«A cosa potrebbe assomigliare un fantasma del giorno d’oggi? … Un viso fumoso, caratterizzato dall’ansia famelica del disoccupato, dall’irrequietezza delle persone inutili, dalla tensione nervosa degli operai metropolitani … dall’opportunismo incallito del crumiro, dal lamento aggressivo del mendicante e dal terrore represso dei civili bombardati. … Non penso che potrebbe apparire bianco, o etereo, e neppure frequentare i cimiteri. E non ululerebbe di certo: emetterebbe piuttosto un mormorio inintelliggibile …». (*)
Dopo più di vent’anni, mi ricordo ancora di quel racconto. Ero partito da casa prima dell’alba, con due grosse borse di vestiti e quasi nulla nella testa. Dopo qualche ora di noia sulle piattaforme buie e sui sedili delle corriere, l’atrio illuminato al neon di una stazione mi era sembrato meraviglioso. Il sole era alto, faceva caldo, e il bar offriva un sacco di opportunità. Il chiosco dei giornali, invece, offriva pochissime opportunità, e mentre il mio treno sbuffava qualche marciapiede più in là, avevo raccattato in fretta un quotidiano nazionale e un libro con una bella copertina.
Non sospettavo, allora, che esistessero gruppi di studio finanziati dallo stato per capire quale copertina, o tipo di carta, attirasse di più il lettore distratto. Comunque, anche se non ne sapevo niente, mi ci trovai immediatamente bene, dentro a quella trappola: il libro era molto più attraente del giornale, e per questo decisi … di leggermi tutto il giornale.
Il treno arrivò in città nel tardo pomeriggio. Forse perché mi ero alzato molto presto, forse perché ero un po’ stupido e mi ci volevano ore per leggere un articolo, il mio libro era ancora infilato nella tasca esterna di una borsa. Avevo trascorso l’ultima mezz’ora del viaggio con la pancia appoggiata al bordo d’alluminio del finestrino, piegato in due come uno sprovveduto col mal di mare, guardando i tetti delle case e le file di luci gialle e rosse nelle strade. La fiaschetta di whiskey e il panino imbottito erano piuttosto cari, nell’unico chiosco aperto fuori dalla stazione, ma ormai ero stanchissimo, e non vedevo l’ora di fermarmi, di raccogliere i pezzi che avevo lasciato qua e là lungo il viaggio.
Avevo una mappa della città, e riuscii a risparmiare i soldi del taxi trascinando le mie borse per parecchi isolati, fino all’insegna della pensione. Un negozietto traboccante di scritte, sul marciapiede opposto, arricchì i miei generi di conforto con un cartone di birra, un sacco di patatine, e una confezione gigante di tovagliolini. Il portiere mi accompagnò su per le scale, infilandomi in mano senza troppe cerimonie la chiave e un paio di foglietti. Sulla porta della camera, mi indicò senza un parola l’ingresso del bagno, qualche metro più in là, e poi sparì dietro l’angolo del corridoio.
Sistemati gli abiti e le poche altre cose, guardai senza troppo interesse alla finestra, illuminata da un luce giallastra e intermittente, e mi sdraiai quasi subito sul letto. Mentre la coperta si riempiva di briciole di pane e patatine, spalancai finalmente il libro che avevo comperato tante ore prima, attirato dal colore della copertina. Avevo alzato un po’ il gomito, e così non feci gran caso a quelle storie, certamente misteriose ma non al punto di fare paura. Era piuttosto tardi, quando mi accorsi che avevo un gran mal di testa, e che continuavo a ripensare al passo che diceva: ‘… non ululerebbe di certo: emetterebbe piuttosto un mormorio inintelliggibile …’. Aprii la finestra per prendere un po’ d’aria: sudato, spaventato e disorientato com’ero. C’erano un grande silenzio e una grande luce gialla intermittente, interrotti solo da una piccola luce viola in fondo alla via, e da una debole musica che veniva dalla stessa direzione. Respirai l’aria, guardai la luce, e ascoltai la poca musica che si riusciva ad ascoltare. Dopo qualche minuto, con il mal di testa intatto e la paura scomparsa, mi infilai in qualche modo a letto.
Non ero partito da casa, con due borse e quasi nulla nella testa, solo per bere e mangiare porcherie. Il lunedì mattina iniziai il mio nuovo e stimolante lavoro: correggere le stupidaggini di chi era più importante di me. Ero una specie di cribbio, o di esorcista, che prendeva in mano pagine impure e ne scremava via via ridondanze ed ambiguità. Mi arrivavano noterelle che dovevo gonfiare, o ridde di ripetizioni da ricondurre all’ovile. Davanti a quei fogli mi sentivo per un attimo onnipotente, con la città ai miei piedi. Tracciavo segnacci rossi sui periodi inutili, o sugli errori di storia, grammatica, toponomastica. Mi avevano dato qualche scaffale, che avevo quasi subito riempito di enciclopedie, mentre sulla parete libera di fianco alla finestra avevo sistemato una mappa della città. Così, durante il giorno, credevo di capire tutto: guardavo dentro quella ragnatela di strade, correggevo gli errori dei grandi opinionisti, e mi sembrava di tenere il mondo sul palmo della mano.
La sera, invece, camminavo fino alla pensione, e le strade buie tornavano a diventare un mistero. Qualche volta, mentre le giornate si allungavano e le sere diventavano meno fredde, tentai di passeggiare negli angoli che la mappa e i grandi opinionisti lasciavano scoperti. Erano posti bellissimi, per un turista, ma ci incontravo solo gente triste, rassegnata, qualche volta minacciosa. Mi consolava solo, chissà perchè, passare le sere in quel localino con l’insegna viola, che avevo intravisto dalla finestra la sera del mio arrivo. Restavo quasi sempre da solo, a bere un bicchiere, a leggere un libro, senza fare gran caso alla musica. Me ne accorsi solo quando smisi di sentirla.
Era arrivata l’estate, e dopo aver finito di girare per i ponti, le alzaie, i vicoli, non avevo più niente da scoprire. Continuavo a correggere gli strafalcioni degli altri, ma non mi sentivo più tanto baldanzoso: non era tanto importante, distinguere l’una dall’altra tante strade sporche e uguali, o tante giunte municipali sporche e uguali. In agosto, per un paio di settimane, tornai a casa dai miei, provando una grossa sensazione di sollievo mentre ascoltavo le rane nel fossato, o la campana suonare al mattino presto.
C’era anche musica, al paese. Simpatica e rilassante, come non ne sentivo da mesi. La ascoltavi per strada, dai juke-box nei ritrovi dei ragazzi, o dagli altoparlanti delle chiese la domenica mattina, o dal piccolo palco ai giardini nel pomeriggio, quando suonava la banda.
Dopo essermi abituato alla varietà di cucine regionali ed esotiche della città, la cucina di mia madre era riuscita ad annoiarmi in un paio di giorni. Per la musica, invece, provavo un insolito entusiasmo: passeggiavo di fianco alle vetrine solo per ascoltarla, o mi sedevo sulle panche sgangherate di fianco al campo di basket, ad origliare le prove della banda municipale, la sera.
La musica non aveva mai significato molto per me. L’avevo, sempre, accettata come un rumore di fondo più o meno gradevole. La banda in primavera e in estate, mischiata ai grilli, alle ranocchie, e al ronzio delle zanzare nel buio della stanza. Il juke-box e l’organo della chiesa in autunno e d’inverno, insieme al gracchiare delle anatre, allo scricchiolio del ghiaccio, al silenzio della neve attorno a Natale. Adesso, capivo meglio il senso di tutta quella musica … e pensandoci bene quella musica mi piaceva ancora meno.
Senza troppi rimpianti, mentre l’estate volgeva al termine, riempii due grosse borse di vestiti, e dopo qualche ora di noia sulle piattaforme buie e sui sedili delle corriere, l’atrio illuminato al neon di una stazione mi sembrò meraviglioso.
Potevo permettermi un taxi, per tornare alla pensione, ma decisi che anche con le borse era molto meglio passeggiare. A dire il vero, avevo solo una gran voglia di rivedermi per bene il quartiere, di notte, prima di trasferirmi nell’appartamento che avevo affittato, giù in centro.
Aveva piovuto, e per evitare il rischio di impantanarmi allungai la strada, seguendo le vie più illuminate fino all’insegna viola del CORNER ISLAND. La musica usciva sul marciapiede, e guardai infastidito verso il ponte della ferrovia quando un treno rese impossibile ascoltare qualsiasi altra cosa. Un paio di amici, sperando in una bella festa d’addio a mie spese, mi trascinò fino ad un tavolo di fianco alla finestra, piuttosto lontano dall’orchestra, dove rimasi a raccontare storielle sulle mie vacanze per un paio d’ore.
C’era la finestra spalancata, e la musica si mischiava continuamente ai rumori della ferrovia, alle auto in manovra nel vicolo, ai passi e alle risate sul marciapiede. Quando quei due se ne andarono a scroccare altrove, rimasi solo, e per la prima volta ascoltai. Sentivo la batteria accelerare e rallentare il ritmo, il contrabbasso passeggiare su e giù con qualche sbandata, il pianoforte e il sax affacciarsi discreti o prepotenti, come a sbirciare o a lamentarsi per il chiasso. Il carrello da supermarket di un senzatetto venne a sbattere contro il muro, proprio sotto la finestra. Mentre quello imprecava, raccogliendo rumorosamente i suoi averi da terra, mi tornò ancora una volta in mente la frase: ‘… non ululerebbe di certo: emetterebbe piuttosto un mormorio inintelliggibile …‘.
Passò un treno, una famiglia iniziò a litigare al terzo piano, dalla strada principale fischiò la sirena di un allarme. Mi venne in mente che quella, in fondo, era la città che parlava. Mi venne in mente, anche, che quello non era un discorso, e nemmeno un canto … e nemmeno un ululato. Piuttosto, un mormorio inintelliggibile.
Con la saggezza che puntualmente si impossessava di me dopo il terzo bicchiere, sentenziai a fil di labbra: «Come le antiche danze attorno al fuoco per scacciare la paura delle tenebre, anche questa musica è una specie di esorcismo contro il rumore della città. Tra l’altro, anche qui si ricavano suoni da parti d’animale: la pelle tesa sui tamburi, o le viscere tese nelle corde, o le zanne d’elefante sui tasti del piano …».
Travolto dall’entusiasmo, scoprii qualche centimetro di pelle sopra l’orologio, per toccare con mano la materia prima della mia intuizione. Prima della mia, però, un’altra mano atterrò sul piccolo appezzamento: «Niente di più sbagliato, se non sono indiscreta. Questa musica nasce proprio dal rumore della città, e gli strumenti sono più o meno gli stessi della musica classica. Altro che pelli d’animale, budelli di capra, o schifezze del genere. Comunque, se ne vuole discutere, si giri dalla mia parte e ordini qualcosa da bere. Anche se non mi sembra che ne abbia un gran bisogno».
Prima di confessarle che non capivo assolutamente nulla di musica, riuscii a scoprire che Vera lavorava in un giornale a pochi passi dal mio ufficio, e che conosceva un mucchio di posti per trovare mobili a buon mercato per la mia nuova casa. Un’ora più tardi, la accompagnai al parcheggio dei taxi, e ritornai alla pensione per l’ultima notte.
Sdraiato sopra le coperte, non riuscivo a prendere sonno, e per ingannare il tempo ripescai da uno scatolone già pronto per il trasloco quel vecchio libro. Scorsi in fretta le pagine, fino a trovare: «A cosa potrebbe assomigliare un fantasma del giorno d’oggi? … Un viso fumoso, caratterizzato dall’ansia famelica del disoccupato, dall’irrequietezza delle persone inutili, dalla tensione nervosa degli operai metropolitani … dall’opportunismo incallito del crumiro, dal lamento aggressivo del mendicante e dal terrore represso dei civili bombardati. … Non penso che potrebbe apparire bianco, o etereo, e neppure frequentare i cimiteri. E non ululerebbe di certo: emetterebbe piuttosto un mormorio inintelliggibile …».
Più che altro per darmi un contegno, alzai il polso sinistro, per guardare l’ora. Faceva caldo, ma sotto la peluria del braccio, lontano dalla luce e dalla musica del CORNER ISLAND, il segno del freddo e della paura appariva, inequivocabile. Forse, con Vera o con qualcun altro, ne avremmo parlato nei giorni successivi, di quella pelle d’oca.
A pensarci bene, anche la pelle d’oca era pelle d’animale. Nuovi orizzonti si aprivano al dibattito.
(*) Da: Fritz Leiber, «Smoke Ghost», in Unknown Worlds, ottobre 1941; Traduzione italiana di G.Zurlino: «Fantasma di fumo», in Neri araldi della notte, C.E.L.T. Piacenza 1979, pp. 37-53.