Da diversi decenni si moltiplicano e articolano gli studi sull’evoluzione della fauna urbana, sui modi in cui si costruiscono veri e propri nuovi habitat del tutto accoglienti per specie selvatiche, sia nel caso in cui i loro territori siano stati invasi da case e strade, sia in quello in cui le bestiole sono volontariamente migrate, in cerca di qualcosa che dobbiamo ancora davvero capire a fondo. Ci sono le volpi, i coyote, i procioni che festeggiano nella spazzatura o a volte addirittura si infilano in cucina ad arraffare qualche prelibato bocconcino, terrorizzando la casalinga disperata di turno. O le nutrie che col loro aspetto assai simile a ratti extralarge si aggirano anche in frotte sulle sponde erbose dei canali urbani, fisicamente innocue ma di notte una specie di incubo per l’immaginario di qualcuno. Insomma c’è tutto un mondo nuovo di prede, predatori, spazzini, cose che corrono, strisciano, volano, e con cui conviviamo ogni minuto anche senza rendercene ben conto.
Fra gli animali che sicuramente notiamo di meno, ci sono i passeri domestici. Da sempre, probabilmente dalle origini della storia urbana, si accompagnano a case, chiese, cortili, giardinetti, tetti e balconi. Una presenza avvertibile a tratti se cinguettano, o magari come succede in certi locali pubblici italiani aperti sulla piazza, specie all’ora della colazione con cornetto, si infilano petulanti tra le gambe dei clienti a raccogliere briciole. Ma come ci avvertono da tempo gli studiosi il mondo si sta urbanizzando sempre più, e non si tratta certo del tipo di urbanizzazione relativamente equilibrata a cui associamo istintivamente i passeri che volano sullo sfondo di campanili e comignoli: quello sfondo, e la realtà che rappresenta, non esistono quasi più, o rischiano comunque di essere avvolti in cose molto diverse. Niente di emotivo, visivo, vaga sensazione, ci sono sistematiche ricerche scientifiche a dimostrarlo.
Tempo fa il Journal of Avian Biology aveva pubblicato uno studio su «Urbanizzazione e declino del passero domestico», che attraverso osservazioni, rilievi, comparazioni, notava un calo dei ritmi di riproduzione di questi uccellini in aree urbane, verificando con pochissimi dubbi il legame diretto con le trasformazioni ambientali indotte da un certo tipo di organizzazione della città. Segnatamente, l’inquinamento da traffico e la qualità e organizzazione degli spazi aperti, verde, strade ecc. Il che evoca immediatamente almeno due dei principali temi di dibattito sulla città contemporanea: quello sulla mobilità e quello – forse correlato molto strettamente – sulle cosiddette infrastrutture verdi. Proviamo a fare un breve schematico ragionamento. Se diminuisse la quantità di veicoli inquinanti che circola, se diminuisse in genere la mobilità veicolare a motore, aumentando gli spostamenti cosiddetti dolci e gli scambi immateriali? Se il sistema del verde e spazi aperti diventasse appunto sistema, rete continua con un certo grado di auto-rinnovamento e auto-pulizia, con un collegamento naturale diretto fra la zona rurale e quella urbana, fra gli spazi più grandi e quelli minimi?
Nei nidi dei passeri tornerebbe ad esserci la medesima quantità di uccellini (vivi) di prima. Perché, gradevole cinguettio a parte, come tutti gli aspetti delle trasformazioni ambientali di solito in peggio la scomparsa dei passeri non è un male assoluto in sé e per sé, ma un segnale che qualcosa potrebbe non andare affatto per il verso giusto. I passeri se ne accorgono morendo, ma naturalmente non hanno un sistema di riviste scientifiche passeracee per raccontarci che questo è colpa di trasformazioni che colpiscono anche altro, ad esempio la pellaccia nostra. In modo strisciante, ora rilevabile solo dalle delicate piume dei passeri, domani chissà. Forse è meglio pensarci un attimo: non sarebbe carino, tra l’altro, svegliarsi la mattina e invece del cinguettio dei passeri poter ascoltare, che so, solo lo squittire di una pantegana nel vicolo. E per inciso anche riguardo a pantegane e cose meno poetiche dei passerotti, un po’ di conoscenza in più e meno paranoie da vetero-urbani novecenteschi, non potrebbero farci che bene in questo assai mutato terzo millennio.