Nei primi anni ’70 con l’album Thick as a Brick si apriva una fertile stagione musicale e culturale, insieme quella del progressive rock e quella dei concept album. A parte tutti questi aspetti, ben noti sia agli specialisti che al pubblico più attento, val la pena sottolineare come quel titolo, liberamente traducibile come Duro di Comprendonio, null’altro fosse se non la citazione di alcune critiche assai negative all’album precedente dei Jethro Tull, che qui al tempo stesso venivano prese sul serio e rovesciate, scegliendo proprio quel titolo. In pratica dicevano: saremo pure un po’ duri di comprendonio, ma rendersi conto del problema è già un inizio di soluzione, e ci stiamo lavorando, date un po’ un’occhiata qui.
Traduzioni letterali
Però anche la dizione letterale di quel thick as a brick, ottuso come un mattone, ha un uso pratico pressoché identico: peccato si tratti di un uso assai poco sfruttato da chi di dovere. Il mattone è ottuso, squadrato, piuttosto immodificabile e impermeabile, col viziaccio a quanto pare di mantenere le medesime caratteristiche anche quando tecnicamente e artisticamente composto in miliardi di esemplari, a formare quella cosa che conosciamo come città. Ma che non è, la città, si tratta appunto solo di una montagna di ottusi mattoni dentro la città, importanti, ingombranti, caratterizzanti, ma non sono la città. La sovrapposizione indebita tra la parte mattonara e il tutto urbano nasce come fantastica intuizione moderna, estensione del noto slogan secondo cui ad ogni funzione corrisponde uno spazio specifico. Da qui discende che gli spazi sono in grado di interagire più o meno alla pari con la società governandone aspirazioni e relazioni, ovvero scavalcando di parecchio il semplice ruolo di contenitore fisico.
Ottuso come un mattone
Fino alla prova contraria, anzi alle infinite prove contrarie, quelle che a furia di negare una inesistente evidenza dovrebbero convincere anche i più riottosi fedeli della convinzione originaria. I mucchi di mattoni a volte non funzionano, e si interviene sulla loro composizione e organizzazione. Non funzionano di nuovo e si cambia ancora, finché si arriva a quelle soluzioni radicali e spettacolari con la dinamite a far saltare tutto. Titoli cubitali: “La Morte dell’Architettura Moderna”, intendendo, per chi vuole intendere, non tanto che bisogna passare ad altre forme di architettura, ma che parrebbe morto e sepolto il metodo base, di quell’architettura moderna, quello di confondere la città dei mattoni con la città tout court: non esiste alcuno spazio che in sé e per sé riassume funzioni, aspirazioni, soggetti sociali. Ma duri di comprendonio i nostri eroi, sostenuti anche dalla forza economica delle fabbriche di mattoni e affini, non la vogliono capire: dinamite si, ma non certo a far saltare per aria il metodo, quello è pura fede, non si tocca. E arriviamo così tristemente ai nostri giorni, con una specie di cerchio ottuso e demente che si chiude, e il mattoncino per antonomasia, Lego, che si propone come strumento principe per l’urbanistica. Forse bisognerebbe fare una bella reunion dei Jethro Tull, a rifare (per la terza volta) quel disco. Repetita iuvant, si dice.
Riferimenti:
Craille Maguire Gillies, Lego: can this most analogue of toys really be a modern urban planning tool? The Guardian, 18 dicembre 2014