Io credo che in Italia siano assai pochi coloro che abbiano visitato la pianura pontina, quella vasta plaga del Lazio meridionale protesa fra i Monti Lepini ed il mare, fra le propaggini estreme dei Colli laziali e il seno di Terracina; e ancor meno coloro che, non avendola percorsa, se ne sian potuti fare un’idea anche approssimata. Molti avranno in mente la descrizione poetica dell’Aleardi, non certo felice ne’ suoi colori foschissimi, e penseranno a una monotonia di piani squallidi implacabilmente dominati dalla febbre, da cui il turista debba rifuggire con sacro terrore. Né si può mutar molto questa opinione percorrendo la ferrovia da Velletri a Terracina, finora l’unica arteria ferroviaria della regione, la quale corre al margine orientale della pianura, in vista delle vecchie città volsche appollaiate in alto, sul primo balzo dei Lepini; e neppur il panorama dall’alto delel mura ciclopiche di Norba o dal magnifico castello di Sermoneta o dall’arce di Sezze vale a far ricredere il turista frettoloso.
Bisogna inoltrarsi nel cuore della pianura e frugarla senza fretta, lembo per lembo, per riconoscere quanto siano vari e suggestivi gli aspetti ch’essa presenta. Lungo la costa, dalla Torre d’Astura al Circeo, una serie di laghi allungati, dalle forme frastagliate e strane, chiusi verso il mare dai tumoleti, lunghi cordoni di dune sabbiose. Bellissimi i maggiori, come il lago di Fogliano, specchio limpido e quieto cui si affaccia il parco magnifico di villa de’ Caetani, coi suoi filari rigogliosi di palme, un lembo di paesaggio orientale; e il lago di Paola, sulla cui riva dorme, nelle sue ruine solitarie, l’antichissima Circei. Alle spalle di questa fascia costiera, un ripiano, alto da 20 a 40 metri, prodotto forse da una recente emersione, che a nord si salda alle estreme appendici dei Colli Laziali, mentre a sud si distende fino al Circeo e, coperto in gran parte di boschi e di macchia, forma la parte meno accessibile, ma non certo la meno interessante per chi abbia il coraggio di penetrarla.
Qua sono vere e proprie selve, secolari e solenni, di cerri e di farnie, che mostrano lo spettacolo, ormai rarissimo in Italia, di una natura ancor vergine; altrove la tipica macchia mediterranea, bassa, intricatissima; altrove ancora distese vastissime e fittissime di rosella (cistus salvifolia), un arbusto dai grandi fiori gialli, che nella tarda primavera offre lo spettacolo meraviglioso di uno sconfinato mare d’intenso color d’oro. E in mezzo al bosco e alla macchia, vaste radure isolate, le lestre, animate da greggi di bovini e di ovini, cosparse di primitive, rozzissime capanne ove, segregati dal consorzio umano, trascorrono i mesi invernali i soli abitatori di questa zona; e ancora a ogni passo, nel bosco, le piscine, brevi conche d’acqua stagnante, che ospitano colonie numerose di vaghissime ninfee.
Tra questo ripiano e i Lepini, che si levan ripidissimi coi loro dossi di calcare scabro e calvo, è la parte più depressa dell’Agro pontino, la palude vera e propria, che si allunga da NO a SE, da Tor Tre Ponti a Terracina, e che fino oltre la metà del secolo XVIII era in gran parte coperta dalle acque ristagnanti, la palude pestifera, pel cui risanamento da secoli e secoli tante energie si consumarono, tante iniziative sorsero e caddero infrante di un subito, oppur si spensero a poco a poco, come esauste da una lotta impari contro un nemico gigantesco. Quest’area più depressa era probabilmente inondata anche nell’età antica e formava forse un bacino interno, una sorta di laguna o stagno; ma, fra questa e il mare, il ripiano descritto sopra doveva essere, per le assidue cure dell’uomo, in ottime condizioni idrauliche, era intensamente coltivato ed albergava una serie di floridi centri fra i quali Sessa Pometia, che dette nome a tutta la pianura. La laguna pontina aveva forse una notevole profondità, sì che il deflusso delle acque poteva avvenire naturalmente, e tutta la contrada era immune da malaria.
Certo la costruzione della Via Appia che, con un meraviglioso, perfetto rettilineo di 33 chilometri traversa la palude, non fu accompagnata da opere di bonifica, e lo stagno rimase anche più tardi, se ai tempi d’Orazio, Foro Appio era «refertum nautis cauponibus atque malignis» e se livio descrive Terracina come «urbs prona in paludibus». Vennero poi, quando le condizioni peggioravano di secolo in secolo, per il lento, progressivo interrarsi della laguna, i tentativi di Nerva, di Traiano e di altri imperatori, poi forse un altro, iniziato al tempo di Teodorico, quando già l’abbandono faceva sentire i suoi tristi effetti; indi sopravvenne il lungo, oscuro periodo medioevale, durante il quale la natura operò senza freno, e non pur la laguna si interrò a segno che lo scolo naturale delle acque divenne impossibile, ma anche il ripiano interposto tra quella e il mare – andate in rovina le monumentali opere di drenaggio – si convertì in una regione desolata, fomite pernicioso di malaria, invasa dalla macchia, sostituitasi ai campi già fiorenti ed estesasi a poco a poco fino a sommergere e cancellare pur anco i ruderi di popolose città.
Un millennio presso che ininterrotto di abbandono aveva ormai incancrenito il male quando, nel secolo XVI, i pontefici iniziarono una serie di poderosi tentativi di bonifica parziale o generale. Ed ecco Giuliano de’ Medici, fratello di Leone X, accingersi al risanamento della parte bassa con lo scavo del Portatore, sfociante in mare a Badino, a occidente di Terracina; più tardi Sisto V seguitar l’opera con lo scavo del Fiume Sisto, che raccoglie le acque delle sorgenti di Ninfa e di tutti i torrenti della parte più alta, le così dette acque superiori; ecco finalmente la gigantesca opera intrapresa nel 1777 da Pio VI, che basterebbe da sola ad esternare fra i posteri la memoria di quel pontefice. Ai lavori eseguiti per sua iniziativa da Gaetano Rappini si deve in sostanza se la palude vera e propria è oggi in massima parte prosciugata; il disegno concepito era davvero romanamente grandioso nella sua semplicità e tale da costituire un monumento di imperitura gloria all’ideatore. Un canale, parallelo all’antica Via Appia, perfettamente rettilineo, lungo oltre 20 chilometri a partire da Foro Appio e condotto ad immettere nel Portatore, convenientemente riattato, doveva raccogliere e smaltire tutte quante le acque della palude, sia quelle a corso mal definito della parte bassa, sia le acque superiori del Teppia, del Ninfa e di altri fossi deviati con tagli e canali sussidiari, sia quelle di torrenti maggiori, come l’Ulente e l’Amaseno.
Ma il progetto era condannato dalla sua stessa pur magnifica semplicità. La Linea Pia, scavata con diuturna fatica, si rivelò subito incapace di smaltire tutta l’enorme copia di acque, per il che si dovette restituire il Sisto alla funzione, che ancor oggi compie, di raccoglitore delle acque alte, e si dovette escogitare tutta una serie di provvedimenti secondari ed integratori, tra i quali lo scavo di quei regolarissimi canali normali alla Linea Pia, che in essa immettono d’ambo i lati a distanze uniformi di un miglio romano, aiutando lo scolo di due gronde laterali. Ma a proseguir lo studio e l’esecuzione di tutti i minori, ma non meno necessari lavori completivi, mancò forse la lena; l’oscuro nemico stroncava le più forti energie. E sopravvennero le rivoluzioni politiche: durante il periodo del dominio francese si ristudiò da capo e a fondo l’intricatissimo problema e si eseguì qualche opera più urgente; dopo la restaurazione, le strettezze del governo pontificio non consentirono di volgere il pensiero al compimento della grandiosa impresa, anzi si trascurò in parte anche la manutenzione di opere già eseguite, che deve essere rigorosa ed incessante in una plaga dove la piccola pendenza del terreno fa sì che i canali si interrino e si ostruiscano per la vegetazione che vi attecchisce in un baleno e vi si affolla con stupefacente rapidità; si rallentò, in una parola, la lotta che avrebbe dovuto proseguire indefessa, quando un anno di trascuranza basta a distruggere gli effetti di decenni di lavoro e una piena disastrosa annulla il frutto di energie e mezzi accumulati con lunghe fatiche.
La regione pontina, salvo nelle zone più alte e emarginali, definitivamente redente, non rivide l’aratro, apportatore di vita; inondata in più parti nei mesi invernali, impraticabile nelle zone più interne, non poté essere ripopolata da abitanti stabili e sembrò destinata a tornare ancora una volta sotto l’impero della desolazione e della sua inesorabile compagna, la malaria. Invero tutta la pianura pontina non ha oggi abitanti stabili. A NO, Cisterna, sull’Appia, e La Conca sono gli ultimi centri abitati; ad oriente, i paesi sono scaglionati, come si è detto, in alto sui Lepini; al piede dei monti, sotto l’altura a picco di Norma, dorme nelle sue rovine rivestite di edera la «Pompei medioevale», Ninfa, con l’alta sua torre a specchio del fresco lago formato da una ricchissima sorgente, con le sue chiese diroccate, invase da una vegetazione rampicante di prodigioso rigoglio, con le sue strade mute e i brevi ponticelli che si inarcano sul fiumicello frettoloso.
La malaria ne cacciò gli abitanti sin dal secolo XVI, e i tentativi più volte fatti dai Caetani per ripopolarla sono pur sempre falliti, né è bastato a richiamarvi oggi un nucleo stabile di gente neppur la piccola centrale elettrica, che fornisce la luce a molti paesi vicini. Di qua fino a Terracina e al Circeo, due o tre casali sul mare – Torre Astura, Fogliano, Paola – qualche altro sull’Appia, che poco oltre Cisterna, si slancia nel lunghissimo, magnifico rettilineo lungo il quale sorgono Treponti, Foro Appio e Mesa. Pio VI, tra le altre provvidenze, mentre aveva cercato di far rivivere questi tre casali, aveva abbellito il rettifilo di un duplice filare di olmi, dei quali purtroppo molti, un po’ per l’incuria, un po’ pel vandalismo dei passanti, sono caduti o deperiti; ne restano tuttavia esemplari superbi, e per qualche chilometro la «regina viarum» ha l’aspetto di un viale quasi interamente ricoperto da una vôlta di rami , come quello di un parco.
Tra l’Appia e il mare non un solo casolare. Eppure la pianura pontina ospita per otto mesi l’anno una popolazione numerosa, di genti dei vicini monti Lepini o della più lontana Ciociaria. Quanti sono? Si dice dai due ai tremila, ma forse sono molti di più. In parte contadini, in parte maggiore pastori, vivono in capanne primitive, quasi sempre a forma di cono, disperse a piccoli gruppi nelle lestre – le radure della macchia che, per antichissimo diritto, sono riserbate al pascolo di ovini e bovini – ovvero scaglionate lungo i canali che, specialmente nella parte più bassa, formano una rete complicatissima. Abitatori più numerosi degli uomini sono i greggi: grandi buoi bianchi dalle corna lunate, che s’incontrano pascolanti ai margini dei boschi, stuoli di cavalli dalla lunga criniera scapigliata, greggi enormi di pecore, stipate le une presso le altre per ripararsi dal sole, o quietamente riposanti sotto gli olmi dell’Appia deserta, e finalmente branchi di bufali neri ed irsuti dal volto camuso, dalle corna ritorte. Il bufalo è l’animale più caratteristico della pianura pontina. Se ne incontrano sulle rive umide dei canali o delle piscine, o più spesso ancora dentro l’acqua, talora immersi fino alla testa, per rinfrescarsi, si adoperano per liberare i canali stessi dalla vegetazione che li ingombra e li ostruisce, spingendoli avanti in piccoli gruppi serrati, talora anche si lasciano aggiogare per trainare qualche carro pesante.
Tutto questo mondo così peculiare e caratteristico – suolo e acqua, vegetazione e animali, uomini e loro dimore – che non ha riscontro in nessuna altra parte d’Italia, offre al turista spettacoli ed impressioni che invano si cercherebbero altrove. Anche le luci sembrano assumere qui aspetti particolari e maravigliosi: giochi di sole e luccichii strani nelle acque pigre dei canali, sotto la trama della verdura folta; lembi di cielo di un azzurro cupo, intensissimo, intravisti traverso i rami dei cerri annosi, dal fondo del bosco foltissimo; tramonti incantevoli, con riflessi di porpora e d’oro sulle rive dei laghi quieti, sfondi luminosi di mare e di cielo interrotti dal dorso boscoso del Circeo che si profila all’orizzonte come un gigantesco animale accovacciato. Il Circeo, isolato ancor oggi, poco meno di quando era veramente tutto ricinto dal mare, forma per il paesaggio, la vegetazione, la vita, un mondo a sé, del tutto diverso da quello della pianura pur tanto vicina … Lasciamolo da parte per oggi, perché merita di essere descritto per sé, da solo.
La regione pontina è dunque tutt’altro che un paese morto, almeno per otto mesi dell’anno. Soltanto d’estate – quando i pastori e i loro greggi hanno ripresa la via dei monti, e le lestre restano deserte, le capanne vuote o disfatte, i canali poveri d’acqua e silenziosi – la vita si attenua fin quasi ad arrestarsi; il viandante che sfidi il sole cocente e la malaria può camminare ore ed ore senza incontrare un essere umano, ed ha l’impressione che la rigenerazione della vastissima zona, attesa e auspicata da secoli e secoli, sia ancora molto lontana. E pur essa è forse meno remota di quanto non si pensi. Ciò che sembrò per tanto tempo un sogno irraggiungibile, si intravede oggi – se non ancora come una realtà prossima – almeno come una impresa gigantesca senza dubbio, ma non smisurata rispetto ai nuovi mezzi ed alle potenti energie che nell’ultimo secolo l’uomo ha potuto accumulare.
Per vero l’opera del governo italiano, succeduto a quello pontificio, ha sempre proceduto, lenta, ma continua, attraverso le incertezze e le lungaggini burocratiche, e con risultati forse superiori a quello che comunemente non si creda, più libera d’impacci, l’opera di privati. I Caetani, eredi dei vastissimi feudi pontini legati al dominio di Sermoneta, hanno con spirito di modernità rivolto nuovamente le loro cure all’avito possesso; e non sono molti mesi che il discendenti di quella insigne casa – sperimentando in pacifica opera civile le risorse tecniche, già accortamente utilizzate nell’esecuzioni di una grande impresa bellica, lo sventramento dell’ultima cuspide del Col di Lana – riusciva con pari successo ad aprire una nuova comunicazione tra il mare e il lago di Fogliano, vivificando le acque di questo vasto specchio d’acqua, divenuto ormai notevole centro di piscicoltura. All’ampia zone dei boschi pontini si era già rivolta l’attenzione durante la guerra, quando, nella grande penuria di legname, si procedette a tagli estesi, senza che purtroppo si potessero poi utilizzare, per difficoltà di trasporto, i magnifici tronchi, ancor oggi giacenti a centinaia, avanzi di inutile scempio, nella plaga tra Sermoneta e Fogliano.
Ma più larghe e complesse opere di rigenerazione va attuando una giovine e vigorosa società, che riassume nel nome l’audace programma: «Bonifiche Pontine». Chi, lasciando la Via Appia poco sotto Cisterna, volga a destra seguendo una recente buona rotabile che si dirige a Fogliano, si imbatte presto, al Quadrato, in un grande edificio circondato da capannoni e fabbricati accessori per stalle, abitazioni e depositi, un centro agricolo nascente, destinato a divenire assai presto stabile. Pochi mesi or sono questa plaga era una distesa fitta di scopeti, un groviglio di macchia bassa, fittissima, di erica e mortella: oggi, specialmente nella parte nord ovest fin verso Sessano, si va oprando una trasformazione rapidissima e meravigliosa. Le grandi aratrici Fowler – i più potenti congegni che l’ingegneria agricola abbia creato – trainata da trattrici abbinate, sconvolgono, coi loro poderosi aratri a coltello roteanti, il suolo fino a mezzo metro di profondità, sradicando gli arbusti, rovesciando le radici, dissodando il terreno che, subito liberato dagli sterpi mediante altre macchine rastrellatrici, è senz’altro pronto per ricever le sementi.
L’opera si compie con una rapidità che ha del maraviglioso e presenta uno spettacolo imponente di potenza umana. E la terra, non arata da secoli, offre i tesori di una prodigiosa fertilità, quasi moltiplicata dal lunghissimo riposo: presso Sessano un terreno, che era l’anno scorso un intrico di scopeti intransitabili, biondeggia ora di magnifico grano; il reddito eguaglia quello dei più ricchi terreni emiliani. Intorno al Quadrato, l’area coltivata si estende di stagione in stagione, mentre in altre plaghe contermini si migliora il pascolo, rendendolo più razionale, e sorgono a migliaia i pioppi in lunghissimi filari. Questa zona che si va alacremente riscattando a nuova vita, è sul ripiano interposto fra la palude vera e propria e il mare che, come si è detto, fu già nell’età classica sede di intensa attività agricola e di floridi centri; e forse il vecchio Casale di Sessano, fino a poco tempo da solitario in mezzo alla macchia fitta, oggi circondato da campi ferventi di lavoro umano, serba il nome in ricordo di Sessa Pometia, l’antica metropoli della regione; un ricordo che è in sé stesso incitamento ed augurio.
Nella palude vera e propria – dove la linea Pia e i sistemi accessori di canalizzazione adempiono ancora alla loro funzione di scolartori della parte bassa, ma manca invece tuttora un permanente deflusso delle acque superiori, soprattutto per quelle del Teppia, che il Sisto è incapace ad accogliere nelle piene – un Consorzio rivede e completa con intelligenza ed esperienza nuova progetti antichi e recenti, avviando una sistemazione che debba essere veramente definitiva. Più in giù, presso il mare, fra Terracina e il Circeo, un altro esteso lembo di terra risorge e rapidamente si trasforma, come sotto un riflusso rigeneratore: è la Colonia Elena, fondata anni or sono da una casa commerciale napoletana, con l’intento di farne sede di cultura intensiva di ortaggi e oggi entrata a far parte della zona da bonificare. Una spaziosa fattoria centrale, sedici fabbricati rurali, tutti uguali, disposti su una vasta area, una piccola chiesa, una scuola: nell’insieme un altro centro agricolo avviato a sicuro sviluppo.
Il suolo tutto intorno, mollemente ondulato, qua e là incavato da piscine, era fino a pochi mesi fa invaso dalla macchia di rosella, alta fino a due metri: oggi, dopo eseguita, quando occorra, la cioccatura, cioè l’estirpamento dei tronchi e delle radici più robuste, le motoaratrici dissodano ed arano, e immediatamente dopo si fa la semina. La naturale, prodigiosa fertilità del suolo opera anche qui il miracolo: campi superbi di frumento, piantagioni rigogliose di pomodori prosperano oggi là dove nell’autunno scorso era ancora la macchia vergine. Il Direttore dell’azienda è tempra di vero apostolo: moltiplicando la sua attività, richiama i coloni intorno al nuovo centro agricolo e, facilitando le loro condizioni di vita, fa di tutto per innamorarli della terra e indurli a non abbandonarla, anche nei mesi estivi più tristi. Un gran passo sarà fatto quando si potrà ottenere che una parte notevole della gente, che migra oggi nell’estate dalla pianura per far ritorno ai monti nativi, si persuada a prendere dimora stabile nel paese, che è ormai fonte principale, se non unica, delle loro risorse.
Affezionati alla regione pontina sono certo, questi montanari dei Lepini e della Ciociaria; e alcuni finiscono col tempo per stabilirsi effettivamente nei centri prossimi – com’è accaduto delle genti di Terelle, venute a trapiantarsi definitivamente a Terracina – altri ritornano ogni anno da epoca immemorabile, di generazione in generazione, nonostante il lavoro rude, i disagi di una vita quasi zingaresca, la malaria. La malaria … ecco lo spettro pauroso che sembra opporsi a qualsiasi più ardita impresa. A che serve, si dice, tentare la bonifica agraria e idraulica, se non si riesce a trionfare del nemico più terribile? Eppure anche la malaria fa oggi meno paura che per il passato. Le migliorate condizioni generali della popolazione, in confronto a trenta o cinquant’anni fa, onde è aumentata la resistenza al male, la propaganda sui mezzi preventivi e curativi, hanno attenuato se non altro, la violenza del flagello. Inoltre la estirpazione del bosco, la riduzione a cultura del terreno e il ripopolamento sono pur essi mezzi di lotta efficaci. Il detto che si attribuisce a Guido Baccelli: «La malaria si caccia via con l’aratro e si calpesta coi iedi» ha in sé qualche cosa di vero. Ma oggi si combatte il nemico direttamente, ed anche in questo caso con mezzi nuovi, suggeriti dal progresso della scienza. Durante la guerra fu sperimentata con successo la cura della malaria mediante l’applicazione dei raggi X in tenui quantità, ed oggi questo nuovo sistema curativo, di cui è inventore il dottor Antonio Pais, si applica su larga scala nella regione pontina.
Una grande stazione radioterapica, diretta dallo stesso prof. Pais, munita dei più moderni, potenti materiali, è sorta quest’anno a Terracina ed esplica la sua azione con resultati che già in pochi mesi si sono dimostrati mirabili: diffusasi rapidamente la notizia di guarigioni operate in casi ribelli ad ogni altra cura, centinaia di malati accorrono da ogni parte dell’agro e sono sottoposti ad esame caso per caso e gratuitamente, senza distinzione alcuna. La istituzione benefica costituisce il primo numero di un vasto programma di lotta antimalarica da estendersi a tutto l’ampio territorio. Se la fiducia degli ideatori e degli esecutori continuerà ad avere la conferma dei fatti, forse, in un avvenire prossimo, si verrà ancora una volta ad apprendere in Italia i novissimi mezzi per la lotta contro un flagello, che in tante plaghe del mondo miete vittime a migliaia. Quando in tutto l’agro pontino sarà eliminato l’ostacolo derivante dalle periodiche invasioni delle acque, e il deflusso sarà ovunque regolato, quando saranno attenuati i pericoli dell’infezione malarica, l’opera di redenzione agricola, che oggi con pieno successo è avviata in due o tre lembi della pianura, potrà essere estesa via via, fino a trasformare in plaghe coltivate ed abitate tutte le zone oggi totalmente abbandonate ed improduttive.
Si ha insomma l’impressione che, a un secolo e mezzo di distanza dalla grande iniziativa di Pio VI, l’opera di rigenerazione sia oggi ripresa in tutta la sua complessa vastità, con l’ausilio degli strumenti più agguerriti e delle energie più fattive. La fatica è lunga, la meta è ardua. Ma se si pensi agli enormi progressi compiuti in ogni campo nei centocinquant’anni trascorsi dall’ultimo e maggior tentativo fatto a beneficio della regione pontina, se si pensi che oggi il tentativo si rinnova in condizioni di gran lunga migliori e col sussidio di una lunga e tenace esperienza, non si può nutrir dubbi sull’esito finale. L’impresa gigantesca, che interessa tutta l’Italia, deve richiamare l’attenzione di tutta l’Italia e deve esser sorretta dal conforto di quanti hanno fede. È utile che molti vedano coi propri occhi e si rendano conto dell’opera che si va svolgendo.
Una gita nella pianura pontina dovrebbe entrare ormai nel programma dei turisti che visitano senza fretta Roma, la campagna, il Lazio meridionale. E non bisogna fermarsi ai dintorni della linea ferroviaria, a Ninfa, a Cori, a Sermoneta. Chi voglia, può oggi avere i mezzi di spingersi fin nel cuore della regione. Dal punto di vista paesistico, una escursione di due o tre giorni, non disagevole, è largamente compensata da attrattive varie e inconsuete, attrattive che, in parte almeno, scompariranno forse, quando la regione rivivrà trasformata dai lavori di bonifica agraria, idraulica e sanitaria, che insieme connessi si vanno svolgendo. E come alla contemplazione di un paesaggio dei più caratteristici si associa la visione della vasta e benefica opera trasformatrice, così nell’animo del visitatore si mescola, alle indimenticabili impressioni suscitate dagli spettacoli naturali, il sentimento di giustificato orgoglio, che desta in ogni italiano l’imponenza della nuova impresa di redenzione del paese e degli abitanti.
da: Le Vie d’Italia (rivista del Touring Club), marzo 1922