Premessa
È pressoché impossibile parlare di dibattito urbanistico italiano nel periodo tra le due guerre senza un costante riferimento alla questione dei centri storici, alle vicende che con vario svolgimento contrappongono «sventratori» e «cultori dell’arte». Ciò è particolarmente vero per Padova, dove il dibattito teorico si confronta con questioni reali, con quello che ne segue sia in termini di risultati concreti, sia riguardo alla elaborazione di nuove metodologie analitiche e progettuali. Le pagine che seguono intendono esaminare soprattutto il secondo aspetto, privilegiare, cioè, il caso di Padova come riflesso di alcuni sviluppi dell’urbanistica italiana nel periodo in cui la disciplina subisce forti accelerazioni in termini di legittimazione istituzionale, e nello stesso tempo definisce quelle che ancora oggi sono le sue linee portanti. Nella prima parte di questo scritto, Padova peraltro non compare. Non di provocatoria omissione si tratta, ma di pura coerenza di metodo con quanto esposto sopra.
Per altri versi si potrebbe comunque affermare che Padova, per le sue problematiche, occupa nelle stesse pagine un posto di primo piano. Continuità, rotture, conflitti sociali e culturali determinano nel periodo tra le due guerre una continua oscillazione tra due modi di «pensare la città», imponendo ora il peso della Storia come sedimentazione di conoscenze ma gravida di tare, di residui, ora il peso dell’Ideologia, innovativa, piena di promesse e progetti, ma quasi sempre ineffettuale, fuorviante, parziale. Padova come luogo di sperimentazione per teorie e piani finalizzati alla conciliazione tra una forma definita a priori come città antica e un suo uso definito dall’accezione di vita moderna, assume senso e identità specifica anche fuori ed oltre una ipotesi di storia locale. In primo piano saranno quindi gli elementi riferibili od esplicitamente riferiti al dibattito nazionale, che proprio in quegli anni si evolve da cultura elitaria in fenomeno diffuso, con i congressi, la formazione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, la grande stagione dei concorsi.
Padova è pienamente partecipe di questo dibattito, come oggetto urbano su cui dissertare e come soggetto, comunità urbana e tessuto urbanistico in evoluzione, in grado di reagire, di adattarsi, di opporre con varia fortuna il peso della propria storia alla «ideologia degli urbanisti», che specie negli anni Trenta inizia a caratterizzarsi proprio nei termini che suggeriranno a quarant’anni di distanza la fortunata definizione di Marcello Fabbri. Il testo intende suggerire un punto di vista sull’evoluzione dei dibattito per la città, a partire dal piano di sventramento della Anonima Padova Edilizia, alle polemiche e al parallelo affermarsi di una nuova cultura su centri antichi, alle contraddizioni e utopie della nascente cultura urbanistica. Le questioni sono evidentemente molto complesse e la semplice panoramica di alcune coincidenze tra cultura nazionale e progetti per Padova non ha alcuna pretesa di esaustività. Camillo Pluti ripercorrendo negli anni Sessanta le contraddizioni tra la città di Padova e i piani per la stessa città di Padova, notava che «le idee possono essere sempre valide in qualsiasi stagione siano state concepite, ma in urbanistica le idee non sono tutto: c’è una meccanica specifica di esecuzione, un modo di impiego di queste idee, che viene sottoposto ad una usura eccezionale». E ricostruire le dinamiche di interrelazione tra città e idee significa anche, se non soprattutto, lavorare su materiali,ambizioni e financo strumenti di giudizio «eccezionalmente usuranti».
La Mostra di Vercelli: una scadenza per la cultura urbanistica italiana
La «prima mostra di attività municipale», che si tiene a Vercelli nell’autunno 1924, intende rilanciare il ruolo dei comuni italiani nella ripresa economica e sociale che segue il primo conflitto mondiale, sia dal punto di vista dell’immagine degli enti locali rispetto al grande pubblico, sia da quello del recupero di ruolo strategico delle municipalità, come soggetti politici e come strutture amministrative-professionali. Si tratta di una «mossa» pienamente motivata: è già in atto il processo che porterà negli anni successivi al ridimensionamento del ruolo complessivo dei comuni, determinato sia dalle scelte accentratrici del fascismo, sia dalla divaricazione sempre più netta tra due modi distinti di pensare la città basati l’uno su figure professionali varie, ma organicamente inserite nella logica culturale e motivazionale della municipalità, l’altro sulla nascente corporazione degli urbanisti liberi professionisti, portatrice di elementi culturali innovativi, che si definiranno all’interno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (Ernesti, 1988; Zucconi, 1989). Niente di meglio quindi, per i comuni, di una mostra in grado di presentare come prodotto di una progettualità complessiva le più svariate realizzazioni nei campi dell’igiene, dei trasporti, dell’istruzione, dei piani regolatori, e soprattutto sfatare la legenda che vuole l’attività municipale sonnacchiosa e inefficiente. Obiettivo centrato, al punto da giustificare la divertita ironia di Cesare Albertini, un tecnico che fa del municipalismo una sorta di militanza culturale:
«Che diamine! Una Mostra di attività municipale! Ma esiste davvero un’attività municipale? … E che cosa vi può essere di tanto curioso nella vita municipale che possa interessare il pubblico e non solo l’esercito dei burocrati dalla ciambella ben imbottita e dalle maniche lustre anche quando non son di lustrino?» (Albertini, 1924).
Insieme all’attività dei comuni si promuove la professionalità di statistici, segretari comunali, ingegneri e tutte le altre funzioni legate ai servizi municipali, attraverso momenti congressuali, formativi e di discussione. Ma dalle assemblee dei dazieri, degli ingegneri, dei direttori di linee tranviarie, aziende per l’energia elettrica o il gas, emerge la necessità di un confronto non episodico e con prevalenti fini promozionali: in altre parole si avverte la necessità di superare le stesse premesse della mostra. Silvio Ardy, segretario del comune di Vercelli e promotore dell’esposizione, saprà trarre le dovute conseguenze dal disagio emerso nelle varie sezioni congressuali, nel suo progetto di Scuola Superiore sul modello francese, concorrenziale rispetto a quella poi vincente delle Scuole di Architettura legate alla libera professione (Ardy, 1926; Calza Bini, 1929). Le città italiane hanno infatti da qualche anno iniziati a manifestare in modo palese i segni tangibili di uno sviluppo che la guerra ha solo momentaneamente interrotto, e ora più che mai si contrappongono frontalmente tradizione e innovazione; il che, tradotto in termini moderni, con qualche forzatura di ordine più che altro lessicale, significa il confronto nelle principali città tra le non ancora antitetiche opzioni di ambiente e sviluppo.
Ora più che mai si coglie l’insostituibile ruolo di mediazione delle municipalità nel delineare strategie di compromesso tra interesse collettivo ed interessi particolari o corporativi. A questo va aggiunta la situazione della grande maggioranza dei capoluoghi di provincia italiani, in cui si delinea una contrapposizione di strategie che anche in una logica semplificata (escludendo cioè gli interessi di chi non riesce ad organizzarsi in forma visibile), interessa stato, amministrazioni locali, gruppi finanziari ed industriali, ambienti accademici. Nulla di nuovo, si potrebbe osservare, se a questo non corrispondesse una accelerazione dei processi che proseguirà almeno fino alla crisi internazionale del 1929-33. In termini di intervento sulle città, questo significa travalicare i ritmi metabolici e le possibilità di recupero di un sistema amministrativo consapevole della propria inadeguatezza, ma nel complesso incapace di porvi rimedio in tempi compatibili con quelli determinati dai nuovi ritmi evolutivi.
Negli anni precedenti la guerra, la prevalenza, anche in prospettiva (se non altro come percezione diffusa), di una Italia equamente divisa tra la normalità della lenta evoluzione urbana e rurale e alcune situazioni di emergenza sociale e/o sanitaria, aveva ristretto all’ambito accademico ed elitario l’elaborazione di metodologie di intervento nei centri storici, determinando uno iato tra dibattito alto e cultura tecnica diffusa, lasciando di fatto l’ordinaria amministrazione delle città di fronte a due sole possibili opzioni: da un lato degrado edilizio e sociale, dall’altro meravigliose prospettive. Prospettive di migliore circolazione ed igiene, ma, anche e soprattutto, prospettive a volo d’uccello delle possibili nuove piazze e vie, foriere di investimenti con sicure ricadute per la collettività. La mostra di Vercelli intende anche rispondere a questa ambiguità (ambiguità difficilmente etichettabile come «culturale»), da un lato tentando di promuovere la formazione di un tecnico municipale più adatto alle nuove esigenze, dall’altro fungendo da cassa di risonanza e momento di divulgazione di nuovi approcci alla città storica, come il «diradamento edilizio» teorizzato da Gustavo Giovannoni da più di dieci anni, ma apparentemente ignorato dai più, tanto che occorre contestualizzare e documentare anche idee assai meno radicali:
«… oggi non è più possibile pensare ai cosiddetti sventramenti centrali, che assorbono enormi capitali e molte volte sacrificano i quartieri più caratteristici ed artistici tramandatici dal passato, e poiché non è sempre possibile studiare nuove strade sussidiarie che permettano la formazione di nuove arterie, con tornaconto economico e senza danno per l’arte e la storia, occorre dare la prevalenza a tutti i provvedimenti che possano agevolare la formazione di centri secondari. Si deve cioè procedere in senso opposto a quello che in genere si adotta, ossia dalle arterie principali del traffico provenienti dall’esterno della città, , dalle stazioni principali e secondarie, diramare arterie stradali capaci di grande traffico, le quali portino ai vari quartieri delle città: e si deve, mediante una opportuna distribuzione di pubblici edifici e di pubblici servizi, già previsti nel Piano Regolatore, promuovere la formazione di centri secondari di vita cittadina» (Albertini, 1925).
Padova: cultura vecchia, interessi nuovi
Alla mostra di Vercelli il comune di Padova espone le proprie realizzazioni nel campo dell’igiene (solo l’anno precedente si era celebrato il IV centenario dell’ufficio igiene cittadino, con la pubblicazione di un volume), i progressi fatti sostituendo con cubetti di porfido i manti stradali cittadini in ghiaia o acciottolato, lo sviluppo dell’illuminazione elettrica ecc. Ma nell’esposizione, destinata anche al grande pubblico, occupano posizione di preminenza tutte le realizzazioni del recente passato presentabili come vedute della città, e così Corso del Popolo, Giardini pubblici, nuovo Macello, Foro Boario, diventano nelle tavole del pittore Pisani strumento per costruire un catalogo autocelebrativo dell’attività comunale. Sul soffitto della sala, che verrà premiata come miglior allestimento della mostra, una grande pianta de centro storico riporta con evidenza l’ultimo progetto dell’amministrazione: il Piano Regolatore del Quartieri Centrali (Comune di Padova, 1924).
Quello che sarà definito di volta in volta un progetto grandioso, discutibile, inutile, totalmente stupido, è nel momento della sua presentazione a Vercelli in una situazione che potremmo definire matura: all’idea di intervento combinato su aree centrali e semicentrali (quartiere di Vanzo), maturata nel 1919 e tradotta in legge nel 1922, si somma ora la delibera comunale relativa al Piano di Ampliamento, che sarà legge poco più tardi. Nello stesso tempo iniziano a manifestarsi elementi di crisi e incertezza riguardo sia ai contenuti culturali dell’operazione che alla effettiva possibilità di portarla a termine (Universo, 1979). Il piano, dell’architetto Gino Peressutti, interessa oltre 70 ettari interni alle mura, divisi tra i quartieri centrali di Santa Lucia e Ghetto (10 ha) immediatamente a nord e sud di Piazza Frutti e Piazza Erbe, e poi la «città giardino» in località Vanzo a sud-ovest di Prato della Valle. Anche escludendo il progetto per Vanzo, le dimensioni e la qualità dell’intervento sono percepibili con una semplice occhiata alla tavola che costituisce il soffitto della Sala Padova alla mostra di Vercelli: là dove l’asse di Corso del Popolo dovrebbe incontrare la complessa trama della città antica, iniziano invece isolati regolari, vie e piazze ampie e spaziose.
Antonio Nezi sulle pagine di Emporium, con un articolo per altri versi non certo tenero coi conservazionisti locali, osserva come la sola sovrapposizione delle tavole di progetto alla topografia dei quartieri centrali renda in pieno «la vastità e profondità dello sventramento» che verrà attuato attraverso «tagli vivi ed ampi, strappi e mutilazioni» (Nezi, 1927). Tornano in mente le cautele suggerite da Cesare Albertini (1925) nell’operare sui quartieri monumentali, sulla inutilità e diseconomicità degli sventramenti, e la necessità di pensare invece a centri di attività alternativi. Del resto il decentramento per alleviare la pressione sui centri è tema all’ordine del giorno anche internazionale, come conferma il congresso di temi urbani e metropolitani di Torino nel 1926, o il primo dibattito su leggi e associazioni professionali nazionali in campo urbanistico (Associazione, 1925). Ma a quanto pare la cultura che anima l’amministrazione di Padova si colloca a notevole distanza sia dai conservazionisti locali, sia da chi semplicemente ritiene – indipendentemente da obiettivi di tutela e conservazione – quegli sventramenti ormai improponibili, alla luce di considerazioni tecniche ed economiche.
Le motivazioni addotte dall’amministrazione municipale ancora nel 1928 (ovvero quando l’intera operazione ha già ampiamente dimostrato, anche tralasciando gli oneri finanziari e le distruzioni del patrimonio monumentale, di non risolvere i problemi della città) sono più o meno le stesse che avevano spinto a demolire nel quartiere Santa Lucia. Nei primi anni ’20 poteva anche risultare abbastanza facile, descrivere a tinte fosche vicoli umidi e puzzolenti, delimitati da «degna corona di case meschine e logore» con allegate fotografie di angoli squallidi e visi smunti di giovani forse dedite alla prostituzione, dove «le stesse opere d’arte perdono quasi il loro valore», come recita la premessa alle grandi tavole di Gino Peressutti. A demolizioni avvenute, con l’area ridotta a un vuoto che solo lentamente negli anni successivi sarà riempito dai palazzi progettati dall’architetto e da altri suoi colleghi, la difesa d’ufficio del Comune si basa sul ragionamento secondo cui la città aveva urgente bisogno di un centro per gli affari e i servizi, funzione che non si poteva coprire esclusivamente con localizzazioni secondarie e decentrate. Dal punto di vista strettamente tecnico, l’area dei quartieri centrali sarebbe stata l’unica adatta (in quanto non acquitrinosa) a palazzi che per le proprie funzioni hanno bisogno di seminterrati e cantine, e in definitiva «Anche Cartesio paragonava la necessità di distruggere le vecchie idee, per piantarne solidamente delle nuove, alla necessità di abbattere la vecchia casa quando essa non serva più ai nuovi bisogni». A questo si aggiunga che «non basta una porta medievale per dare a un edificio spirito romantico quando da quella porta non può uscire un cavaliere antico, ma uscirà probabilmente un agente di assicurazioni» (Ragioni storiche, 1928), ed ecco prendere forma compiuta queste sedicenti motivazioni tecniche e storiche per il Piano di sventramento.
Paradossalmente, la chiamata in causa nientemeno che di Cartesio e delle compagnie di assicurazione come elementi probatori, pone in secondo piano una questione di fondo: l’innegabile esigenza per Padova di adeguarsi alle esigenze dei traffici commerciali, ma di farlo su una dimensione che sembra sfuggire al Comune. Non a caso ci si è soffermati così a lungo sulla mostra di Vercelli: la presenza di Padova, il riconoscimento del primo premio per la qualità dell’allestimento e i materiali esposti (incluso quell’obsoleto piano di sventramento) dimostra la relativa confusione di tutto il dibattito su studi municipali e «urbanesimo». Oltre le facili semplificazioni operate col senno di poi, pare davvero difficile pensare ad un pubblico in gran parte colto e interessato, allo stesso tempo applaudire le considerazioni di un Cesare Albertini, e poi conferire la medaglia d’oro al progetto di Gino Peressutti. A spiegare questa apparente contraddizione non aiuta poi neppure l’esclusione di Padova dall’elenco ufficiale delle città che si sarebbero meglio attrezzate per le più moderne esigenze (Ardy, 1926): esigenze che richiedono, oltre a nuove attrezzature e infrastrutture, un diverso modo di pensare la città, quello che pian piano sta coincidendo con l’idea di urbanistica moderna.
La nuova dimensione del progetto per la città
Quando definiva Corso del Popolo una «freccia puntata al cuore della città», Antonio Nezi su Emporium coglieva forse anche inconsapevolmente il nodo centrale del contrasto tra sventratori e conservazionisti. Va infatti considerato come, indipendentemente dalle motivazioni di profitto, alla base del progetto APE – Anonima Padova Edilizia ci fossero anche oggettivi problemi di traffico, igiene, «decoro». In altre parole, l’apertura del classico viale della stazione puntato dalla periferia al centro storico a inizio secolo, se aveva reso possibile uno sbocco in uscita alla congestione dei quartieri storici, determinava specularmente un problema in entrata, creando flussi destinati quasi naturalmente a premere verso l’altra estremità a Prato della Valle o la basilica del Santo: la zona di Santa Lucia rappresentava davvero una «incongruenza» a questo schema.
«Ed ecco che col loro programma iconoclasta ma elementarmente logico, i moderni edili si propongono di sfollare di edifici la città medievale per affollarla di gente, di offrire l’area rasa alle nuove costruzioni, di cancellare la pittoresca sinuosità delle secolari strade per defilare comodamente le modernissime … I novatori hanno diritto al rispetto e bisogna anche ammirarli quando mostrano di essere coraggiosamente conseguenti» (Nezi, 1927).
Emerge insomma la necessità di ampliare concettualmente l’idea di progetto urbano: da cura sintomatica di alcune distorsioni dello sviluppo, a terapia di ampio respiro di un organismo complesso, le cui dinamiche richiederanno approfonditi studi preliminari e successivo monitoraggio. Tradotto in termini concreti, tale approccio (privo di nessi immediati con la specifica questione del centro storico) non tocca né privilegia i luoghi in cui si manifesta evidente il problema di traffico o di igiene, ma certo inquadra in una prospettiva meno contingente le questioni delle viuzze senza sole, delle statistiche sulla mortalità infantile, delle «costruzioncelle putride» a soffocare i monumenti. Ai problemi del centro città si risponde comprendendo organicamente anche la periferia dove «si combatte la battaglia quotidiana tra la campagna e la città» (Chiodi, 1929). Nel caso specifico di Padova ciò significa spostare il fuoco dalle macerie di Santa Lucia verso Voltabarozzo, Stanga, Portello, Arcella. Si potrà così esaminare le questioni da un punto di vista diverso e più adeguato, come nella prospettiva scelta dai giovani che si definiscono Gruppo Urbanisti Romani, guidati da Luigi Piccinato col suo alone di architetto integrale e il sostegno di prestigiosi esponenti nazionali come Gustavo Giovannoni (Zucconi, 1989).
Gruppo di urbanisti che in uno stile mutuato dalle provocazioni delle avanguardie storiche si permette giudizi al limite dello sberleffo sul progetto APE – Peressutti: un piano giudicato antitetico rispetto alle secolari tendenze di «gravitazione del centro» verso ovest, che distrugge inutilmente e stupidamente due quartieri, crea artificiosamente le condizioni per svalutare la monumentalità delle piazze centrali, ponendo le premesse per altre nuove demolizioni di nuovo senza senso (Gruppo Urbanisti Romani, 1927). Al di là del tono volutamente e perentoriamente provocatorio del «contropiano» proposto (completo di evento futurista in un teatro e teatrale intervento della polizia) occorre considerare alcuni elementi, che il linguaggio volutamente scarno certamente concordato coi mandanti nazionali dei giovani architetti, al tempo stesso cela ed enfatizza. Il progetto di Gino Peressutti sarebbe «stupido»: non speculativo, culturalmente obsoleto, irrispettoso di alcuni valori urbani sedimentati localmente e non, ma proprio soprattutto stupido, ottuso. Per questo va denunciato nella sua meschina ristrettezza di vedute, in quell’appoggio su fattori emotivi come la pietà per certe misere condizioni abitative, tutto sfruttato solo per speculare. Oltre a questo, il piano APE non è solo stupido, ma inutile: ben altri sono i bisogni della città, guardare ai problemi pur concreti del traffico e dell’igiene dall’alto delle mura, è cosa da goffi ignoranti, doppiamente colpevoli se l’ignoranza cela interessi di bassissimo egoismo.
La relazione GUR è senza dubbio frutto di una manovra mediatica pianificata, per fare piazza pulita anche dell’opposizione conservazionista, che nell’obiettivo anche condivisibile di tutelare i monumenti finisce però per ostacolare qualunque progresso, dimostrando scarsa sensibilità sociale e urbana, e con questo slancio progressista «l’opposizione ambientalista … compie ora il suo massimo sforzo» (Universo, 1979). Con la proposta Piccinato & Co. si delinea ciò che poi negli anni Trenta si imporrà come obiettivo di massima della produzione teorica urbanistica: «la dimensione del piano è determinata dall’entità dei problemi» (Fuselli, 1933), e ciò per Padova ora significa ricondurre innanzitutto alle dimensioni reali tutti gli elementi del programma, dalla «città giardino» di Vanzo al Piano di Ampliamento. Per Vanzo l’idea originaria sarebbe:
«alle necessità di quartieri residenziali esterni al centro risponde il quartiere-giardino di Vanzo, tra Corso Vittorio Emanuele e il tratto del Bacchiglione tra la Specola e il Ponte di Barbarigo, in una località di campi, prati, limpidi ruscelli, fiori olezzanti e soave frescura tra ombrosi platani e verdi lauri, ora sorgono magnifiche costruzioni piene di aria,luce, sole, fornite di tutte le comodità richieste dalla vita moderna» (Ragioni storiche, 1928).
Fiori olezzanti e soave frescura, ma a quanto pare nessuna strategia complessiva per la città, oltre a quella di occupare le poche aree verdi ancora disponibili all’interno della cerchia muraria. A questo si aggiunge il fatto che all’epoca dello scritto citato il piano di lottizzazione risulta attuato solo in minima parte, anche la cosiddetta Esedra, edificio portale simbolo del quartiere, è completato solo a metà. Ma c’è anche l’altra gigantesca lottizzazione che si chiama ufficialmente Piano di Ampliamento. Secondo lo studio del GUR (ma negli anni successivi anche il Comune poi confermerà in sostanza questo giudizio), non solo la separazione concettuale tutta ottocentesca tra interventi nel centro e programma di espansione rende impossibile la soluzione dei problemi (Bottini, 1984), ma anche il piano di ampliamento in sé manca di qualunque respiro strategico per l’industria, la residenza, i servizi, riducendosi a una nuda griglia stradale sovrapposta alle aree esterne alle mura. La contropartita dei nuovi architetti offre diversa metodologia analitica alle questioni, a partire dagli obiettivi generali: collegare centro e stazione col sistema viario regionale; spostare le attività industriali dall’asse di Corso del Popolo; creare nuovi quartieri periferici e un centro terziario davvero alternativo a quello storico. Al centro della proposta i flussi di traffico, risolti secondo uno schema su tre assi dalla Stazione: verso Vicenza e i colli (Codalunga-Savonarola-Riviera San Benedetto); verso Venezia-Piave (nuova simmetrica a Viale Codalunga, raccordata a Morgagni-Falloppio); ultimo e notevolmente ridimensionato, l’asse nord-sud verso Prato della Valle.
Città e regione
Pensare alla città del futuro a partire da considerazioni su un’area più vasta di quella definita dal centro storico e dalle immediate adiacenze, non significa certo per gli Urbanisti Romani, disinteresse riguardo al tessuto minuto dei quartieri antichi. La complessiva operazione di ricucitura necessaria alla ricostruzione del sistema a tre assi, più l’attraversamento est-ovest (Falloppio-Garibaldi-Savonarola), è studiata per ridurre al minimo le demolizioni, sfruttando aree a orti che si ritengono disponibili. Del resto, non va dimenticato che la nuova dimensione critica del piano è proprio l’esigenza primaria di tutelare il centro. Il ruolo culturale di Gustavo Giovannoni nume tutelare della nascente nuova urbanistica a cavallo tra conservazionismo e movimento moderno, va ben oltre la teoria del diradamento edilizio, e lo conferma una disamina critica del suo Decalogo dell’Urbanista paragonato alle premesse metodologiche del gruppo Piccinato:
- al Piano Regolatore cittadino si premetta sempre un Piano Regionale tale da individuare le relazioni coi centri circostanti e la zona rurale;
- Piano Regolatore e Piano di Ampliamento costituiscano un unico elaborato, insieme a quello dei mezzi di comunicazione;
- si tenga distinto il traffico di transito da quello interno («sdoppiamento del sistema cinematico»);
- i nuovi quartieri siano concepiti come zone omogenee;
- i nuovi quartieri siano collegati senza barriere col centro;
- si programmi lo sviluppo della rete stradale e dei trasporti collettivi n modo coordinato con gli sviluppi edilizi;
- ai rigidi modelli geometrici si sostituisca una profonda conoscenza delle specificità dei luoghi;
- se indispensabili, gli attraversamenti del centro avvengano seguendo il tessuto esistente;
- non si sovraccarichino di funzioni i vecchi quartieri e si evitino gli sventramenti;
- si liberino le zone antiche dalla pressione della grande viabilità, deviando il traffico ed eventualmente adottando il metodo del diradamento edilizio. (Giovannoni, 1928)
Risulta abbastanza consequenziale, sovrapporre questo Decalogo, così sintetizzato per l’occasione, al metodo della Relazione GUR: dallo schema regionale coi nuclei satellite di Pontevigodarzere, Villa di Teolo, Torraglia, Battaglia, Voltabarozzo, Ponte di Brenta, gravitanti sul nucleo centrale, attraverso la viabilità tangenziale al centro sugli assi Codalunga e Falloppio, l’attraversamento est-ovest parallelo a via Altinate, e infine le proposte per i quartieri periferici e centrali, da Piazza Garibaldi a Ghetto. Ma quello di Giovannoni resta solo un articolo teorico, e il Piano dei GUR una provocazione culturale-tecnica: dal punto di vista istituzionale ancora a fine anni Venti si continua a sostenere la validità del Piano APE.
Nell’autunno 1929 si tiene a Roma il XII Congresso dell’Abitazione e dei Piani Regolatori, che la federazione internazionale dedica particolarmente all’intervento sui centri storici. Su invito del comitato promotore, l’amministrazione padovana partecipa alla mostra parallela al convegno «per dimostrare come, malgrado le accuse contro il piano regolatore di Padova, anche in questo campo siano state vagliate le esigenze d’ambiente e le esigenze dell’arte» (La Partecipazione di Padova, 1929). Va sottolineato, come anche in un consesso internazionale come quello di Roma, Padova ritenga di poter dimostrare la serietà e fondatezza delle proprie metodologie di intervento, di aver «vagliate e coordinate» le esigenze della città … presentando cinque tavole a carboncino, raffiguranti le prospettive delel soluzioni proposte dai progettisti architetti Peressutti, Torres, Miozzo, Paoletti, più la Soprintendenza alle Belle Arti, per le piazze Garibaldi e Spalato (oggi Insurrezione). Commentando più in generale l’ampio confronto internazionale dell’urbanistica italiana, Vincenzo Civico tra qualche anno osserverà che probabilmente a trattenere nella Capitale quei delegati dal mondo erano state la buona cucina e le visite ai monumenti, visto che i materiali delle mostre parallele ai convegni non erano proprio nulla di cui andare fieri: pochi progetti, pochissime realizzazioni, e quasi tutto riferibile ad una cultura raccogliticcia e obsoleta: «Ed anche i progetti migliori mostravano tutte le incertezze e imperfezioni di una scienza non ancora matura ed in cerca delle sue leggi e dei suoi canoni fondamentali» (Civico, 1937).
Quello di Padova non può neppure essere considerato tra i «progetti migliori» come li classifica Civico, specie in una assise dove tra i pochi fiori all’occhiello dell’urbanistica italiana sta lo stesso Luigi Piccinato, allontanato dalla città in modo quantomeno brusco e sbrigativo poco prima insieme al suo Gruppo, alle teorie del diradamento, alla dimensione regionale del piano. Dimensione peraltro anche auspicata in qualche modo dall’idea amministrativa della «Grande Padova» (Ventura, 1989). La scala sovracomunale, posta solo sullo sfondo dal dibattito culturale e istituzionale sull’urbanistica, pare invece considerata molto di più nelle politiche dello stato fascista per il controllo amministrativo del territorio, del resto abbastanza coerentemente con l’idea accentratrice e di scarsa considerazione delle autonomie locali. La domanda presentata dal Podestà, Francesco Giusti del Giardino, nel quadro dell’attuazione del RDL 17 marzo 1927 n. 383 (Sernini, 1980), ridefinisce i confini comunali con l’aggregazione di quattordici territori contigui e alcuni nuclei frazionali.
Centri secondari, collegati al capoluogo da ragioni storiche, economiche, culturali, nonché da reti di relazione più tangibili come strade, canali, ferrovie, la cui unificazione potrebbe generare una nuova entità equilibrata, in grado di ricomporre attraverso un progetto su larga scala gran parte delle contraddizioni tra centro e periferia. Con il quadruplicarsi della superficie, a fronte di un incremento di popolazione comunale inferiore al 70%, questa Grande Padova si avvierebbe verso auspicabili mete di «ruralizzazione della città» (il testo del Podestà cita ampiamente il Discorso dell’Ascensione di Mussolini del medesimo anno), e potrebbe anche costituire la base di una razionalizzazione dei trasporti, delle localizzazioni produttive, delle bonifiche, della tutela ambientale includendo Abano classificata come sobborgo con qualità paesaggistiche. E infine di tutela monumentale, vista la condizione complessiva di sviluppo meno centrato sul capoluogo, ma teso alla realizzazione di «una grande entità commerciale ed agricola che intende colmarsi non di edifici ma di superfici coltivate, di popolazioni dedite al lavoro dei campi» (Padova, 1927).
Il concorso per il piano regolatore
Il progetto per l’aggregazione dei comuni contermini si conclude con un nulla di fatto, precludendo qualunque possibilità di sovrapposizione tra le aspirazioni urbanistiche alla grande scala e le spinte accentratrici della politica. Ma occorre qui precisare che l’accostamento di temi culturali come la teoria del diradamento (e la regione metropolitana che viene a individuare come dimensione adeguata), e delle pratiche di potere locale della annessione di circoscrizioni limitrofe (che auspicano un identico calo di pressione sul centro) è del tutto casuale: non esiste vera consapevolezza della convergenza di obiettivi, se non tra alcuni studiosi (Testa, 1933). Sull’amministrazione locale padovana, là dove non avevano avuto effetti concreti le provocazioni del GUR o le critiche dei conservazionisti cultori dell’estetica locale, pare impattare diversamente la forza di alcuni fatti. La figuraccia dei Comuni italiani alla Mostra internazionale di Roma nel 1929 deve aver incrinato alcune certezze sul modo di amministrare le trasformazioni urbanistiche. A ciò si aggiunge l’accelerazione di due processi che a quel Congresso sono strettamente legati. In primo luogo la legittimazione degli urbanisti che si organizzeranno nella loro Corporazione Nazionale sin dall’anno successivo. In secondo luogo il diffondersi della pratica di concorso per piano regolatore, strumento di dibattito certamente più ampio rispetto alla asfittica dimensione locale, strumento contemporaneamente utile a professionisti di qualità, pubblica amministrazione ad ogni livello, e anche a creare consenso.
Padova si allinea alla nuova moda nel 1933, quando a scala nazionale la curva di tendenza ha raggiunto il massimo, e anche la Commissione cittadina per il piano di risanamento centrale e il quartiere giardino ne sancisce ufficialmente il fallimento. Quanto pochi anni prima espresso dai GUR veniva liquidato come critica pregiudiziale distruttiva e provocatoria, oggi entra nel lessico ufficiale dell’amministrazione: inutilità e onerosità degli sventramenti, mancata soluzione dei problemi di traffico da cui era partito tutto, riconoscimento della necessità di affrontare un «piano regolatore di massima» dove si possano conciliare tutela e sviluppo (Il Piano Regolatore, 1932). Curiosa anche la coincidenza di giudizio sul piano di ampliamento: il gruppo Piccinato notava un vuoto propositivo, simboleggiato da quella enorme griglia stradale sovrapposta alle zone periferiche, oggi la stessa amministrazione constata:
«Nulla o pressoché nulla si è potuto fare per l’attuazione del Piano di Ampliamento, pel quale il Comune dovette limitarsi a vegliare che le nuove costruzioni di cui venivano presentati i progetti non avessero a sorgere sulle aree destinate dal Piano a sede stradale e di cercare che l’orientamento e la postura di esse fossero, per quanto possibile, consoni alle vie progettate» (Il Bando di Concorso, 1933).
In pochi anni sono cambiate molte cose. Non certo i problemi della città, ma almeno la volontà istituzionale di discuterne, di superare con lo strumento del concorso nazionale quel fuorviante e obsoleto approccio localista. Le discussioni ed esperienze degli anni Venti hanno dimostrato come un certo modo di intervenire sulla città antica serva solo agli speculatori e, indipendentemente dai giudizi morali, si limiti a sostituire vecchi problemi di traffico con nuovi problemi di congestione e decoro. Evidentemente solo il dovere istituzionale di presentare comunque ogni scelta come consequenziale e coerente ad altre, spinge ad attenuare il giudizio:
«le direttive e i concetti che si svolsero e si svilupparono in questo ultimo decennio in contemplazione dei nuovi, impellenti bisogni della vita, del movimento e del traffico di una grande città, hanno dimostrato come anche studi e progetti ritenuti meritevoli di approvazione e di plauso pochi anni or sono, mal oggi rispondano alle accresciute e progredite esigenze che si sono andate man mano formando e ora si impongono inesorabilmente» (Il Bando di Concorso, 1933).
Elementi portanti del nuovo bando di concorso sono: evitare sventramenti e risolvere la questione del traffico tenendo conto di flussi regionali e sistemazioni periferiche. È anche il risultato di una crescita culturale nazionale, anche con la formazione dell’Istituto di Urbanistica, la pubblicazione del suo organo ufficiale Urbanistica, e la normalizzazione di metodo del Bando Tipo per Concorsi di Piano Regolatore (Civico, 1935) modello di riferimento per tecnici e amministratori, anche se si avverte il vuoto di una Legge nazionale di settore, che in questi stessi anni viene prima presentata e poi rapidamente ritirata dal pur potentissimo ministro dei Lavori Pubblici Araldo Di Crollalanza. Per Padova ancora una volta si pone la questione dell’impossibile equilibrio tra una visione adeguata alle dimensioni dei problemi, e una ridimensionata ma più attenta alle dinamiche decisionali locali, priva però di lungo respiro. Sia l’uno che l’altro approccio in sé, quello troppo utopista e quello troppo pragmatico, da soli non avrebbero effetti positivi di fronte alla «resistenza passiva di strade sinuose, di schemi spaziali aggrovigliati, all’inutile assalto delle teorie più equilibrate ed allo stillicidio delle parole più sagge» (Fabbrichesi, 1934).
Prendiamolo molto sul serio, questo giudizio tranchant ma probabilmente obiettivo dell’unico «componente residente» della commissione di concorso, che annovera tra gli altri Ugo Ojetti, Cesare Albertini, Giovanni Muzio, e che dopo aver esaminato i quindici elaborati concorrenti stila la graduatoria di merito: primo Duilio Torres e collaboratori; secondo Munaron-Palatini; terzo ex-aequo tra l’elaborato Picconato-Marletta-Lattes e il progetto Rossi-Bardi-Rossi-Treves. Graduatoria compilata non senza contrasti, tra cui la richiesta (respinta) di Muzio di un concorso di secondo grado, per l’assenza di un elaborato davvero rispondente a tutte le richieste del Bando, e invece di numerosi ottimi spunti parziali sparsi qui e là (I Risultati del Concorso, 1933).
Un piano per la città
«non vi è distinzione di quartieri; le industrie occupano aree di pregio dove la fabbricazione di edifici di pregio si impone; le ferrovie secondarie e i raccordi ferroviari … ostacolano il transito … Le zone di edifici popolari si inseriscono qua e là ostacolando sviluppi di organismi vitali. … Conseguentemente al disordine delle arterie, in qualche parte larghissime e subito dopo assai strette e poi interrotte, il servizio tranviario è disorganico. Se prendiamo in esame la situazione dei vari edifici pubblici vediamo cose stranissime e a volte intollerabili … E in questo complesso irrazionale, molte volte caotico, vivono quasi 140.000 abitanti una vita operosa, piena di volontà e di slancio» (Torres, 1933).
Quella riportata non è, come si potrebbe forse sospettare a prima vista, la sconsolata lamentela di un turista deluso, ma la nota introduttiva all’elaborato vincitore del concorso di piano (che non a caso veniva accusato dalla commissione di un pessimismo forse eccessivo). Plinio Marconi da osservatore esterno critico preferisce non schierarsi sulla qualità delle varie proposte, soffermandosi però molto su quella di Luigi Piccinato e associati (Marconi, 1935). Parrebbe che proprio il piano di Torres si sia avvicinato di più a quell’auspicato equilibrio tra vaghe utopie teoriche e pragmatismo localista, ovvero le necessità amministrative e gli interessi: vi si trovano soluzioni al sistema del traffico (regionale e interno), dei quartieri di espansione, del centro storico, la ricollocazione/decentramento di alcune funzioni. Ha saputo in pratica interpretare il vero spirito del concorso, concentrando di fatto l’attenzione sui quartieri centrali, dove pur con qualche «sbandata» demolitoria si prevede il raddoppio dell’asse cardo (termine usato nell’elaborato Munaron-Palatini) attorno a cui si irradiano diradamenti rispettosi dei caratteri ambientali, della zona Naviglio, a rafforzare i flussi di traffico Piazza Garibaldi-Prato della Valle. In altre parole Torres, indipendentemente dalle motivazioni culturali e professionali che lo possono ispirare, risolve sul serio l’antica questione dell’attraversamento nord-sud, quella che da inizio secolo stava con la «freccia puntata al cuore della città» a partire dallo sventramento della stazione, ed evitando annose polemiche come quelle innestate dalle demolizioni in Santa Lucia.Non si spiega in altro modo, la decisione di assegnare il primo premio a un elaborato che nei giudizi si considera catastrofico nelle premesse, appena sufficiente nell’analisi statistica, corretto ma a volte rigido e accademico negli schemi viari e di espansione per quartieri.
Una curiosa coincidenza avvalora ulteriormente questa ipotesi: tutti sembrano riconoscere la qualità superiore dell’elaborato Piccinato, che se sulle pagine di Architettura viene particolarmente ma implicitamente lodato, nei giudizi della Commissione diventa oggetto di sperticata ammirazione. Salvo che quel mirabile perfetto piano si sviluppa su un programma totalmente alternativo a quello della pubblica amministrazione: non intervenire affatto sull’asse nord-sud, ma risolvere in altra sede e forma la congestione del centro. Ed evitando che sull’asse del cardo, ovvero dell’identitario Naviglio interno venga alterato il rapporto della città coi suoi canali, spostando altrove trambusto e aspettative moderne e lasciandone intatte le atmosfere: «In certe ore della sera ci si può ancora fermare al ponte delle Torricelle per assistere ad uno spettacolo meraviglioso: Venezia! Esclama qualcuno, per fare la lode della veduta. Ma no, è la Padova vera. Padova che si adorna delle sue acque, che dove si è compiaciuta di mettere una nota di colore, ha condotto una riviera» (Canilli, 1935).
Nella proposta Piccinato si leggono ancora, diversamente sviluppati ma intatti negli assunti di base, i temi del «contropiano» GUR 1926: rifiuto di intervenire sul centro antico per questioni che si ritengono originate altrove, analisi puntuale dei flussi di traffico regionali, progettazione aperta del sistema di espansione. Ancora, nel metodo, resta lo spirito in qualche modo provocatorio del porsi come totale alternativa agli interessi costituiti. Il motto Realtà scelto per l’elaborato corrisponde a un tentativo di riconciliazione piuttosto caratteristico dei concorsi di questi anni: ricostruire o migliorare i rapporti tra organi di governi e interessi, creare consenso diffuso. Là dove le vecchie tavole di Gino Peressutti usavano l’espressione artistica a sostegno di soluzioni del tutto particolari e interessi altrettanto particolari, poi contrastate punto su punto sul versante scientifico-urbanistico, oggi il nuovo approccio della arte-scienza corporata blandita tra mostre, convegni, iniziative pubbliche, si presta a posizioni più sfumate e inclusive. Così nei giudizi della Commissione coabitano ipotesi anche apparentemente antitetiche: dall’intangibilità del centro al suo essere fuoco di ogni trasformazione fisica, per quanto curata e contestualizzata. La semplificazione estrema di riconoscere il diavolo e l’acqua santa come entrambi validi e positivi, non rende giustizia a nessuno. Da un lato pensare – come fa Torres – comunque di rafforzare anzi raddoppiare i flussi sull’asse nord-sud dentro il centro storico, trasformando le riviere dei ponti romani in vie di traffico, forse cancellando il canale interno, aggira e contraddice alcuni temi del concorso , e anche quelli sottesi all’idea di Grande Padova, ovvero allentare le tensioni sul centro. D’altro canto spostare – come nello schema Piccinato – del tutto il baricentro della riflessione sui quartieri periferici, su un sistema stellare con ampi cunei di verde che si insinuano fin sotto le mura, sta a significare dichiararsi «fuori dalla mischia» e mettersi in lista per una specie di premio della critica, inutile al momento per la città ma ottimo investimento culturale, professionale, corporativo.
Certo non si può negare la qualità disciplinare del piano di Piccinato, evoluzione e maturazione delle idee già abbozzate nel 1926 coi GUR: torna il tridente irraggiato dalla stazione, il contenimento al minimo delle demolizioni, la sdrammatizzazione dei flussi nord-sud attraverso i quartieri storici. A differenza di tutti gli altri progetti, qui non esiste neppure il grande arco esterno della strada di circonvallazione, e i nuovi quartieri di Stanga, Arcella, a ovest tra le mura e la ferrovia per Bologna, Bassanello e lungo la via Piovese (estensione dell’asse urbano Falloppio), separati da fasce verdi. Ma sono, tutte, scelte esattamente opposte a quelle dell’amministrazione. Lo stesso impianto analitico indipendente dalle circoscrizioni amministrative (includendo Comuni della provincia di Venezia), o previsioni proprie di incremento demografico nettamente inferiori poi rivelatesi sbagliate, suggeriscono davvero qualcosa di simile a una utopia, a una dichiarazione di principio. Forse ottima per mostre, pubblicazioni, eventi, e anche perché una Commissione possa in qualche modo rivelarsi sensibile alle innovazioni estreme, rivendicando una propria «cultura politica urbana». E però alla fine il primo posto assegnato al progetto parziale ma realistico, quello che insiste nella modificazione morfologica e funzionale del centro antico puntando tutto sul «problema traffico» indotto dall’originario sventramento paleonovecentesco (Attività dell’amministrazione, 1935). Non bastassero le osservazioni sui progetti presentati al concorso, a questa lettura indurrebbe il contenuto della già citata conferenza dell’unico Commissario «residente» sui problemi urbanistici della città, dove ad una dissertazione generale su modelli ideali segue l’analisi tecnica dettagliata di uno e un solo aspetto: la tombatura del canale interno, ovvero il rafforzamento del famigerato asse nord-sud.
Una questione aperta
Il piano definitivo per Padova elaborato dall’ufficio tecnico comunale anche sulle basi dei risultati del concorso, segue nel metodo tante altre vicende locali italiane dell’epoca: la supervisione degli urbanisti premiati e il coordinamento dell’ubiquo Marcello Piacentini, in una logica istituzionale «la quale è l’unica per ovvie ragioni che possa avere presente tutti i fattori che possono condurre a adottare l’una piuttosto che l’altra soluzione» (Il Nuovo Piano, 1937). Nell’elaborato si affrontano tutte le questioni del traffico, dei quartieri di espansione, delle trasformazioni in centro, del riassetto dei trasporti (lo spostamento delle ferrovie secondarie dalla sede dell’attuale via Morgagni, lo spostamento possibile della Stazione più a nord). Si indicano anche le priorità, guarda caso in centro, col completamento di Piazza Spalato (oggi Insurrezione), di corso Milano, del quartiere giardino di Vanzo. Quindi nella seconda metà degli anni Trenta la città è provvista di un piano generale, derivante dalla sintesi di un dibattito durato almeno dieci anni, di respiro nazionale, che dovrebbe governare la crescita sino al traguardo degli anni Sessanta. Ma se col senno storico di poi agli anni Sessanta proviamo ad andarci noi, almeno attraverso un testo, subito salta agli occhi una data chiave: 1933 (Pluti, 1966).
Alla luce degli sviluppi successivi, il Concorso appare in una prospettiva differente: non punto di partenza di un processo, ma indipendentemente dalle intenzioni prodotto finito in sé e per sé, dalle analisi preliminari, alle soluzioni in dialettico contrasto tra varie culture e personalità, al suggello finale di sintesi del piano redatto e approvato istituzionalmente: anche questo parte integrante e coerente di quella procedura di «concorso di idee» ancora tutte da confrontare con la realtà. Per tutta la seconda metà del Novecento, il ricorrere della figura di Luigi Piccinato nella storia dei piani locali, a riproporre quelle che di fatto sono nuove versioni totali o parziali del «controschema» datato 1926, rafforza la chiave suggerita dal presente saggio: il piano regolatore, nella formazione della cultura urbanistica nazionale italiana, non tanto come contenitore e spazio di ricomposizione di interessi, ma ulteriore elemento della complessità. Elemento le cui pretese egemoniche (della nuova disciplina proposta come sintesi di scienza arte politica) vengono messe a tacere nell’esatto momento in cui ottengono il massimo della legittimazione culturale. Far partire il racconto dalla mostra municipale di Vercelli anziché da qualche fatto locale padovano, dall’insediamento delle nuove amministrazioni o dalla redazione del piano APE per esempio, agli albori del fascismo, vuol dire sottolineare la relativa incomunicabilità dei due percorsi: quello urbano-civico e quello urbanistico culturale-professionale, separazione che va oltre qualunque idea di «efficacia». Per delineare il successo di una maniera di pensare l’urbanistica già portatrice di tutte le future delusioni e frustrazioni del Novecento. E far pensare che forse al gruppo dei giovani Urbanisti Romani, in quei lontani anni Venti, avrebbe giovato scontrarsi gloriosamente non con la polizia, ma con circostanziate osservazioni di uffici locali più competenti.
da: Storia Urbana n.52, 1990
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