Quanta parte dell’urbanistica moderna delle origini si riassume sostanzialmente nel progetto del «viale della Stazione»? Se andiamo a guardare carte e piani, storie locali o grandi casi emblematici nazionali e internazionali, a partire dallo sventratore Haussmann e giù giù dai suoi meno noti ma altrettanto spietati esegeti, fino alle riflessioni sulle prospettive monumentali, i diradamenti, l’emergere del conservazionismo critico, c’è tanto, tantissimo, focalizzato su quella grande arteria che da qualche parte della città esistente punta sul nuovo simbolo di progresso ed espansione. Lo fa a volte aprendosi la strada fra ciò che già di urbano esiste, ma non corrisponde al modello condiviso, più spesso tracciando teoricamente la via a ciò che verrà, nelle forme classicamente lineari di una Via Indipendenza a Bologna, dalla cattedrale nel cuore medievale verso la pianura aperta della crescita ininterrotta, o nei modi più tortuosi di Milano col suo eterno «riordino ferroviario» a cui corrispondono ufficiali o ufficiose grandi varianti urbanistiche e riallineamenti di equilibrio urbano.
Quel che è certo, è sicuramente la centralità e rappresentatività di quell’asse e dei quartieri che su di esso si affacciano, vuoi nelle funzioni rappresentative delle classiche istituzioni pubbliche o finanziarie o degli alberghi, vuoi nelle pur indispensabili attività di complemento commerciali e si servizio. Ivi comprese quelle di bassa e bassissima fascia, come i giardini della stazione da sempre e ovunque classico luogo di bivacco per sfaccendati o senza fissa dimora, le pensioncine a basso costo a qualche isolato dall’albergo di lusso, traffici più o meno sordidi nelle strade trasversali. Ma l’una cosa complementa l’altra, anche nel modello ideale, si sa che le cose vanno così perché non potrebbero andare diversamente (è accaduto per esempio a Milano nelle polemiche dell’ultimo discutibile blitz poliziesco a controllare i bighellonanti in quel «portale simbolico di ingresso alla città»). Tutto cambia, però, quando le spinte del tutto naturali che da sempre legano stazione ferroviaria ed espansione urbana non sono soggette ad alcuna gestione, ad alcun governo vagamente adeguato, ovvero quando la linea di forza socioeconommico-territoriale e identitaria, che abbiamo chiamato teoricamente «viale della stazione», riesce ad esprimersi soltanto in modo confuso, perverso, o la pubblica amministrazione si accorge troppo tardi e male del pasticcio sedimentato nel tempo.
Con risultati tali da dimostrare che in fondo non hanno proprio tutti i torti, quei teorici della «bonifica architettonica delle periferie», se non altro sul versante dell’immagine, tanto importante al giorno d’oggi. Accade a Pioltello, cintura metropolitana intermedia milanese, con una stazioncina passeggeri di importanza locale sommersa nell’enormità di uno scalo industriale-commerciale, dove di quel viale della stazione (forse, anzi probabilmente, per totale storica incuria) mai si è vista traccia, lasciando che gli uffici tecnici municipali per generazioni gestissero nel più automatico burocratismo per generazioni la pur corposa crescita residenziale e di insediamenti produttivi a cavallo della linea ferroviaria Milano-Brescia. Di fatto, attorno a quella stazione, senza una piazza, senza un viale, senza uno straccio di asse di sviluppo che tenesse in conto la barriera ferroviaria, l’edificio, le potenzialità e vincoli, tutto è cresciuto a casaccio, o se vogliamo usare sarcasticamente un termine, «a regola d’arte», come vuole il cosiddetto straccionissimo mercato, un po’ speculativo un po’ goffamente ignorante.
A guisa di viale della stazione, del tutto inesistente in ogni forma, oggi ci sono due vie, una parallela ai binari e che si perde verso la «no man’s land» del quartier generale Esselunga ai confini comunali, un’altra più propriamente urbana (un po’ scostata rispetto alla classica posizione di queste arterie), che più assomiglia se non altro per orientamento geografico al modello canonico. Ma ahimè la somiglianza finisce lì, come pure l’imperfetta ricerca di equilibrio tra quelle funzioni civiche e di servizio, e quelle di tono minore o marginali, visto che una edificazione speculativa ha ammucchiato addosso alla barriera ferroviaria quello che, a parte le dimensioni ovviamente molto contenute dato il contesto, altro non è che uno slum, ovvero una serie di fabbricati con alloggi prevalentemente in affitto, e che via via si è popolato di immigrati, con tasso di affollamento evidentemente assai elevato, e assai vistoso uso diciamo così «anomalo» dello spazio pubblico. Detto per altri versi, è un po’ come se tutte le attività di basso profilo e marginali tipiche della zona della stazione, esistessero senza il contrappeso di quelle più qualificate che ci sono normalmente.
Ed è qui che nasce probabilmente l’equivoco percettivo, quando una sparata razzista («in un bar di quella via stanno inneggiando alla strage di Manchester») invece di essere liquidata per quello che era, viene prima ripresa da una rete televisiva, poi circola in modo virale, fino ad aizzare dei dilettanti terroristi locali, che danno fuoco al bar nel giro di poche ore. L’occasione da quel punto di vista pareva troppo ghiotta: lo slum multietnico e peccatore da purificare col fuoco, e pure una casbah assai facile da infiltrare, visto che in realtà non esiste, visto che si tratta solo di un viale della stazione mancato, nessuna enclave di profondo disagio o chissà che, un posto come un altro, magari con qualche problema, ma dove non ce ne sono? Val la pensa sottolineare come si sia replicata, con poche varianti, la medesima sequenza automatica del cortocircuito spazio-società-devianza da colpire violentemente, già vista alcuni anni fa dall’altra parte dell’area metropolitana, a Rozzano, dove un episodio di «degrado sociale» aveva innescato incredibili polemiche politiche sugli urbanisti comunisti capaci solo di progettare luoghi infernali.
Qui alla stazione di Pioltello, pare difficile trovare capri espiatori tanto a portata di mano, ma se di urbanistica vogliamo parlare quella che si nota di più è la sua evaporazione da decenni, praticamente da sempre, se tutta la zona attorno allo scalo pur «urbana» che più urbana non si può, sul versante della saturazione edilizia, assomiglia maledettamente a certe stazioni di interscambio perse nella campagna: un parcheggio qua, un sottopassaggio là, un palo un po’ più alto degli altri a fare da bussola per non perdersi. Se quell’idea piuttosto balzana novecentesca di plasmare una società ideale infilandola dentro contenitori edilizio-urbanistici pedagogicamente corretti era certamente velleitaria a dir poco, anche l’ignorare pervicacemente la pur ovvia consequenzialità, tra forme della città e relazioni identità che ci si sviluppano, suona proprio colpevole. E quel coacervo di frammenti urbani e sociali sbattacchiato tutto attorno alla piccola stazione ferroviaria, dove anche un po’ di vitalità volgarotta riesce a suscitare sospetti e paure incredibili, pare un manifesto di quel che non si dovrebbe mai fare, o meglio un manuale in negativo, ricchissimo di pessime esemplari pratiche una accanto all’altra. Ci si potrebbero tenere dei seminari estivi, solo a trovare un po’ d’ombra.
(testo pubblicato nelle Opinioni di Eddyburg, 1 giugno 2017)
(Da «IL GIORNO»)
Pioltello (Milano), 25 maggio 2017 – Riflettori accesi su Pioltello: la città più multietnica d’Italia condannata senza appello. È bastata una frase di troppo pronunciata in una trasmissione a innescare la valanga. Tutto è iniziato con la segnalazione, andata in onda in diretta televisiva. Un pioltellese avrebbe raccontato di aver sentito alcuni cittadini stranieri esultare in un bar di Seggiano di fronte alle immagini della strage di Manchester: una frase sparata nel mucchio che rischia di generare un pericoloso clima di intolleranza. E la città è indignata.
“È partito tutto da una segnalazione razzista e il nostro bar è finito sotto torchio. È una situazione assurda. Questa mattina (ieri per chi legge, ndr) abbiamo ricevuto controlli da tutte le forze dell’ordine: sono arrivati gliagenti dell’antiterrorismo, i carabinieri e la polizia”, racconta Mimmo Sidella del Marrakech Lounge Bar, il locale finito sotto accusa. “La notizia è falsa. I carabinieri hanno individuato la fonte: si tratta di un uomo che scrive sui social dei post che inneggiano al razzismo, siamo pronti a denunciarlo”.
“L’altra sera ero qui dentro e posso testimoniare che non c’è stato nessun festeggiamento – dice Mimmo Sidella -. Trasmettiamo solo video e trasmissioni musicali, non telegiornali. A Seggiano convivono tante etnie e religioni diverse: se qualcuno avesse davvero esultato per la strage, gli altri stranieri gli sarebbero saltati addossi”. Il clima che si respira ultimamente è pesante. Tanto che ieri mattina un gruppo di cittadini islamici ha organizzato un flash mob per la pace in via Mozart, al quartiere Satellite, dove c’è la più alta densità di musulmani.
“Non vogliamo che venga infangata l’immagine di Pioltello – racconta Ali Sajid, promotore dell’iniziativa di protesta -, non permettiamo a nessuno di provocarci con accuse false. E il dubbio che qui esista l’Isis e soltanto una provocazione. L’Islam è pace: il Corano dice che chi uccide un uomo, uccide tutto il mondo. Non si può generalizzare, chi si fa esplodere non è un vero musulmano: è un fanatico”.
La gente ha voglia di normalità. “Vivevo a Manchester quando era accaduto l’attentato di Londra – continua Ali Sajid – e ricordo bene la rabbia di alcuni inglesi, avevano paura e se la prendevano con tutti noi stranieri. Qualcuno lo faceva con violenza. Non voglio ripetere quella brutta esperienza. Il rischio è di scatenare l’intolleranza. A Pioltello abbiamo due moschee, una al quartiere Satellite e l’altra a Seggiano, e non è mai accaduto nulla di strano o pericoloso. Sono controllate, abbiamo migliaia di fedeli che ogni venerdì si riuniscono per la preghiera”.