La cronaca e il dibattito sulla fruibilità ciclabile dei nostri territori, urbani e non, si riempiono sempre più delle notizie sugli incidenti, di solito anche molto gravi, occorsi sempre più o meno per lo stesso motivo: il contatto fra un ciclista e un automezzo in un ambiente pensato esclusivamente per le esigenze di quest’ultimo, e gestito dal conducente con una mentalità monopolista, del tipo qui ci sto solo io. Inevitabile che il risultato immediato, la reazione spontanea a questi fatti, si concretizzi nella richiesta di piste ciclabili o simili, e nella a volte positiva reazione delle amministrazioni locali, che in un modo o nell’altro si attivano per iniziare a riorganizzare i propri spazi in quel senso. Ma come tutte le reazioni spontanee e automatiche, anche questa non deve essere scambiata per una soluzione del problema, al massimo una piccola terapia intensiva preliminare d’emergenza, nulla più. Perché anche solo circoscrivendo la questione (come di fatto non è) alle due ruote a pedali, va sempre e comunque considerato l’intero contesto spaziale e sociale dentro cui si aggirano.
Prestazionalità
Uno dei primi ostacoli psico-tecnico-gestionali evidenti che incontra questo adeguamento, è la rigidità di progettisti, costruttori, amministratori, anche i meglio intenzionati. Mettiamoci anche, nel mucchio, gli stessi ciclisti quando per farla facile rivendicano spazi sicuri solo in forma di piste ciclabili, come se fosse quello l’obiettivo. Si innesca così, come dimostrano i fatti, un adeguamento delle infrastrutture a volte grottesco, in cui il tipo di trasformazioni, le culture di progetto, i cantieri, tempi e modi di completamento, riflettono un abisso di inadeguatezza. Caso tipico, certo non unico e neppure il peggiore, quel tipo di corsia ciclabile “da casello a casello” evidentemente ispirata alle corsie per le auto che fiancheggia e complementa, di solito costosissima, e che pare rispondere al solo scopo di portare un veicolo a pedali dal punto A al punto B, senza domandarsi mai cosa farà prima, durante e dopo quel segmento. Unica risposta a questa contraddizione, di solito, è quella di aspettare tempi e risorse necessari per proseguire nella costruzione di una rete parallela speculare, che aggiunge via via i punti C, D, E, così all’infinito, in una specie di corsa incomunicante fra motore a scoppio e forza muscolare. Una sciocchezza: occorre chiedersi prima di tutto chi va a fare che cosa dove, e solo in seguito stabilire eventualmente percorsi, e relative opere, se proprio necessarie.
Non il trasporto, ma la vita
Una delle grandi opere per la ciclabilità più note e discusse, è il famoso piano di Boris Johnson e Norman Foster, di percorsi in quota nel centro di Londra. A parte il costo stratosferico di un intervento del genere, che magari si potrebbe anche giustificare con motivazioni turistiche, di immagine o simili, la critica immediata che si merita è il suo riferimento a uno stile di vita a dir poco fantozziano, ritagliato, fotocopiato dal modello di metropoli autostradale sviluppato da Robert Moses e affini per decenni nel corso del ‘900. Un modello in cui si va dall’origine A alla destinazione B, da casa all’ufficio, manco fossimo tutti dei topolini da laboratorio, e oltretutto un modello che discendendo dall’automobile ne ricalca e amplifica i difetti (ad esempio non esiste un buco nella pista ciclabile sospesa dentro cui ognuno dei pendolari può lanciarsi per raggiungere direttamente il divano del proprio soggiorno). Il riferimento al Ragionier Fantozzi Ugo evoca però anche la signora Pina, la figlia Mariangela e tutti gli altri luoghi e momenti in cui si sviluppa l’infinita saga: ci hanno mai pensato i tecnocrati miopi delle piste ciclabili contemporanee? Certo che no, per la cultura corrente l’importante è attivare interessi, investimenti, mercati, mica risolvere problemi.
Discriminazione di genere orrenda perché inconsapevole
Solo per restare alla signora Pina, ovvero alla cosiddetta altra metà del cielo, spesso si osserva che una migliore accessibilità ciclabile potrebbe far tanto per la qualità degli spazi e dei tempi urbani dalla parte delle donne. Scuole meno circondate dall’abituale micidiale muraglia di lamiere, negozi e servizi non assediati dalle seconde e terze file, ambienti pubblici e verde resi decentemente accessibili dall’eliminazione dell’ubiquo veicolo a motore, in movimento o in sosta, e dei suoi rivendicati spazi, legali o abusivi. E anche qui spiegazioni e rivendicazioni sollevano immediatamente la panacea: più piste ciclabili, risposta non solo parziale, ma a quanto pare concettualmente sbagliata, come dimostrerebbero (oltre al buon senso) recenti ricerche dell’Università della California. Si è partiti dall’osservazione di un fatto oggettivo: più o meno a parità teorica di piste ciclabili, donne americane e donne olandesi si spostano in bicicletta assai diversamente, e la spiegazione è “culturale”. Si badi bene, culturale, non psicologica, e quindi esce di parecchio da propensioni solo individuali, da percezioni soggettive eccetera. E ovviamente resteremmo qui, ora, sospesi nel fondamentale ma a-spaziale campo delle diseguaglianze, della discriminazione di genere, se non tornassimo per chiudere sul solido terreno della città. Perché se oltre a un compagno meno propenso a delegare cura dei figli ed economie domestiche sul groppone della signora, ci fossero anche strutture più adeguate, la cosa gioverebbe, alla mobilità a pedali, alla qualità della vita delle donne, alla qualità urbana in genere, oltre che di genere. Il resto sono dettagli tecnici e amministrativi, una volta capito di cosa stiamo parlando: di sicuro non di spostare un topo da laboratorio dal punto teorico A alla destinazione B tra due cordoli di cemento su una superficie verniciata di rosso.
Riferimenti:
University of California Transportation Center, AAVV, Honey, Can You Pick-Up Groceries on Your Way Home? Analyzing activities and travel among students and in non-traditional households, rapporto di ricerca, agosto 2014 (il link scarica direttamente il pdf)