Il Town Planning Act promosso da John Burns, saggiamente concentra l’attenzione degli urbanisti britannici prevalentemente sulle trasformazioni delle zone ancora inedificate ai margini delle città, dove stanno avvenendo i peggiori scempi. Non si deve però pensare di poter considerare a sé queste aree suburbane. L’urbanistica riguarda il problema complessivo dell’organizzazione della vita cittadina. L’alto livello di specializzazione da cui dipendono l’economia e l’esistenza moderna, indica che molto probabilmente una grande percentuale della popolazione nei paesi civili continuerà a vivere nei grandi centri o nelle loro immediate vicinanze. La crescita delle città industriali nel corso dell’ultimo secolo ci ha colti del tutto impreparati; se paragoniamo ciò che sono diventate oggi con quanto avrebbero potuto essere, possiamo considerarle poco più di concentrazioni di popolazione disorganizzate, all’interno delle quali i vari gruppi lottano per ritagliarsi spazi di vita più libera ed efficiente, ma senza il sostegno garantito da un piano di trasformazione generale che dia indirizzo alle potenzialità. Occorre portare nella vita cittadina questa supervisione di indirizzo, per sfruttare la meglio le occasioni, coordinare le varie parti, nel modo considerato essenziale dalla moderna economia industriale.
Per esempio: troppo spesso notiamo quanto le zone laterali di ferrovie o canali siano stipate di villini, cosa che rappresenta un problema di accesso a queste strutture di trasporto, e che dovrebbero invece essere distribuiti in altre parti della città. Ciò si traduce nella distruzione delle bellezze di tante ottime zone residenziali, e convoglia flussi costanti di forte traffico sulle strade, da e verso gli stessi canali e ferrovie lungo i quali le medesime strade dovrebbero collocarsi. Ne risulta un incremento dei costi di produzione, congestione del traffico, forti necessità di manutenzioni stradali, disorganizzazione generale. E poi scopriamo per esempio anche strutture scolastiche inutilmente sparse e soprannumero, visti i costi proibitivi di concentrarle nella medesima posizione centrale; e poi ancora alloggi nei luoghi più malsani solo perché lì i terreni costano poco, mentre magari i migliori luoghi residenziali vengono destinati ad altri scopi.
È necessario un piano cittadino per organizzare il miglior uso di tutte queste aree. Con un buon programma di sviluppo ogni città può favorire crescita ed efficienza ai settori economici da cui dipende, consentendo loro di espandersi là dove sono disponibili ferrovie o vie d’acqua, energia, riscaldamento, elettricità, in stretta relazione con tutto quanto può loro servire, dalle imprese complementari minori, ai magazzini e via dicendo. Là dove le vie d’acqua sono accessibili, il piano può dimostrare adeguata preveggenza predisponendo moli e darsene. Col medesimo strumento si individuano le più comode vie di comunicazione stradali, ferroviarie o altro tra le zone industriali, i grandi centri di scambio sia all’ingrosso che al dettaglio, le aree migliori dove prevedere le case per la popolazione, da vincolare a quell’uso. Non si può sopravvalutare il vantaggio, sia direttamente all’economia che all’efficienza, di uno strumento simile adeguato per le città. E non parliamo degli aspetti culturali e educativi, quando organizzati in poli enfatizzano il valore di scuole, musei, biblioteche, o di quanto si può fare per il tempo libero e la distribuzione di parchi e giardini, o della planimetria delle zone residenziali tutelate dall’intromissione di discutibili attività industriali, tutte cose che contribuiscono allo sviluppo di una cittadinanza forte nel corpo, acuta nella mente, energica nel carattere.
Quindi la nostra cura immediata riguarda i quartieri in crescita delle città, ma è solo considerando nel loro complesso i problemi urbani che si può affrontare quelli delle zone esterne in modo da porli in relazione al tutto; dobbiamo guardare in avanti, al tempo in cui dopo aver sistemato le questioni attuali, dovremo intraprendere interventi per rimediare ai peggiori difetti derivanti da inadeguata previsione passata. Così la prima cosa da fare per predisporre il piano di espansione è fissare le linee generali lungo le quali la città sarà spinta a svilupparsi; stabilire le aree da destinare a scopi industriali, dove ci saranno strutture ferroviarie, moli, bacini, magazzini e così via, e le aree invece da dedicare alle abitazioni delle varie classi sociali. È anche importante far sì che nelle periferie si stabilisca quanta più mescolanza possibile di classi. Pessima cosa, come sottolinea tanto spesso la signora Barnett [sponsor di Unwin nel progetto di Hampstead, vedi intervento linkato in calce] consentire che grandi superfici vengano ricoperte da case tutte della stessa dimensione, occupate da gente di un solo ceto. Certo questo non è un problema che si possa affrontare solo con strumenti urbanistici, e sarebbe anche sciocco cercare di mescolare indiscriminatamente edifici di diverse dimensioni, è certamente possibile e molto auspicabile organizzare per aree queste dimensioni in ciascun quartiere.
Nel considerare le forme migliori di sviluppo urbano, possiamo riferirci a due estremi. La città potrebbe allargarsi per anelli concentrici compatti, come accade quando l’acqua invade un bacino, o accrescersi per somma di piccoli nuclei sparsi nati da qualche punto, che sia un villaggio o una stazione ferroviaria extraurbana. Ebenezer Howard sostiene la necessità di limitare le dimensioni della città oltre una certa quota in termini di popolazione, collocandola in Città Giardino a una determinata distanza dal nucleo centrale. È stato detto che questo modello di sviluppo sarebbe troppo artificioso rispetto a come normalmente si espandono le città, ma non si tratta di una visione adeguata della crescita, in cui c’è invece parecchio di assolutamente naturale.In molte grandi città gli incrementi avvengono proprio secondo queste linee, sono noi non ce ne accorgiamo dato che ciascun nucleo poi espandendosi in ogni direzione finisce per fondersi con quello principale. Vincolando una superficie non edificata attorno, il sistema della Città Giardino sarebbe facilmente realizzato.
Da questo punto di vista sono interessanti gli esempi dei piani che ci vengono dalla Scandinavia. Riuscire nel controllare le forme dello sviluppo, dipende dall’agire là dove non si presentano resistenze insormontabili, tali da frustrare qualunque sforzo per quanto benintenzionato. Il successo di Letchworth come polo industriale dimostra come, per quanto a livello di esperimento, ciò non sia oltre i limiti, anche se certo considerando Letchworth solo dal punto di vista del modello di crescita urbana, la distanza eccessiva dal nucleo metropolitano centrale è molto superiore a quanto possibile e auspicabile. Però, dipendendo dalla volontà degli investitori, i promotori non avevano grandi possibilità di scelta rispetto alla localizzazione. L’idea essenziale però, che oltre una certa dimensione nello sviluppo di una città si debba passare alla formazione di centri sussidiari al suo sterno, il riconoscimento dell’importanza di vincolare contro un’espansione indefinita con la fusione dei nuclei, la riserva di aree a parchi, boschi, campagna, mi pare di enorme importanza.
In molte città dell’Europa continentale, dopo l’abbandono delle cinte murarie fortificate, si è stati preveggenti a sufficienza da prevedere un anello di questo tipo. Si spera che a Parigi riescano a farlo. Vorrei anche attirare la vostra attenzione sull’interessante piano redatto per la Grande Berlino da Albert Gessner secondo questi criteri. In tutte le grandi organizzazioni è necessario articolarsi per unità minori, ciascuna con una propria funzione relativa all’insieme, e poi ancora suddividere queste un unità ancora più piccole. Nell’esercito ad esempio, ci sono i corpi, le divisioni, i reggimenti, le compagnie, ciascuno coi propri organi, funzioni, ufficiale responsabile: e basta pensare a un esercito come pura somma di un numero infinito di compagnie, ciascuna in comunicazione diretta con un generale, per capire come sarebbe impossibile manovrare in modo efficiente una massa inorganica simile. Lo stesso accade con le funzioni della vita cittadina: alcune si possono centralizzare del tutto, ma la maggior parte trova una collocazione locale, mentre risulta sano organizzarle insieme per centri supplementari più vicini agli utenti, anziché sparse indiscriminatamente ovunque.
Creare poli del genere, con un’area circostante adeguatamente progettata in relazione ad essi, contribuisce a sostenere l’identità locale, focalizzare molte classi diverse, impedire la crescita di vaste superfici coperte dalle case di un solo ceto, prive di rapporti col resto della città e col territorio locale, così come accade tanto di frequente nei nostri centri industriali. Poli del genere diventano naturalmente occasioni di qualità progettuale, rendendo possibile introdurre proporzioni e accorgimenti, concentrando architetture a definire uno spazio. Se le grandi città vogliono diventare luoghi di alta qualità abitativa, pare necessaria una scelta fra due opzioni. O si concede a ciascun alloggio una notevole quantità di terreno, disperdendosi cosi su un’area eccessivamente estesa, indebitamente allungando le distanze da percorrere e rendendo difficili i servizi e attrezzature per la vita comune, fisica e sociale; oppure si sviluppa il principio dei raggruppamenti a nucleo in alcune zone, lasciando attorno a ciascuno una adeguata superficie libera. A me questa pare la soluzione più giusta, e un percorso naturale.
È anche resa semplice dai moderni mezzi di trasporto, specie dai tram, che si sono rivelati sinora forse quelli più efficienti per spostare grandi masse di persone nelle aree urbane. Si facilità così e si rende più economica la distribuzione di acqua, energia elettrica, telefoni e altri servizi, favorendo anche una crescita più varia e interessante. La vita cittadina è sostanzialmente cooperativa,non credo proprio che l’ideale sarebbe collocare ciascuna casetta nel suo lotto a giardino, ma invece mettere gruppi di case al centro di dieci o cento ettari di verde. Questo è il metodo adottato in passato ogni qual volta gruppi sociali di una certa organizzazione si sono costruiti un insediamento. Il movimento ecclesiastico del Medio Evo, ad esempio, è un ottimo caso di applicazione del metodo; e per fare un caso estremo si dice che la Reggia di Versailles nei momenti di massima gloria abbia ospitato decine di migliaia di persone — ovvero la popolazione di una cittadina – tutte con a disposizione quei magnifici parchi e giardini che circondano il palazzo.
Pensiamo a cosa sarebbe successo in termini organizzativi e di vita sociale del palazzo, o di altri, se le decine di migliaia di persone fossero state sparpagliate nel parco, ciascuna con un proprio cottage. Certo io non sostengo affatto il sovraffollarsi di gente dentro enormi edifici in questo modo, ma ritengo che una utile linea di riflessione si ala possibilità di raccogliere edifici in un centro, lasciando al suo esterno la possibilità di utilizzare lo spazio per la ricreazione e il tempo libero di tutti. Abbiamo provato a sperimentarlo ad Hampstead sino ad un certo punto, coi villini. Dopo aver fissato a grandi linee i caratteri generali delle zone, il tipo di forme a cui volevamo arrivare, le superfici da destinare a spazi aperti e per il tempo libero, il passo successivo del piano sarà di valutare che genere di strade servono per mettere in comunicazione la periferia col cuore della città e i quartieri industriali, oltre che dei vari quartieri l’uno con l’altro.
Quando si è raggiunta una determinata dimensione, in termini generali il flusso di popolazione è dall’interno verso l’esterno, allontanandosi dal centro. Se però esistono nuclei industriali definiti a una certa considerevole distanza dal centro, il flusso assume direzioni diverse, specie nelle aree di ceto operaio, e oltre le arterie principali che si dipartono in ogni direzione, se ne devono pensare altre dirette specificamente verso i luoghi di lavoro, di attività, stazioni ferroviarie e altri luoghi analoghi. Queste strade, insieme a quelle che collegano i quartieri tra loro, formano la griglia del piano di espansione. Il loro orientamento dipende da come si considerano i singoli nuclei — la loro localizzazione e il loro sviluppo passato – ma si può anche dissertare utilmente sulla conformazione teorica.
Ci sono tre esempi interessanti di città ideali, che desumiamo dal libro di Brinckmann, che mostrano schemi rettangolari e radiali. Mosca è un ottimo esempio di città ragnatela; mentre Aosta, come ci mostra il lavoro di Stübben, illustra il modello rettangolare del campo romano da cui trae origine. In un piano moderno, oltre alle arterie irraggianti sono necessarie delle diagonali di attraversamento, e a volte anche percorsi che seguono una linea circolare. L’economia di un piano dipende da come sono concepite queste strade principali, i loro spazi e pendenze, le sezioni adeguate al tipo. Dobbiamo avvertire contro gli errori compiuti in certi paesi, dove un eccesso di dimensioni e numero di strade spesso ha fatto aumentare i costi dell’espansione e di conseguenza i prezzi dei terreni, sino a rendere impossibile la realizzazione di qualsiasi edificio che non fosse di cinque piani ad appartamenti.
Dobbiamo allontanarci decisamente dalla tradizione, per quanto riguarda la costruzione di strade. Sinora è stata abitudine generalizzata in questo paese, fissare per regolamento una larghezza minima per tutte le nuove arterie, con una tendenza da parte delle città più illuminate ad aumentare questo minimo da dieci a quindici metri. Ma se da un lato sezioni del genere sono ridicole e inadeguate per le arterie principali di qualsiasi grande città, esse sono anche esagerate quando si deve arrivare a un quartiere di case, e così la strada larga è diventata un fattore di sovraffollamento delle case, o di realizzazione di soli complessi ad appartamenti.Se vogliamo una buona urbanistica, dobbiamo accettare il principio che le vie siano di larghezza variabile, secondo lo scopo che servono.
Poi però bisogna eliminare anche l’incertezza che qualche strada possa diventare grande arteria, dubbio ovvio quando lo sviluppo è casuale, ma che si può superare naturalmente con un adeguato programma. La rete stradale può essere progettata per rispondere a ogni esigenza di importanti arterie e vie di intercomunicazione secondaria. È nel piano di sviluppo che si decidono queste strade principali e secondarie: se le principali distano alcune centinaia di metri, in genere ne servono di secondarie per le comunicazioni interne, mentre le altre per la realizzazione dei quartieri sono di tutt’altro genere.
Occorre anche evitare che il traffico attraversi direttamente i quartieri abitati. Così le vie devono essere più strette, una volta stabilita una adeguata distanza fra gli edifici sui lati. Anche la realizzazione è diversa: asfaltature, lastricati, cordoli, scarichi, si possono in tutto o in parte risparmiare; in tanti tratti di vie minori e molto brevi non si capisce perché mai un semplice accesso, del tipo di quelli che sono accettabilissimi per grossi edifici, scuole, o altri complessi che contengono gran numeri di persone e inducono un certo traffico veicolare, non possa funzionare allo stesso modo per un piccolo gruppo di case o cottage. È proprio risparmiando sui costi di queste strade sussidiarie che è possibile permettersi poi le spese per acquisire le superfici necessarie alle arterie maggiori senza necessariamente determinare quel citato sovraffollamento delle case o degli edifici, che è compito della pianificazione urbanistica prevenire.
Il grandi edifici amministrativi e terziari si collocheranno naturalmente lungo le arterie principali, e si tratta di un tipo di fabbricazione che può ben permettersi i costi aggiunti, mentre i più semplici fabbricati residenziali, dove le grandi strade paiono oggi sempre meno auspicabili, altrettanto naturalmente andranno sulle vie minori, lontano da polvere e rumori del traffico, là dove è più semplice conservare le bellezze dei luoghi. Tante nostre strade extraurbane in ghiaia con una sezione di meno di sei metri, portano dieci volte tanto il traffico possibile su queste vie minori. Ma quando la carreggiata è inferiore a otto metri, vanno previsti spazi di manovra per auto e furgoni. Credo che in genere sia più adeguato tenersi un po’ scarsi – attorno ai quattro metri – salvo poi mettere frequenti punti di manovra allargando a otto e oltre. È anche saggio lasciar qualche margine di possibile allargamento, con una fascia totale da sette metri per le vie minori o al massimo 8-9 metri per le più importanti anche se sempre secondarie.
È certamente necessario stabilire per motivi sanitari e di abitabilità una distanza minima tra gli edifici di queste strade, ma da un punto di vista architettonico è sperabile soprattutto che l enorme a tale scopo siano tali da consentire ove opportuno di avvicinare gli edifici rispetto alla media, consentire composizioni e vedute, e così evitare quelle infinite file di case troppo staccate rispetto alle altezze, realizzando invece buone prospettive stradali. Una possibilità che gli uffici tecnici possono ritenere di scarsa importanza, ma almeno finché lo sviluppo dei fabbricati frontisti è limitato, diciamo non più di due volte gli spazi tra l’uno e l’altro, e anche la distanza complessiva non va oltre i cinquanta metri, o qualcosa del genere, l’incidenza su soleggiamento o circolazione dell’aria è quasi nulla. Certamente si può guadagnare di più su altri fronti, di quanto non si rischi di perdere allentando un po’ la rigidità arbitraria di alcuni regolamenti.
È quanto si è fatto nel caso degli edifici d’angolo al sobborgo giardino di Hampstead, dove invece della superficie minima di quindici metri quadrati sul retro, come da norma, gli amministratori hanno proposto agli uffici di metterne a disposizione cento metri quadri, in cambio di collocarli invece su un lato. In genere gli architetti apprezzano molto quanto sia importante l’elasticità in questioni così. A Hampstead è servita a organizzare gli angoli interni ed esterni dei raggruppamenti di edifici, realizzando contemporaneamente molto più spazio aperto per ciascuna casa di quanto prescrivevano le norme. Un accesso carrabile perfettamente realizzato, con margini a erba, anche attrezzato con un marciapiede a semplice cordolo, con scarichi e fosso, costerà da un terzo alla metà del tipo di vie da quindici metri che si prescrivono in certi casi. E pare logico che quando si cerca di ridurre il numero di edifici per ettaro, da cento o più fino a trenta-quaranta, ridurre il costo delle strade possa essere un passaggio cruciale.
E ancor più importante lo diventa se insieme vogliamo anche allargare le arterie principali da quindici a venti, trenta metri e più, secondo i casi, là dove la quantità di traffico giustifica la divisione in più corsie, per i veicoli veloci e la sosta locale, più eventualmente una striscia non asfaltata a erba dedicata alla rotaie del tram: soluzione che riduce il costo e al tempo stesso anche i rumori, trasformando quella striscia da un fastidio a una specie di arredo. Se poi ai margini della striscia a erba vengono posti degli alberi, a mascherare i pali che reggono i cavi sospesi, sarà possibile anche ridurre al minimo anche questa bruttura stradale. E poi tra i due estremi su cui ci siamo dilungati — il passaggio da pochi metri e la grande arteria a molte corsie larga cinquanta — ci possono stare strade di qualsiasi ampiezza, varietà e organizzazione. Non solo una più diversificata sezione stradale è giustificata da argomenti di funzionalità ed economia, ma anche dal punto di vista artistico introdurre nella progettazione urbana quell’aspetto essenziale che sono le proporzioni, dipende dalla medesima capacità a variare dimensioni: in realtà poi apparirà con chiarezza che sono proprio le circostanze in cui si presenta il problema a fornire una occasione di progetto, anziché un ostacolo alla soluzione.
Stabilita la funzione delle varie zone, fissato il tipo di sviluppo e l’orientamento indicativo delle arterie principali e sussidiarie, l’urbanista si trova ad affrontare gli elementi su cui basare il suo progetto, ovvero i centro principale che domina l’insieme, i centri secondari che ad esso si riferiscono e rapportano, le strade principali che collegano il primo ai secondi, costituendo complessivamente la cornice del progetto. Entro gli spazi definiti da questa cornice, con un rapporto speciale rispetto ai centri secondari e alle arterie principali, abbiamo la rete delle strade di secondo ordine; mentre nelle aree rimanenti, e all’unico scopo di consentire accesso agli edifici, ci sono le vie minori, che entrano in relazione diretta sia coi centri secondari che con le arterie di importanza intermedia e il loro schema generale. E infine gli edifici, che sono in fondo il vero scopo di tutto quanto sopra, e la cui più adeguata collocazione, allineamento, concentrazione, condizionano l’effetto finale della composizione.
Questo è al tempo stesso sia l’ordine naturale secondo cui affrontare il problema dello sviluppo urbano, sia la sequenza naturale dei progetti. Una serie di correlazioni che, ne sono convinto, è assolutamente necessaria per giungere a un adeguato proporzionamento del piano e delle sue componenti, delle varie funzioni, a soddisfare le necessità commerciali, industriali, residenziali, del tempo libero, e tutti i tipi di trasformazioni coerenti alle caratteristiche dei vari luoghi. Molte delle difficoltà rilevate nelle città americane, sembrano derivare proprio dall’aver trascurato questo principio. Se si concepisce l’intera città pensando alla sua componente individuale, l’isolato, essa poi consisterà in una cornice di particolari senza alcuno rapporto generale. Per tornare alla metafora già usata, si tratta di un enorme esercito composto di piccole compagnie, ma privo di reggimenti, o divisioni, o corpi d’armata. Gli enormi problemi di una indefinita moltiplicazione dell’unità elementare isolato edificato, stanno obbligando le città americane all’arduo tentativo di sovrapporre uno schema generale su questa rigida massa di particolari: obiettivo non solo enormemente costoso, ma anche senza speranza dal punto di vista di produrre qualche genere di risultato artistico; osservando alcuni dei piani predisposti per quelle città, si sarebbe indotti a pensare quanto quell’errore fondamentale non sia stato affatto compreso, perché semplicemente ribaltare l’ordine del processo, e sovrapporre una rigida cornice di grandi arterie su un’altra di strade minori, non produce alcuna relazione proporzionale adeguata, né ai particolari né all’insieme.
Non dico questo per criticare piani di cui ammiro la grandiosità, dettati da situazioni che non conosco e non comprendo, ma solo a titolo di avvertimento perché noi qui, presi dall’ammirazione per alcune idee che per la prima volta vengono esposte in Inghilterra, ne notiamo anche la poca adattabilità al nostro contesto. Che le strade importanza minore all’angolo nord-ovest di una città siano parallele alle strade di importanza minore nell’angolo sud-est della stessa città, può forse apparire elegante in un disegno, ma nella realtà è cosa priva di alcun valore; ma che le strade di importanza minore abbiano un rapporto definito con le gradi arterie primarie e secondarie della grande cornice generale in cui si inseriscono appare essenziale, per efficienza, economia, e per una soddisfacente composizione spaziale stradale. Nessun metodo riesce a ritagliare lo spazio secondo goffe angolature, o previene qualunque tentativo di realizzare affacci proporzionati, del sovrapporre schematicamente una griglia di diagonali a un rigido sistema ortogonale.
In urbanistica pare essenziale evitare di lasciarsi prendere troppo dal disegno. Certo ci deve essere ordine, definizione, ma prima occorre arrivare a comprendere i nodi fondamentali dove questo ordine assume importanza, e quali invece contano meno. Ad esempio, la serie di angoli e schemi che forma il quadro generale non è affatto visibile all’osservatore che percorre a piedi la città, mentre lo sono i rapporti degli angoli di qualsiasi incrocio con le facciate degli edifici, che stabiliscono se quel luogo possa diventare una buona composizione artistica, oppure una semplice sovrapposizione caotica di goffi angoli di isolato. Cosa già perfettamente intuita dai progettisti della splendida strada di Palmira. Considerando quindi la grande cornice generale, che raramente nella città moderna assume forme perfette, conta poco far corrispondere l’uno con l’altro gli spazi triangolari tra le vie, mentre invece conta moltissimo far sì che l’incontro tra quelle vie appaia alla vista in modo tale da creare, se si desidera, uno spazio di qualità, o un edificio adeguatamente collocato.
Quanto sia importante un piano in grado di creare quadri stradali interessanti e gradevoli, viene pienamente riconosciuto in Germania, dove esiste una forte reazione a quello stile urbanistico geometricamente moderno adottato nelle loro città negli anni passati; e certamente noi inglesi, se dobbiamo imparare molto dalle splendide e grandiose linee di certi piani urbanistici redatti in America, dovremmo anche imparare dalla scuola tedesca un maggior rispetto dei caratteri vari dei luoghi, una maggiore valutazione delle varie possibilità offerte dall’urbanistica di creare quadri stradali: aspetti immaginifici meno presenti nello stile americano. Se possiamo apprendere dall’America l’importanza delle proporzioni nei caratteri dominanti la città, credo dovremmo tenere sempre ben presente che le dimensioni in sé non sono una qualità particolare. Studiando quanto è stato fatto in Germania riguardo alle proporzioni di dettaglio, la cura nel considerare la natura dei luoghi, le possibilità di magnifici raggruppamenti di edifici, potremmo ricordare quanto già fatto nel Rinascimento, o in certe esperienze francesi, comprendere l’importanza di alcuni orientamenti generali di progetto per conferire alle nostre città una cornice definita, caratteristica che invece manca alla maggior parte dell’urbanistica tedesca, dove i progetti paiono aver scordato la dimensione generale, concentrandosi sugli aspetti pittoreschi dei particolari.
Con un panorama generale sullo stato dell’urbanistica, quale quello offerto grazie alla Mostra appena inaugurata, non si può non notare quanto le varie scuole siano sostenute da teorie formaliste o non formaliste, che si sono poi trasformate in puri pregiudizi senza che fossero davvero comprese le reali situazioni. In urbanistica non esiste quel genere di formalismo che si manifesta in un progetto disegnato. Per fare un esempio molto semplice, se c’è una strada che scorre attraverso un terreno ondulato, si può scegliere di farla andare dritta, il che parrebbe coerente con il disegno sul foglio, ma assolutamente privo di risultati formali se pensiamo a come appariranno poi gli edifici, coi profili saltellanti a seconda dell’andamento del terreno. Oppure si può decidere che sia più utile seguire un effetto formale, uno schema delle linee di gronda degli edifici, e per farlo si deve far seguire alla strada l’andamento irregolare del terreno. In urbanistica accade raramente di operare su un solo livello, e bisogna sempre ragionare in tre dimensioni, costruire un progetto che dimostri le possibilità di un aspetto ordinato anche su una superficie ondulata e irregolare.
E invece vediamo troppo spesso, da un lato occasioni sacrificate per qualche preconcetto progettuale di regolarità sulla carta; mentre invece i non formalisti paiono ritenere che esista una virtù nel semplice rifuggire a ogni ordine. Credo che solo superando questi pregiudizi, del formale contro l’informale, sentendosi più liberi di usare sia l’uno che l’altro approccio, riconoscendo via via la naturalezza del disegno formale e l’importanza di subordinarla alle magnifiche occasioni offerte dall’irregolarità dei luoghi, potremo arrivare al meglio nei piani urbanistici. Se a tutti gli altri vantaggi della pianificazione urbana vogliamo aggiungere a completamento la possibilità di costruire città magnifiche, non dimentichiamoci mai che nessun lavoro è finito, se non arriva alla bellezza.
Credo che il ruolo dell’architetto-urbanista, specificamente esercitato a trovare magnifiche espressioni formali ad esigenze pratiche, sia soprattutto quello di accettare in primo luogo le indicazioni che gli offrono il sociologo, l’economista, l’ingegnere e il cartografo; ed entro quei limiti prefissati costruire in forma magnifica l’espressione del piano. Un obiettivo al tempo stesso difficile e stimolante, a cui ci si deve predisporre con metodi analoghi a quelli che gli antichi usavano con la preghiera e il digiuno. Comprese le esigenze pratiche da risolvere, se in uno spirito rispettoso della tradizione e della bellezza naturale, che sono parte integrate dei caratteri delle città, interpretando come stimolo per esprimere la propria arte tutte le difficoltà poste dai luoghi, l’urbanista riesce a fondere il tutto creativamente, in una magnifica sintesi cittadina, si sarà meritato la fiducia degli uomini, perché non solo avrà contribuito a migliorare la loro esistenza rendendola più confortevole e sana nelle abitazioni, ma avrà anche offerto a loro e ai loro figli bellezza e piacere, grazie alla capacità di fare appello al tempo e al fascino della sintesi.
(le immagini usate da Unwin per illustrare la sua relazione sono riportate di seguito in formato più leggibile di quanto consentito a scorrere nel testo)
Riferimenti:
Royal Institute of British Architects, Town Planning Conference: Transactions, Londra 1910 – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini
Vedi anche:
– Henrietta Barnett, Passato e futuro nel sobborgo giardino di Hampstead (1918)
– Raymond Unwin, L’urbanistica come arte (1925)
– George Lionel Pepler, Un’arteria anulare per la Grande Londra (1910)