Parcheggi: spazio pubblico sepolto sotto una una crosta di imbecillità

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Foto F. Bottini

Sarà capitato a parecchie persone di uscire per qualche motivo il giorno di Natale, e notare quei vistosissimi vuoti nei parcheggi. Davanti agli scatoloni degli esercizi commerciali, magari tra le cartacce svolazzanti degli ultimi frettolosi acquisti del giorno prima, ci sono centinaia di migliaia di ettari di asfalto desolato. Per non parlare delle corsie di accelerazione e decelerazione necessarie a entrare e uscire da quei piazzali, per non parlare di tutte le altre infinite piazzole lasciate libere da chi ovviamente non va in posta, in municipio, in banca, in ufficio e neppure sta a casa, perché si va tutti dalla nonna per il pranzo natalizio. Ma neppure davanti alle case delle nonne pare ci sia un gran affollamento, gente che gira su e giù per gli isolati in cerca di un posto libero, e questo aggiunge se possibile ulteriore desolazione alla desolazione: benvenuti – finalmente – nel mondo novecentesco degli standard a parcheggi automatici. Quel mondo in cui le orride piazzole rettangolari, sgradevoli, costose per il portafoglio collettivo e l’ambiente, ma apparentemente utili, anzi indispensabili, vengono costruite seppellendoci sotto ottimo tutt’altro, anche se non c’è alcuna auto in vista che ne manifesta il bisogno. Come se all’ingresso di un edificio ci fosse per legge un addetto che infila un sigaro già acceso in bocca a chiunque superi la soglia, cani e bambini inclusi.

Automatismi

Anche di questo dobbiamo probabilmente ringraziare l’interessata fascinazione per quel passaggio del Manifesto del Futurismo che recita “Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo … un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”. Tanto bella da farle girare attorno un intero secolo, riorganizzando il mondo a sua immagine e somiglianza. Per legge, mica per amore del bello. Qualunque spazio abitabile deve avere automaticamente anche l’accessorio di una quota di spazio dedicato all’auto, secondo un criterio identico, per esempio, all’altezza del soffitto. Così come non ci sogneremmo mai di costruire una stanza alta cinquanta centimetri dentro cui claustrofobicamente si entra strisciando, allo stesso modo la legge ci impone di affiancare a ogni unità di superficie una piccola quota di spazio auto. Serve davvero? Un burocrate, un geometra, un ingegnere dotato di segreteria preregistrata ci dirà che così dicono le norme, e se è davvero in vena di confidenze aggiungerà che lo capisce anche un bambino: per andare in un posto ci vuole l’automobile, e quindi occorre farle spazio, no? Gli si potrebbe facilmente replicare che per andare in un posto ci vuole il posto, e qualcuno che ci voglia andare, non l’automobile. Ma a quanto pare si sfida un secolo di micidiali luoghi comuni.

The long way home

Aiuta, oggi, la constatazione puntuale di come in tantissime città e quartieri si verifichi sempre quell’Effetto Natale citato in partenza, e mica solo a Natale. Tutti quei milioni, miliardi di metri cubi residenziali, a uffici, commerciali, a servizi, con la loro appendice automobilistica di legge, se ne stanno lì, vuoti o pieni, occupati o inoccupati che siano, coi parcheggi deserti, sempre. Si ammucchiano studi a sostenere quel che poteva anche essere ovvio sin dall’inizio: un luogo abitato o frequentato deve essere accessibile, magnificamente accessibile, punto e basta. Accostare in modo così automatico e per legge l’accessibilità all’auto e ai suoi requisiti vari, pensandoci bene, rasenta la demenza. Perché non obbligare anche a moli di attracco per imbarcazioni, piazzole per elicotteri, dirigibili, armadi per attrezzature da subacqueo? Sono battute, certo, ma mica troppo. E non c’è neppure bisogno di invocare i soliti vaghi e perdenti nuovi paradigmi di chissà che. Restando coi piedi piantati solidamente per terra, basta cominciare dal minimale: ci sono parcheggi vuoti? Eliminiamoli, perché fanno inutilmente danni. A San Francisco, posto dove il problema del parcheggio è storicamente percepito come quasi drammatico, qualcuno si è preso la briga di andare a fare i conti e i rilievi, scoprendo, sorpresa, che ci sono quantità mostruose di superfici di sosta del tutto inutili, ognuna col suo indirizzo. Si parte da qui, a ragionare, dalla constatazione documentata: davanti a una roba così, anche il geometra più integralista è capace di crollarvi in ginocchio citando a sua insaputa i Blues Brothers: “Ho visto la luce!”.

Riferimenti:

Rachel Dovey, New Tool Maps Bay Area’s Expensive, Unused Parking, Next City, 18 settembre 2014

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