caratteri fondamentali in qualunque incrocio o nodo stradale. Esattamente l’opposto di quanto successo in tante città europee, dove il toponimo con rare eccezioni monumentali protette indica ormai spazi a parcheggio (quando va bene) o totalmente dedicati alla gestione di flussi automobilistici di attraversamento, con pedoni ed esercizi commerciali nel ruolo di spettatori, salvo per le solite enclaves segregate col porfido e le fioriere, a simulare un ambito di fatto cancellato dalle scelte di mobilità. Naturalmente per la città americana una filosofia del genere è ben lontana dall’auspicare un ritorno a improbabili idilliaci quadretti impressionisti: le sezioni stradali ci raccontano ancora di corsie specializzate, viale, controviale, carreggiata per gli autobus, pista ciclabile, marciapiede, aiuola di separazione ecc. Ma l’idea di fondo resta quella di una ragionevole condivisione e convivenza, lontana anni luce dagli interfaccia di modello autostradale che hanno desertificato quartieri per un paio di generazioni almeno, contribuendo alla cultura della scomparsa dello spazio pubblico.
In questo contesto l’idea di intermodalità smette di essere una specie di categoria dello spirito per anime elette, da osservare scientificamente al massimo, ma pratica quotidiana alla portata di tutti. Finisce anche qui l’epoca degli interfaccia costosi e complessi (salvo forse il parcheggio di corrispondenza multilivello, pur ridimensionato), per lasciare spazio a una maggiore permeabilità, dal mezzo privato al mezzo pubblico e viceversa, dalla mobilità motorizzata a quella dolce. Tutti elementi che, insieme, contribuiscono davvero ad alimentare le attività commerciali e di servizio partecipi della strada, e ne garantiscono articolazione, stratificazione, de-segregazione, sana concorrenza basata su quanto ci si sa integrare a quello specifico ambiente, anziché specializzarsi in un solo flusso.
Siamo forse di fronte a un ritorno all’antico? Un recupero vintage del quartiere così come piaceva al nonno? Lascerei al lettore il giudizio, guardandosi direttamente sezioni tipo che forse a un occhio europeo paiono addirittura un po’ contrastare con quegli enunciati obiettivi urbani. Ma una cosa mi pare certa: ce ci avviamo verso un progressivo processo di demotorizzazione, inteso come attenuamento del dominio del veicolo privato sui modi e i tempi della città, il percorso deve essere in linea di massima proprio quello di eliminare la segregazione, e recuperare alla società quella striscia di asfalto che forse senza saperlo, alla periferia di Milano quella lontana mattina di sole del 1924, un gruppetto di ingegneri con alla testa il Re ci aveva tolto. Dopo quasi un secolo è ora di riprendersela.