Il congresso degli urbanisti italiani impostò quattro anni or sono a Venezia il problema dei piani regionali. Si trattava di un problema che era allora alla vigilia di diventare realtà concreta e quel congresso ne indicò le soluzioni, accelerando i tempi, operando nella coscienza della classe politica e della pubblica opinione. Dopo l’opera iniziale benemerita del ministro Aldisio con non minore energia il ministro Romita proseguì nell’attuare il dispositivo urbanistico regionale destinato ad una funzione preminente nella nostra pianificazione urbana e rurale. A noi piace sottolineare l’importanza dell’intenso sforzo in atto nelle diverse regioni italiane e l’organicità della prassi ormai in via di essere stabilita in guisa da affondare le sue radici negli organismi vivi delle amministrazioni provinciali e degli altri enti decentrati.
Poi, al congresso di Genova e nel successivo convegno di Firenze, il piano regolatore urbano si è, imposto alla nostra esperienza con i suoi urgenti problemi e con la massa immensa degli interessi diretti e indiretti, culturali e pratici che esso coinvolge. Con la discussione dei prossimi giorni, un terzo grande tema della pianificazione urbanistica sarà proposto alla nostra attenzione. Qui a Torino, ci proponiamo di discutere cosa sono e quale contributo possono recare all’assetto della nostra società i piani intercomunali. Il tema potrebbe sembrare a taluni strettamente tecnico. E invece proprio esso è tale da suscitare, come vedremo, in campo teorico e metodologico, una vasta e impegnativa problematica. Abbiamo ormai chiari i limiti e i problemi della pianificazione urbana e di quella territoriale, sappiamo che non ci potrà essere ordine e armonia nelle città le non vi sarà la grande sintesi del piano regionale. Ma che funzione svolgerà, come si inserirà in questa complessa gerarchia, la nuova pianificazione intercomunale?
La marcia lenta e inesorabile verso una maggior disciplina urbanistica attende d’altro canto un altro passo decisivo: il coordinamento tra programmi economici e piani regionali. All’uopo ci piace ricordare che l’attuazione dello schema Vanoni se potrà attuarsi attraverso il dispositivo dei piani regionali rappresenterà una tappa di inestimabile valore nel progresso dell’organamento dell’azione dello stato. Ora il problema che si pone innanzi a noi è esattamente l’esecuzione del piano regionale. Poiché esso è destinato a prolungarsi come ogni altro piano, nei suoi piani particolareggiati, questi saranno costituiti appunto da quei piani intercomunali di cui il congresso in questi giorni dovrà esaminare i limiti, la validità, il carattere. Perché essi diventino un effettivo strumento di civiltà e un valido ausilio nell’attuazione del piano economico occorre che ciascun elemento esecutivo, il quale è bene attuabile nell’ordine del piano intercomunale, trovi un’organica espressione tecnica amministrativa, fondata sul rispetto della libertà. Il valore dell’impostazione del piano intercomunale consiste appunto in questa garanzia, perché esso custodisce le virtù democratiche proprie di un piano affidato ai comuni i quali meglio dello stato si richiamano a una considerazione palpitante, immediata del concetto di democrazia.
Mi piace ricordare all’uopo un noto passaggio del Tocqueville : «Sans institutions communales une nation peut se donner un gouvernement libre, mais elle n’a pas l’esprit de la liberté. Des passions passagères, des intérêts d’un moment, le hasard des circostances peuvent lui donner les formes extérieures de l’independence; mais le despotisme refoule dans l’intérieur du corp social reparait tôt ou tard à la surface».
A tali esigenze di ordine politico e amministrativo, che indicano una giusta soluzione dei problemi, finora soddisfecero nel modo migliore le teorie sociali-cristiane. Infatti il pensiero cattolico sostiene con particolare energia il «principio della sussidiarietà», la fondamentale precedenza delle collettività più deboli di fronte alle più forti. Soprattutto vogliamo ricordare l’enciclica Quadragesimo anno data nel 1931 dal pontefice Pio XI: «É vero certamente e ben dimostrato dalla storia che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo della filosofia sociale. ..: è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle».
Di questa ferma opinione era Luigi Einaudi, quando scriveva, nel 1946: «Perché vi sia governo libero, occorre che gli uomini sentano di essere qualcosa di diverso dagli altri uomini; che essi abbiano l’orgoglio di appartenere ad un comune, ad una comunità o collegio di comuni, comunità e regioni che siano diano qualcosa, abbiano un potere entro limiti determinati sovrano ed indipendente dal centro».
Ora, nella maggior parte delle nostre regioni, con l’eccezione di quelle minori che comprendono soltanto una o due provincie, né i confini delle regioni stesse, ne le unità amministrative locali, le provincie in cui sono divise, si basano su fatti economici, storici e culturali omogenei e unitari. Risultato: l’assenza di una vera e feconda vitale iniziativa entro l’area locale, onde una dispersione di interessi e una confusione nello sforzo. Queste circostanze portano alla decadenza, al deterioramento, alla impossibilità di una vera vita sociale la cui necessità è ormai da tutti avvertita. L’uomo non può più operare da solo in tutti i campi. La concreta, nuova definizione delle aree subregionali – un tracciamento scientifico di queste aree e l’instaurazione di una nuova volontà amministrativa e culturale – è uno degli essenziali compiti, preliminari alla creazione di una civiltà cooperativa ed assistenziale. Infatti, ci ricorda un sociologo illuminato, il Mumford, che, come l’uomo non può avere rapporti fecondi col mondo circostante finche non possiede un’intima e ferma personalità, così una comunità non può impegnarsi nei necessari scambi e rapporti con altre comunità finche non ha una vita completa su basi indipendenti e solide.
Questo significa che la ricostituzione culturale nell’ambito della regione è una parte essenziale del compito politico ed amministrativo. I nostri piani più razionali devono rispettare l’urgenza emotiva delle finalità, dei desideri, dei bisogni umani; il meccanismo più perfetto resta immoto finche i suoi organi non vengano azionati da questi mezzi. Appunto perché il regionalismo ha veramente le sue basi in spontanee motivazioni umane, possiamo aspettare con fiducia i suoi estremi progressi. E con senso di grande compiacimento rileviamo come gli studi del Comitato di coordinamento per il piano regionale del Veneto sono ormai rivolti all’enucleazione di nuove unità naturali che non coincidono necessariamente con quell’unità artificiale che è la provincia.
Non si dimentichi che nella grande opera di rinnovamento urbanistico promossa dal governo britannico, si sono ristudiate tutte le circoscrizioni di autogoverno per renderle più omogenee rispetto alla popolazione, contenendole in unità comprese fra i 60 e i 200 mila abitanti, dimensionamento che appare anche per il nostro Paese sufficientemente elastico e capace di dare alla organizzazione del lavoro di pianificazione urbanistica quelle unità e quella coerenza attualmente ardua e faticosa.
Nella Repubblica Federale della Germania Occidentale, tanto la legge fondamentale del 23 maggio 1949 quando la costituzione del 7 ottobre assegnano il diritto all’autonomia ai comuni, ma lo considerano integrabile tanto attraverso consorzi di comuni (Gemeindeverbände) quanto attraverso l’elevazione dei distretti (Kreis) ad una effettiva autonomia amministrativa sorretta da una rappresentanza popolare elettiva. L’articolo 29 della citata legge fondamentale prevede poi una nuova ripartizione del territorio federale ispirandosi precisamente a molti di quei criteri che noi riteniamo indispensabili per il funzionamento di una vera comunità, e che sono rappresentati dai «sentimenti di attaccamento provinciale, dai legami storici e culturali, dalla convenienza economica e dalla struttura sociale».
L’attivazione della vita comunale e provinciale è, come suoi dirsi, «nell’aria», annunciatrice di una feconda e libera rivoluzione. E i comuni si sono fatti paladini di un’altra grande speranza di progresso e di pace : l’unità europea. Ed è proprio il sindaco della città che ci ospita, l’amico Peyron – al quale va il nostro caloroso saluto – che annunciava tre giorni or sono con legittimo orgoglio e compiacimento la scelta di Torino a sede della Comunità europea di credito comunale, sorta già a”Francoforte per iniziativa del Consiglio dei comuni d’Europa.
Noi sogniamo e parliamo di giustizia e assistiamo giorno per giorno, senza poteri, alla corsa indiscriminata verso sempre maggiore ricchezza da parte di chi già possiede, dei proprietari di case e di terreni che vedono senza sforzo, senza lavoro, accrescere le loro ricchezze dalla marcia di una economia in accrescimento in virtù dell’operosa tenacia dei lavoratori, dei tecnici, dei dirigenti, la cui ricchezza, il cui reddito cresce assai più lentamente di quello dei detentori e dei mezzi di produzione e del suolo. Così nelle città italiane ove l’economia è visibilmente rigogliosa negli ultimi cinque anni, i proprietari di terreni hanno visto il valore delle loro proprietà crescere del 300, del 500, del 1000 per cento (non sono dati esagerati), mentre i lavoratori delle stesse città hanno avuto degli accrescimenti di reddito più o meno rilevanti, ma che stanno in un ordine infinitamente minore.
Contro questo iniquo stato di cose gli urbanisti italiani hanno sempre lottato disperatamente chiedendo da ogni parte u!la legislazione contro il plus-valore delle aree. Questo principio, è lecito compiacersi, entra ora -sia pure in una sua espressione ancor timida -in una legge ancora in corso di approvazione. Un’altra legge sociale, ancor più importante, quella che potrebbe davvero diventare risolutiva, quella che permetterebbe ai comuni di formarsi un nuovo e più ampio demanio, ha ancora una navigazione difficile, tra Scilla e Cariddi, nelle commissioni parlamentari. Fino a che larghissime masse popolari saranno estranee alla vita dello stato (non sta a me indicare la responsabilità di questa situazione, ma denunciarne le conseguenze urbanistiche), queste leggi non oseranno che scalfire in superficie gli immensi privilegi che dovrebbero affrontare.
Noi urbanisti sogniamo il verde. E la città crescendo e intensificandosi occupa i giardini del centro, e i prati della periferia vengono a poco a poco interamente sommersi. «Vendesi terreno a lotti» hanno scritto in larghi cartelli i ragionieri del centro. I comuni non comprano lotti per fare i giardini del futuro, i parcheggi, le scuole. Quando le operazioni speculative saranno compiute, la seconda ondata di compratori farà la seconda o la terza speculazione attraverso lo stratagemma meccanico dei grattacieli vendendo poi le proprietà a un prezzo inaccessibile. Dopo di che nessun amministratore assennato comprerà in superficie adeguata il terreno che servirebbe a fare le scuole all’aperto, i centri sociali, le biblioteche, i centri di acquisto centralizzati o cooperativi. Bisognerà adattarsi a sopraelevare le scuole, o far fare i doppi turni ai bambini come nelle fabbriche, lasciare il commercio com’è, costoso, frazionato, inefficiente. Non c’è nulla da fare, ci dice una classe dirigente stanca e imprevidente.
Noi sogniamo il silenzio. Gli urbanisti hanno studiato e hanno riferito sul precinct, una vasta zona urbana bene isolata, senza arterie di scorrimento, diventata tranquilla, armonica. Ma taluni amministratori amano proclamarsi urbanisti, sebbene quando i loro figli si ammalano non li curano da loro stessi, ma si affidano a chirurghi di chiara fama i quali ottengono spesso autentici miracoli: ma per molti gli urbanisti di chiara fama, i veri urbanisti, sono i nemici della città, uomini pericolosi che occorre ostacolare. E non resta all’infelice città che ricorrere quando è ormai troppo tardi a clamorose e decorative lotte contro i rumori, a costosissimi sventramenti, all’uso indiscriminato incontrollato e caotico dell’elemento verticale, i quali rimangono i sintomi più appariscenti di una concezione e di una strategia urbanistica radicalmente errata.
Noi italiani amiamo l’intelligenza e la cultura. Ma cultura e intelligenza avrebbero suggerito almeno l’imitazione. Avremmo potuto imitare Londra e Parigi, il loro grandioso piano di decentramento industriale in pieno corso di attuazione. Noi abbiamo invece, con mezzo secolo di ritardo, importato d’oltreoceano un mostro grandioso e affascinante, il grattacielo, onde consacrare una civiltà in transito: quella delle nostre metropoli del Nord.
«La metropoli», ha scritto Frank Lloyd Wright nel suo aureo volumetto Architettura e Democrazia, «la metropoli si è tanto allontanata dalla scala umana che non è più un luogo dove si viva bene, si lavori bene e si possa andare tranquillamente al mercato. E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria metropolitana. L’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli imprevista. Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare era ugualmente imprevista. Può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia pigia urbano. Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene pigiato, dimentico dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individuo pensante. Cosa riceve l’unità umana, finora ignorata da questo manicomio commerciale, in compenso dei disagi della ristrettezza, della demoralizzante perdita di libertà, dell’avvilente degradazione di un più vasto senso dello spazio? Cosa riceve oltre lo stolto orgoglio di sacrificarsi al suo tempo, di pagare più tasse e di vedere un numero sempre maggiore di gagliardi vigili ai crocicchi ? Anche il proprietario di case dovrà presto rendersi conto che, come sfruttamento vantaggioso, il successo della verticalità è soltanto temporaneo, sia nella natura che nella qualità, perché i cittadini di un prossimo domani preferiranno l’orizzontalità -dono dell’automobile, del telefono e del telegrafo – e si rivolteranno contro la verticalità fuggendola come il cadavere delle nostre città. Lo stesso cittadino le si rivolterà contro in autodifesa. Abbandonerà poco a poco la città : ora gli è molto più facile farlo. Già adesso i migliori possono fare a meno di restare».
Il piano regionale apre dunque la via al decentramento. Il decentramento – si badi bene – non è per noi un problema di conservazione, ma di civiltà. Si è confuso troppo spesso questo con la lotta contro l’urbanesimo, svolta dal regime fascista in modo iniquo: basti ricordare la pratica proibizione alle popolazioni meridionali di lasciare le loro provincie, affinché il loro abbandono non fosse reso evidente. Al contrario, il decentramento può e deve essere usato come strumento di difesa dell’uomo. Se il giovane contadino abbandona ancor oggi la montagna e i villaggi anche qui nel Nord, nell’alto Piemonte, nelle valli lombarde, nel Veneto, per cercare nelle città affollate una nuova vita con meno miseria e qualche luce spirituale, è mosso da una spinta inevitabile sino a quando soltanto nelle grandi città sorgono le industrie. E queste solo danno ai comuni e potenza e mezzi d’azione.
E come la composizione chimica di un corpo è impotente a suscitare il mistero della vita, così le cifre e i numeri, le statistiche e i calcoli dei nostri ministri, le centinaia di miliardi degli investimenti di Stato non basteranno a far progredire una nazione, se non si. è pronti ad attingere una nuova linfa vitale dalle profonde radici dell’uomo che si trovano nei villaggi, nei borghi, vicino alla natura e al paesaggio e che si esprimono soltanto nella vita dei comuni e delle provincie. Se questo non sarà compreso, i piani e i programmi elaborati a Roma, a grande distanza dai luoghi dove dovranno essere eseguiti, continueranno ad opprimere materialmente e spiritualmente un popolo di agricoltori e di operai.
Il decentramento industriale, reso facile dalle tecniche moderne più progredite, riconduce l’uomo alla terra, ristabilisce un’economia mista, un nuovo equilibrio tra agricoltura e industria, il solo capace di ridare all’uomo la perduta armonia. Gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori delle industrie debbono finalmente persuadersi che le loro ricerche e i loro sforzi devono essere al servizio dell’umana civiltà e ‘the vale la pena di affrontare una apparente perdita di rendimento se l’uomo potrà evitare l’alienazione prodotta dalle fabbriche gigantesche, e dal distacco opprimente della natura. Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini: «l’uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel profondo del suo animo, e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel segreto del suo inconscio».
Nella millenaria civiltà della terra il contadino guardando le stelle poteva vedere Iddio, perché la terra, l’acqua, l’aria esprimono in continuità uno slancio vitale, poiché l’acqua non serve soltanto a lavare il corpo, ma riguarda anche l’anima perché essa, come un battesimo, purifica il cuore. Anche l’aria lievissima della montagna è alimento dell’anima e la terra può allietare lo spirito perché in essa c’è la presenza continua del Dio vivente.
Per questo, il mondo moderno, avendo racchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche, costringendolo a vivere nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motocarri e il disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco ad una vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere. Bisogna di conseguenza avere il coraggio di affermare che la nostra società è ammalata, è mentalmente ammalata, poiché ci troviamo dinnanzi a una vera, autentica malattia dell’anima provocata dallo «sradicamento», dallo sradicamento involontario. Quando un uomo lascia la sua terra sotto la spinta della miseria, il villaggio che lo vide nascere, dove ancora lo attende il sorriso di una madre e spesso ancora l’amore dei bimbi e l’appello delle spose, si produce nella psiche dell’esiliato un dramma di cui le esplosioni tragiche, come il drammatico recente episodio di Terrazzano, sono un sintomo ormai troppo palese. Il cuore degli emigrati, che non dimenticano il loro paese – ci ha spiegato assai bene Simone Weil – è tanto irresistibilmente rivolto alla patria infelice che gli restano poche risorse affettive per l’amicizia verso il paese che lo ospita. Quella amicizia può realmente germogliare e crescere nel loro cuore solo se compiranno una violenza su se medesimi.
Anche il fanatismo totalitario è il prodotto neurotico di un’alienazione, di uno sradicamento. Si badi bene, il fanatismo, non la profonda aspirazione per una società diversa dalla nostra, finalmente e veramente libera, il disprezzo per le forze deteriori di un capitalismo decadente; ma il fanatismo, che non distingue il bene dal male, che esalta la menzogna e con essa l’errore, che si ostina nel credere all’oppressione e alla violenza, rinnegando visibilmente le forze spirituali che pur sono le sole creative. Dobbiamo rispetto a un campo di grano, ricorda ancora Simone Weil, non in se stesso ma perché è nutrimento per gli uomini: Allo stesso modo dobbiamo rispetto a una collettività qualunque essa sia – patria, famiglia, e qualsiasi altra – non in se stessa ma in quanto nutrimento di un certo numero di anime umane. Il grado di rispetto dovuto alle collettività umane deve essere molto elevato per vari motivi.
Anzitutto, ognuna di esse è unica, e non può essere sostituita se viene distrutta. Un sacco di grano può essere sostituito a un altro. Il nutrimento che una collettività fornisce all’anima dei suoi membri non ha equivalente in tutto l’universo. Poi, con la sua durata, la collettività penetra già nell’avvenire. Contiene nutrimento non solo per le anime dei vivi, ma anche per quegli esseri non ancora nati che verranno al mondo nei secoli avvenire. E finalmente, per la sua stessa durata, la collettività ha le sue radici nel passato. Esso costituisce l’unico organo di conservazione per i tesori spirituali accumulati dai morti, l’unico organo di trasmissione mediante il quale i morti possono parlare ai vivi, la sola cosa terrestre che abbia un legame diretto con il destino eterno dell’uomo, è lo splendore di coloro i quali han saputo prendere coscienza completa di quel destino, trasmesso da generazione in generazione.
Che fare? Qual’è la responsabilità dell’urbanista in questo quadro che è chiaro, che appare dalle cronache di ogni giorno sempre più tragico, anche al temperamento più ottimista? Noi dobbiamo risolutamente penetrare nella segreta dinamica della terza rivoluzione industriale e procedere con coraggio verso piani coraggiosi. Stiamo assistendo in Italia ad ampi fenomeni economici e tecnici positivi, i cui effetti nel campo materiale, culturale e spirituale potrebbero essere sterili ovvero portare innanzi un nuovo tipo di civiltà nella misura della nostra capacità di comprendere i fenomeni più profondi e più sensibili che, seguendo un disegno imperscrutabile, condizionano l’umana grandezza e l’umana miseria.
Un periodo mortale ci sovrasta perché il mondo moderno là dove la meccanizzazione ha preso il comando, può travolgere l’uomo vero, nel suo integrale valore. Il numero di coloro che protestano, che mantengono la loro indipendenza morale e intellettuale contro coloro che vorrebbero subordinare e assoggettare il pensiero e ridurre l’anima, perché è dell’anima che si tratta, è fortunatamente in rapida ascesa. L’allarme è più vivo nel campo degli scrittori e degli artisti che precedono il cammino inconsapevolmente più lento dei politici. Ci piace ricordare e salutare qui, per la sua cordiale presenza un grande architetto e urbanista di altissimo valore: Richard Neutra. Richard Neutra combatte anch’egli la nostra battaglia. Nel suo lavoro sociale ci ha dato uno dei più mirabili esempi di compiuta comunità : Channel Heights. Ma sentiamo ora il suo pensiero:
«L’umanità – egli scrive – si dirige precariamente verso la eventuale sopravvivenza a bordo di una zattera ancora improvvisata, che spesso fa acqua: la Pianificazione e la Progettistica. Al centro del problema che ora ci attende al varco, una volta presa la nostra vigorosa decisione contro le tentazioni della predestinazione o del caso sembra profilarsi la domanda: Possiamo ben separare la domenica dai sei giorni feriali ? Possiamo avere due tipi di condotta, due specie di progettazione, cioè una, in proporzioni nane, per gli usi del sabato e dedicata .alla bellezza, agli ideali, alla bontà e alla verità; l’altra di vaste proporzioni e di stampo grossolano, per la supposta utilità pratica, impastata di bruttura, squallore e barbarie di nuovo conio, avallata dal consenso generale ? In una comunità religiosa d’altri tempi, solo uno spregevole cinico avrebbe potuto formulare siffatta idea biforcuta della utilità contrapposta alla rettitudine. Subito sarebbe stato bollato di invasamento demoniaco; la sua utilità sarebbe stata riconosciuta come l’utilità dell’inferno. Ad onta del progresso tecnologico, o forse proprio a causa della sua irregolarità, il nostro ambiente di fattura umana ha manifestato una sinistra tendenza a sfuggire sempre più al nostro controllo. Più l’uomo si è allontanato dall’equilibrata integrazione con la natura, più il suo ambiente fisico si è fatto nocivo. Usura e rovina del sistema nervoso si sono moltiplicate nell’ambiente metropolitano: ce lo rammentano statistiche spaventevoli. Dalla carrozzella per bambini alla metropoli, il nostro ambiente di fabbricazione umana, zeppo di ritrovati tecnici, è divenuto lo stampo del nostro destino e una fonte di tensione nervosa inesauribile».
Il Paese può e deve essere indirizzato rapidamente verso soluzioni nuove, che ancora dieci anni or sono potevano sembrare utopistiche. Esse consistono in un rapido decentramento, mettendo a disposizione della nostra vita sociale vasti territori agricoli, quasi ovunque disponibili, giacché stiamo assistendo ogni giorno all’esodo dei nostri monti e delle nostre pianure. Quali i dispositivi, le linee, i mezzi di una nuova politica? Primo: l’utilizzazione ai fini del decentramento del grandioso programma di quartieri organici unificati. Secondo: coordinamento coerente del piano edilizio con chiaro programma di decentramento industriale. All’uopo occorre che, armonicamente composte con le linee di comunicazione e a breve distanza dai nuovi quartieri organici, siano create le nuove zone industriali, secondo l’esempio ormai collaudato delle nuove città inglesi. Terzo: un massiccio sostanziale ingrandimento degli spazi destinati ai servizi sociali e culturali, sia nella progettazione urbanistica, sia nei bilanci dello stato, delle provincie, dei comuni, della industrie, dei privati.
La civiltà di un popolo si riconosce dal numero, dall’importanza, dall’adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in. cui è esaltato, protetto tutto ciò che serve alla cultura, e in una parola all’elevamento spirituale e materiale dei nostri figli: ma questo apparato sociale è ancora il privilegio di pochi. La marcia inesorabile verso il massimo profitto, salvo poche eccezioni, è ancora la regola più evidente della nostra economia. Ancora troppo danaro è lungi dall’esser indirizzato a necessità umane che gridano urgenza, ma deviato verso investimenti che non arricchiscono la comunità nazionale.
I moderni centri sociali, le scuole specializzate di arte applicata, le biblioteche di ogni grado, gli auditori, le scuole di musica, i luoghi di istruzione artistica e via dicendo sono ancora in tutto il Paese visibilmente inadeguati nel numero e nella qualità. Eppure rispondono a bisogni sempre più vivi nel nostro popolo, bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica, bensì con la vita morale. «Eppure sono terrestri come quegli altri sebbene non posseggono una relazione diretta, che sia accessibile alla nostra intelligenza, con il destino eterno dell’uomo. Sono tuttavia, come i bisogni fisici, necessità della vita terrena. Cioè, se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa». Sono queste ultime, ancora, parole di Simone Weil, della quale, a costo di tediarvi, voglio ricordare ancora un fervente messaggio ch’io rimetto ai timidi e ai pessimisti affinché non ignorino che ogni sforzo anche modesto non sarà vano, purché nella giusta direzione: da al nostro popolo i mezzi culturali affinché si esprimano le migliori intelligenze, i più nobili cuori.
«Due sono gli ostacoli che rendono difficile al popolo l’accesso alla cultura. Uno è la mancanza di tempo e di forze. Il popolo ha poco tempo libero da dedicare ad uno sforzo intellettuale; e la stanchezza limita l’intensità dello sforzo. Quest’ultimo ostacolo non ha nessuna importanza. O almeno non ne avrebbe alcuna se non si commettesse l’errore di attribuirgliene. La verità illumina l’anima in proporzione della sua purezza non già in proporzione di una qualsiasi quantità. Non è la quantità del metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ di verità pura vale quanto molta verità pura, poiché la quantità non è in nessun rapporto col bene. Se un operaio, in un anno di avidi e costanti sforzi, impara qualche teorema di geometria, vorrà dire che sarà penetrata nell’anima tanta verità quanta ad uno studente che durante lo stesso tempo, con eguale fervore, abbia assimilata una parte della matematica superiore».
I nostri urbanisti conoscono assai bene queste preziose sentenze; ma esse in pratica stentano ancora a penetrare nel mondo del denaro al quale ubbidiscono ancor ciecamente i tesorieri, gli amministratori, i saggi difensori dei bilanci e del loro pur necessario equilibrio. Essi nei loro calcoli ormai facilitati da cervelli elettronici non danno eccessivo valore a quei fermenti spirituali e culturali, che potrebbero avviare il paese verso la sua vera rinascita. Non è qui luogo per ostentare le nostre amarezze, ma vorrei chiudere la lunga serie delle citazioni di oggi, ricordando le parole di un poeta scomparso in un volo di guerra e che esprimono tutta la nostra fede nei valori dello spirito.
«La questione che mi pongo non è punto di sapere se l’uomo sì o no sarà felice, prospero e comodamente protetto. Mi domando dapprima quale uomo sarà prospero, protetto, felice. Perché ai mercanti arricchiti, gonfiati dalla sicurezza preferisco il nomade che fugge continuamente e insegue il vento e abbellisce di giorno in giorno, perché serve un signore così vasto. Se costretto a scegliere, apprendendo che Dio rifiuta al primo la sua grandezza e la accorda solamente al secondo, immergerei il mio popolo nel deserto. Poiché amo che l’uomo dia la sua luce. E non mi importa la povertà del cero. Dalla sola sua fiamma misuro la qualità».
Non direi con questo che la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s’inoltri sugli infidi sentieri dell’utopia. Si limita ad agire secondo il precetto che dice di non tralasciare, operando giorno per giorno in minuta fatica, la fede in altre più grandi perfette realizzazioni, ma impone pure di non trascurare, per la fede in queste, l’obbligazione al quotidiano lavoro. Lo scambio continuo fra la pratica e l’ideale sia dunque la regola per la nostra condotta anche in questa fase. Studiando e sperimentando nel vivo corpo sociale, incontreremo sempre nuove difficoltà ma impareremo anche a valerci di nuovi strumenti c a perfezionarne l’uso.
E così non soltanto l’arricchimento culturale, ma la maturazione della sensibilità sociale e della responsabilità politica, in una parola quegli obbiettivi che un istituto di alta cultura a statuto democratico quale è il nostro deve proporsi, costituiranno comunque il portato sicuro e prezioso di un operare concorde, sorretto dal rigore scientifico e dal buon volere.
Seguendo questa traccia, forse anche le mie parole sono andate lontano. Mi affretto dunque a concludere affinché non siano più oltre ritardati i molti urgenti temi di questo congresso che sono appunto i temi dell’oggi. Ma consentitemi ancora, prima di lasciare la parola all’amico onorevole ministro Romita di ringraziarlo ancora per la sua presenza e di ringraziare, con lui, tutti coloro che in questa occasione hanno voluto esprimerci la loro simpatia e porgerci una testimonianza di diretto apprezzamento nella funzione e nell’avvenire dell’urbanistica.
Gli urbanisti italiani, animati da una fede comune nei valori umani e nel metodo scientifico, lavorano da anni per proporre alla società italiana quelle nuove soluzioni che il senso sociale di ogni cittadino ha già nel suo cuore e che il sole, gli alberi, la terra, i laghi, i fiumi custodiscono in un disegno eterno. Affinché la natura e la vita, ricondotti ad unità diano all’uomo rinnovato e rigenerato da un ambiente amico una vera e più splendida armonia.
Perché noi vogliamo che questa armonia fatta di bellezza e di pace e di fraternità risplenda nei villaggi, nei quartieri, nelle fabbriche e la casa dell’uomo non sia più un rifugio ma un elemento vitale di una più ampia composizione, perché l’uomo servendosi finalmente del corpo e dello spirito si riconcili a Dio e nessuno sia più straniero, schiacciato, perduto.
Discorso inaugurale al Congresso nazionale INU, La Pianificazione Intercomunale, Torino 1956