Si racconta che i primi pionieristici treni percorressero in realtà minuscoli tratti di rotaia, da un punto di una miniera all’altro, avanti e indietro. Anche le prime auto, in fondo, da giocattolini per ricchi annoiati quali ancora erano, non è che andassero troppo in giro, dovendosi accontentare delle malconce (almeno per quel tipo di veicoli) strade dell’epoca. E per concludere, val certamente citare l’esempio dei primi esperimenti di Antonio Meucci col suo telettrofono, che consentiva di parlare da un capo all’altro del filo all’interno del teatro, fra due addetti ai servizi di palco per potersi coordinare meglio. Cosa mancava a tutte queste prime pionieristiche esperienze, per diventare la cosa dirompente che conosciamo oggi, in grado di cambiare per sempre la storia del genere umano? Come ha capito ad esempio anche il giovane Silvio Berlusconi quando sperimentava la Tv di quartiere a Milano Due, la chiave stava tutta nella capacità di far rete. Qualcuno, magari anche con l’aiuto di apposite tecniche psicologiche, dovrebbe provare a spiegare questa cosa della rete a chi si occupa di ciclabilità.
Perché sinora, anche se pare davvero strano e curioso a pensarci un istante, la crescita del trasporto su due ruote a pedali in tutta la sua storia si connota sostanzialmente come parassita di quella automobilistica. Dove altro si muove efficacemente e continuamente la bicicletta, se non sul medesimo sistema a rete concepito ad hoc per i veicoli a motore? Certo, chiunque potrebbe citare le piazze tradizionali lastricate, o le alzaie dei canali, o i viottoli che attraversano un tratto di campagna tra un casolare e la chiesa parrocchiale, ma ciò che consente davvero (e impropriamente) alla ciclabilità di abbozzare un sistema a rete sono proprio le strade per le automobili: non si scappa. E allora a pensarci bene non ha gran senso tutto l’azzuffarsi arruffando le penne sull’auto nemico numero uno della sicurezza, sulla indispensabilità di una (piuttosto improbabile) rete parallela dedicata di piste, sulla gestione degli interfaccia a colpi di sottopassaggi, passerelle, ponticelli, rampe …
Invece di sognare ad occhi aperti tutta la miriade di opere pubbliche e relativi appalti delle piste ciclabili, sarebbe molto meglio provare a volare più alto, e pensare ad obiettivi davvero generali. Che cosa ostacola una mobilità ciclabile sicura ed efficace? Proprio il fatto che la rete su cui si è investito mastodonticamente per un secolo è pensata per qualcos’altro, e che le culture tecniche della progettazione continuano a ragionare coi medesimi criteri. Basta fare un piccolo esempio: quante volte ci è capitato di pedalare lungo una strada extraurbana, con la relativa scomodità e rischio del trovarsi tra il traffico e il canaletto di scolo laterale? Moltissime volte. E particolarmente frustrante è il caso in cui invece ESISTE UNA PISTA CICLABILE ma noi non possiamo accedere. Perché chi l’ha progettata e realizzata pensa e agisce per automatismi stravaganti. Ad esempio ignorando del tutto e allegramente l’idea di rete sottesa a quella di circolazione.
Basta descrivere com’è fatta, questa pista ciclabile irraggiungibile, per capirsi al volo. Assomiglia moltissimo alle antiche ferrovie minerarie, perché esercita solo un servizio di spola fra un punto e un altro. Oppure a una pista di prova per auto da corsa, totalmente isolata da resto. Questa pista ciclabile si imbocca solo ed esclusivamente alle due estremità, lontane anche un chilometro o quasi, e spesso gli imbocchi non sono neppure segnalati, con l’idea balzana che la usino solo i soliti noti. Scorre per tutte le sue centinaia di metri rigidamente separata dalla strada (eh, la nostra sicurezza, si sa), da un dislivello, da un fosso, da una siepe o staccionata impenetrabile, spesso da tutte e tre le cose insieme. Chi per distrazione o scarsa conoscenza dei luoghi non becca al volo l’imbocco giusto, è tagliato fuori, finito, definitivamente consegnato alla strada dove per il ciclista evangelicamente parlando non ci sono che tenebre e stridore di denti. Ha senso?
Un altro esempio simile, anche se apparentemente opposto, è quello del circuito autoreferenziale, perfetta replica demente dell’anello di prova per auto da corsa. Lo si trova di frequente attorno ai grossi complessi commerciali o produttivi, e consiste di una pista ciclabile ben disegnata, segnata, pavimentata, che appunto copre il perimetro attorno all’edificio o insieme di edifici. Se quella parallela alla strada extraurbana era inaccessibile per via del fosso o recinzione, questa attorno all’edifico commerciale o produttivo pare lì a disposizione, comoda, confortevole. Ma prima bisogna arrivarci davanti, e come arrivarci davanti non ce lo spiega nessuno. Così come nessuno ci spiega a che diavolo serva girare tutt’attorno a quell’edificio per ritrovarsi dopo alcuni minuti al punto di partenza, manco fossimo i personaggi di J.K. Jerome sperduti nel labirinto di Hampton Court. Da quale logica perversa nascono questi aborti?
Facile intuirlo: da un approccio burocratico e campato per aria, che non considera mai l’idea della circolazione, della mobilità, della comunicazione, ma solo la realizzazione di opere, il calcolo di costi e materiali per le tratte, e non il motivo per cui vengono realizzate, ovvero andare da qualche parte provenendo da un’altra. Dicono che nei paesi dell’Europa nordica sia piuttosto frequente vedere membri della famiglia reale che si spostano pedalando per le vie della città. Forse è quello l’unico modo perché le cosiddette classi dirigenti si formino una vaga idea del mondo di cui poi decidono le sorti. Magari introdurre negli statuti della pubblica amministrazione l’obbligo di diventare utenti diretti dei servizi amministrati potrebbe aiutare. O no?