Periferie dell’architettura

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Foto F. Bottini

Esiste una variante dell’architettura moderna che si potrebbe definire a sua insaputa, perché proprio non sa di esistere. Una quarantina di anni fa il critico Charles Jencks decretava la morte dell’architettura moderna, stigmatizzando le cariche di dinamite che avevano fatto implodere gli stecconi popolari razionalisti di Minoru Yamasaki a St. Louis, e scatenava in buona sostanza il furore represso di chi quei casermoni li aveva sino a quel momento tollerati sperando nel sol dell’avvenire. Seguaci di Jane Jacobs senza averne mai letta una riga o sperimentato le sensazioni urbane, o semplici cultori della campagna ignari del fatto che loro stessi la stavano trasformando nel micidiale sprawl, che del mondo rurale si sarebbe limitato a conservare le tendenze politiche conservatrici e l’atteggiamento localista provinciale, quello che Marx e Engels chiamavano cent’anni prima idiotismo della vita rustica. Tutti questi signori, nelle loro evoluzioni e circonvoluzioni sino ai nostri tempi, sono diventati a proprio modo parte della cultura urbano/architettonica dominante: l’antitesi senza la quale è impossibile la sintesi.

Sono loro, in buona sostanza, opponendosi a gran parte delle trasformazioni spaziali che riescono a capire e concepire come tali, ad alimentare poi le scorribande neobarocche a colpi di ooooh! aaaah! dei pensosi progettisti paludati in nero d’ordinanza. Quelle montagne di sperimentazioni ed espressioni (nel senso letterale, come strizzare un tubetto di dentifricio, ex-primere) che piazzano enormi porzioni di spaghetti transustanziate sopra i sedili di un’arena sportiva, o ciclopiche tendine da doccia che, come per esempio nel caso tragicomico della nuova Fiera di Milano, dovrebbero nascondere l’impudicizia di un desolato universo di sporchi parcheggi per automobili e scatolotti uso capannone. E ascoltarli poi, i pensosi nero togati, quando ci irrorano della propria filosofia, secondo cui proprio all’ombra di quegli aggeggi che hanno chissà perché concepito e pure realizzato, ci starebbe la città. Beh: la città è una cosa troppo seria perché la possiamo affidare a un architetto. La straordinaria intuizione degli antenati dei tizi attuali, era che farsi macchina, nella civiltà delle macchine, sarebbe stato uno strumento di conoscenza e governo del moloch scatenato dalla tecnica e dalla cupidigia umana che la sfruttava. Poi però il giocattolino è scappato evidentemente di mano.

Restano però, a mantenerli in vita nel ruolo di ridicoli profeti urbani, proprio i loro antitetici oppositori. Quelli che No. Quelli che guardiamo indietro. Quelli che non gli ridono in faccia, ai pensosi profeti farlocchi, ma li prendono sul serio, come se contassero qualcosa ammucchiando pile di materiali che certo ti possono crollare in testa, ma tutto lì. La città sta da un’altra parte, ha traslocato da un pezzo, loro sono diventati come ‘O muorto che pparla. E pensare che basterebbe fermarsi un istante (come invitano a fare, senza evidentemente crederci, Quelli del No) per capirlo. L’identità urbana, o meglio urbana-sociale del nostro tempo, non abita più in cima alle torri di un Gary Cooper guarnito di papillon ne La Fonte Meravigliosa, o nei sovrappassi organico-reticolari da dodici corsie fra uno scatolone al neon e l’altro. Sta invece in bilico fra il vivo di quelle corsie, e lo schermo dell’aggeggio che teniamo sempre in tasca o in mano. La città dei flussi, in altre parole, vive e si identifica, oggi, proprio nel movimento, più che nella staticità dei contenitori.

Le architetture, nuove o vecchie, belle o brutte che siano, assumono o perdono senso esclusivamente nel loro rapporto con la centralità dei flussi, e vanno considerate solo in questa prospettiva. Il nimbie del terzo millennio è quell’intellettuale desueto che si incaponisce nella critica al cadavere della metropoli novecentesca, ergendosi a difensore di una democrazia espressa in indici urbanistici, metri cubi su metro quadro. E tutti quelli che gli si accodano speranzosi di raccattare qualche briciola, invece di provare a ricondurlo alla ragione, magari alzando la voce.

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