«È necessaria una nuova teoria per superare la distanza tra le idee di città attuali e lo spazio fisico-sociale a cui dovrebbero applicarsi»1 e il problema apparirà più evidente qualche anno dopo, quando la battaglia intellettuale urbana vedrà il ritrarsi delle truppe del positivismo logico e la discesa in campo in loro vece dei marxisti. Come tutti sappiamo bene, gli anni ’70 vedono una notevole ripresa, o per meglio dire una vera e propria esplosione, degli studi marxisti. E la cosa non può non interessare da vicino gli ambiti fortemente correlati della geografia urbana, della sociologia, dell’economia, dell’urbanistica. A dire il vero Marx, al pari di altri economisti neoclassici, mostrava un deciso disinteresse per i problemi di organizzazione spaziale, nonostante Engels avesse dato illuminanti contributi sulla distribuzione delle classi sociali nella città di Manchester in epoca vittoriana. Oggi gli allievi di questa scuola tentavano religiosamente di distillare goccia dopo goccia dai sacri testi, nel tentativo di estrarne la sostanza in grado di produrre la nuova ricetta teorica di cui si lamentava l’assenza. Un lavoro terminato verso metà anni ’70, quando arrivo la vera e propria alluvione di nuovi contributi. Che traevano origine da varie fonti e discipline: in Inghilterra i geografi David Harvey e Doreen Massey provavano a spiegare crescita e trasformazioni urbane in termini di circolazione del capitale; a Parigi Manuel Castells e Henri Lefebvre sviluppavano teorie sociologiche2.
Nelle infinite discussioni che ne seguono tra i critici marxisti, una in particolare riguarda il ruolo dello stato3. In Francia, Lokjine e altri sostengono che esso si esprima soprattutto attraverso strumenti quali la programmazione macro-economica e i correlati investimenti infrastrutturali, e più direttamente sostenendo gli investimenti produttivi del capitale privato. Per contro Manuel Castells ritiene che la funzione fondamentale dello stato sia di garantire i consumi collettivi – abitazioni pubbliche, scuole, trasporti – garantire la riproduzione forza lavoro e mitigare il conflitto di classe, essenziale per l’equilibrio del sistema4. Evidentemente la pianificazione urbana può svolgere una importantissima funzione in entrambe le funzioni dello stato, e quindi a partire da metà anni ’70 gli urbanisti francesi di scuola marxista si impegnano in studi suo ruolo dell’industrializzazione in aree industriali come quella di Dieppe5. Emerge contemporaneamente un punto di vista specificamente anglosassone marxiano sulla pianificazione.
Per descriverlo adeguatamente servirebbe un intero ciclo di comunicazioni di teoria marxista. Ma schematicamente quanto inadeguatamente riassumendo, possiamo dire che qui la struttura della città capitalista, le sue attività, l’uso del suolo, viene considerata come prodotto della ricerca di profitto del capitale. Dato che sul capitalismo incombono costantemente le sue cicliche crisi, ancora più profonde nella tarda fase attuale, il capitale si appella allo stato, suo agente nel risolvere la disorganizzazione nella produzione di merci, e a sostegno dei processi di riproduzione forza lavoro. E cercando di conseguire alcuni obiettivi: facilitare l’accumulazione continua di capitale attraverso una razionale allocazione delle risorse; sostenere la riproduzione forza lavoro attraverso i servizi sociali mantenendo così il delicato equilibrio tra capitale e lavoro e prevenendo la disgregazione sociale; garantire e legittimare relazioni capitalistiche sociali e di proprietà. Per dirla con Dear e Scott: «Riassumendo, la pianificazione è una risposta specifica storica e socialmente necessaria alle tendenze di auto-disorganizzazione delle relazioni sociali e proprietarie capitalistiche privatizzate così come si manifestano nello spazio urbano»6. In particolare cerca di garantire l’offerta di indispensabili infrastrutture e servizi urbani essenziali, oltre che ridurre le esternalità negative laddove alcune attività del capitale inducono squilibri in altre parti del sistema7.
Ma, dato che il capitalismo vuole anche circoscrivere al minimo indispensabile l’azione programmatoria dello stato, esiste una contraddizione interna: la pianificazione, nella sua implicita inadeguatezza, può risolvere problemi soltanto creandone degli altri8. E dunque sostiene la teoria marxista, gli sventramenti ottocenteschi a Parigi creano un problema di abitazioni per le classi lavoratrici; lo zoning americano limita la possibilità delle imprese industriali di localizzarsi nel modo più conveniente9. E l’urbanistica non può far altro che modificare alcuni parametri del processo di trasformazione urbana; senza cambiarne la logica intrinseca, e dunque senza rimuovere le contraddizioni tra accumulazione privata e azione collettiva10. Inoltre le classi capitaliste dominanti non sono affatto omogenee, diverse fazioni possono avere interessi divergenti o contrastanti, a seguito di ciò si possono formare alleanze complesse; e l’analisi marxista qui arriva a una spiegazione che si avvicina al pluralismo, pur strutturale11. Ma: «Più lo stato interviene nei sistemi urbani, più cresce la probabilità che diversi gruppi e fazioni sociali ne contestino la legittimità delle decisioni. La vita urbana nel suo insieme viene ad essere progressivamente invasa da controversie e dilemmi politici»12.
Dato che la teoria urbanistica tradizionale non-marxista ignora questi aspetti essenziali della pianificazione, argomentano i teorici di scuola, risulta per definizione piuttosto vuota: vorrebbe definire un ideale, svuotato di qualunque contesto; svolge così la funzione di depoliticizzare l’attività di piano per legittimarla13. Vuole rappresentarsi come una forza multiforme di progetti sulla realtà, mentre a ben vedere le sue varie affermazioni – come sviluppare concetti astratti che rappresentino razionalmente i processi reali, legittimare la propria attività, presentare processi materiali come prodotto di un’idea, rappresentare gli obiettivi di piano come derivanti da valori condivisi, rendere astratta la pianificazione attraverso metafore derivate da altri ambiti quali l’ingegneria – appaiono troppo esagerate e ingiustificate14. In realtà, sostengono i marxisti, avviene l’esatto contrario, e considerata oggettivamente la teoria urbanistica non è altro che una creazione di forze sociali che la pianificazione la fanno esistere15.
Tutto un allarmante insieme di coerenti critiche: certo, naturalmente, la pianificazione non si può semplicemente considerare una attività indipendente, auto-legittimante, come avviene con la ricerca scientifica; e sì, certo, ovviamente, si tratta di un fenomeno che come tutti gli altri fenomeni rappresenta e contingenze del proprio tempo. Nei termini di Scott e Roweis: «esiste una certa incompatibilità fra il mondo dell’attuale teoria urbanistica da un lato, e quello reale della pratica di piano dall’altro. Il primo è la quintessenza dell’ordine e della ragione contro l’altro che è fatto di disordine e irrazionalità. I teorici tradizionali quindi risolvono la contraddizione tra teoria e realtà introducendo il concetto secondo cui le teorie urbanistiche non sarebbero affatto un tentativo di spiegare il mondo così come è ma come dovrebbe essere. Così la teoria si propone il fine di razionalizzare ciò che è irrazionale, e si materializza in realtà storia e sociale (come lo Spirito del Mondo di Hegel) applicando al mondo una serie di norme astratte, indipendenti, trascendenti»16.
Una critica davvero forte. Ma che lascia una evidentissima questione ancora aperta: vuoi per lo sciagurato urbanista – la cui legittimazione sociale viene in questo modo brutalmente strappata come si fa con le spalline di un ufficiale degradato per infamia – sia per il critico marxista stesso: cosa fa la teoria urbanistica? Possiede qualche tipo di contenuto normativo o prescrittivo che sia? La risposta sarebbe logicamente: No. Uno dei commentatori, Philip Cooke, pare perentorio: «La critica principale mossa, giustificabilmente, alla pianificazione urbana, è quella di essere restata ostinatamente normativa … intendo qui sostenere che [la critica urbanistica] dovrebbe individuare i meccanismi causa del cambiamento nella pianificazione, anziché considerarli in quanto modifiche nella sensibilità individuale o metodicità negli eventi osservabili».17
Almeno una coerenza: la teoria urbanistica deve evitare prescrizioni; rimanere all’esterno del processo di piano e provare ad analizzare il tema – e le sue teorie – per ciò che è, ovvero un riflesso di forze storiche. Scott e Rowie sembravano già della medesima opinione: la teoria urbanistica non può essere normativa, non può adottare «norme attuative trascendentali»18. Ma poi rivoltano sottosopra tutto affermando che «una sostenibile teoria della pianificazione dovrebbe spiegarci non solo cos’è la pianificazione, ma anche ciò che potremmo e dovremmo fare in quanto pianificatori progressisti»19. Questo ovviamente è pura retorica. Ma mostra evidente un dibattersi nel dilemma. O la teoria si muove tutta dentro la logica storica del capitalismo, oppure si tratta di ricette operative. Dato che i teorici-urbanisti – per quanto sofisticati possano essere – non hanno mai avuto neppure la speranza di deviare di un solo millimetro o millisecondo il corso dell’evoluzione capitalistica, parrebbe logico chiedersi se e quanto lei-lui ancora possano fermamente aderire all’una abiurando l’altro. In altri termini, la logica marxiana pare singolarmente quietista: indica agli urbanisti la strada del rifiuto delle pratiche urbanistiche e il ritiro dentro la torre d’avorio accademica.
Alcuni sono assai consapevoli del dilemma. John Forester cerca di risolverlo costruendo un intero impianto teorico dell’azione urbanistica sul lavoro di Jürgen Habermas. Habermas, probabilmente il principale teorico tedesco di studi sociali del dopoguerra, aveva sostenuto che il tardo capitalismo sosteneva la propria legittimità diffondendo attorno a sé una complessa serie di distorsioni comunicative concepite per oscurare e prevenire qualunque razionale comprensione dei suo modo di operare20. Dunque, ritiene Forester, gli individui sono impotenti e incapaci di comprendere come e perché agiscono, venendo così esclusi dalla possibilità di influenzare le proprie vite, «arringati, pacificati, disorientati [sic], in definitiva persuasi che diseguaglianze, povertà, malattie, sono o problemi di cui è responsabile la stessa vittima, o questioni così “politiche” e “complesse” da non riuscire ad essere trattate in alcun modo. Habermas sostiene che le politiche democratiche della pianificazione richiedano un consenso che cresce dai processi della critica collettiva, non dal silenzio o da una linea di partito»21.
Ma, prosegue Forester, sono le stesse proposte di Habermas per una azione comunicativa ad offrire al pianificatore un metodo per migliorare le proprie pratiche: «Riconoscendo la pratica urbanistica in quanto azione comunicativa normativamente strutturata nel proprio ruolo, che altera, cela o rivela ai cittadini prospettive e possibilità, una teoria critica può aiutarci sia concretamente che eticamente. Ecco il contributo della teoria critica all’urbanistica: pragmatico con visione, in grado di rivelare autentiche alternative, correggere false aspettative, contrastare il cinismo, stimolare l’analisi, allargare la responsabilità politica, la partecipazione attiva. Una pratica urbanistica critica, tecnicamente avanzata e politicamente sensibile, è pratica organizzativa democratica»22.
Ottimo. Ma il problema è che – al netto delle basi filosofiche tedesche per cui è necessaria una enorme dose di semplificazione da analisi troppo dense- la prescrizione pratica che ne emerge assomiglia un po’ troppo al vecchio buon senso democratico, non di più e non di meno di quanto accadeva con lo Advocacy Planning di Davidoff quindici anni prima, con le indicazioni a sviluppare reti locali, all’ascolto, al coinvolgimento dei gruppi più deboli, alla formazione dei cittadini a partecipare, all’informazione divilgativa, allo sviluppo delle competenze per gruppi di lavoro nelle situazioni di conflitto, alla sottolineatura dell’importanza del partecipare, alla risposta alle pressioni dall’esterno23. Vero che, se gli urbanisti così avvertono di riuscire a vedere oltre la maschera del capitalismo, ciò può contribuire ad aiutare altri per migliorare l’ambiente e la propria esistenza, e che vista la stasi del pensiero filosofico di fine anni ’70, sia necessario uno sforzo metafisico. Ma la cosa più interessante è il rapporto con quanto accaduto prima. Insegnare agli urbanisti come in realtà dovessero «dire SI» a qualcosa lavorando efficacemente nelle mediazioni tra i vari gruppi di interesse24 richiedeva che i pianificatori comprendessero il funzionamento del sistema, e in quel senso la cosa ha molto in comune con le teorie di politica economica radicali degli anni ’70. Ma c’è una differenza essenziale: gli economisti politici non volevano far funzionare il sistema, ma contribuire ad abbatterlo; mentre la nuova teoria vorrebbe collaborare col mercato25.
da: Cities of Tomorrow – An intellectual history of urban planning and desing in the twentieth century – Cap. 10 The City of Theory, Blackwell, London 1988 – Titolo originale: The Marxist Ascendancy – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini
NOTE
1 Galloway T.D., Mahayni R.G., «Planning theory in retrospect. The process of paradigm change», Journal of the American Institute of Planners, 43, 1977
2 Harvey D., Social justice and the city, Edward Arnold, London 1973; id. The limits of capital, Basil Blackwell, Oxford 1982; id. Consciousness and the urban experience: studies in the history and theory of capitalist urbanization, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1985; id. The urbanization of capital: studies in the history and theory of capitalist urbanization, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1985; Castells M., The urban question: a marxist approach, Edward Arnld, London 1977; id. City, class and power, MacMillan, London 1978; Lefebvre H., Le droit à la ville, Èdition Anthropos, Paris 1968; id. Espace et politique: le droit à la ville II, Èdition Anthropos, Paris 1972; Massey D., Meegan R., The anatomy of job loss: why how and where of employment decline, Methuen, London 1982; Massey D., Spatial divisions of labour: social structures and the geography of production, MacMillan, London 1984
3 Carnoy M., The State and political theory, Princeton University Press, 1984
4 Lokjine J., Le marxisme, l’état et la question urbaine, PUF, Paris 1977; Castells M., City, class and power, MacMillan, London 1978
5 Cfr. Castells M. 1978 cit. pp. 62-92
6 Dear M.S., Scott A.J. (a cura di), Urbanization and urban planning in capitalist society, Methuen, London 1981, p. 13
7 Ivi. p. 11
8 Idem pp. 14-15
9 Scott A.J., Roweis S.T., «Urban planning in theory and practice. An appraisal», Environment and Planning A, 9, 1977, p. 1108
10 Ivi. p. 1107
11 Mollenkopf J.H., The Contested City, Princeton University Press, 1983
12Dear M.S., Scott A.J., 1981 cit. p. 16
13 Scott A.J., Roweis S.T., 1977 cit. p. 1098
14 Cooke P.N., Theories of planning and spatial development, Hutchinson, London 1983
15 Scott A.J., Roweis S.T., 1977 cit. p. 1099
16 Ivi, p. 1116
17 Cooke, 1983, cit. p. 25-27
18 Scott, Rowie, 1977, cit. p. 1099
19 Idem
20 Bernstein R.J., The restructuring of social and political theory, Harcourt, New York 1976, Idem, Habermas and modernity, MIT Press, Cambridge Massachusetts 1985; Held D., Introduction to critical theory: Horkheimer to Habermas, University of California Press, Berkeley 1980; McCarthy T.A., The critical theory of Jürgen Habermas, MIT Press, Cambridge Massachusetts 1978; Thompson J.B., Held D., Habermas, critical debates, MIT Press, Cambridge Massachusetts 1982
21 Forester J., «Critical theory and planning practice», Journal of the American Planning Association, n. 46, 1980 p. 277
22 Idem p. 283
23 Cfr. Davidoff P., «Advocacy and pluralism in planning», Journal of the American Institute of Planners, n. 31, 1965
24 Taylor N., Urban planning theory since 1945, Sage, London 1998 p. 226
25 Ivi p. 127