l. Origine, e cronaca della compilazione del piano.
La necessità di collegare fra loro le varie attività urbanistiche, esercitatesi fino ad ora unicamente nell’ambito comunale e di piano particolareggiato, per coordinarle in un più vasto quadro regionale ed interregionale, era da tempo avvertita in sede teorica. Questa preoccupazione era sfociata nella legge urbanistica del 1942 che prevedeva la possibilità, non ancora sperimentata in Italia, della compilazione di piani territoriali di coordinamento su scala regionale.
Fu tuttavia soltanto durante l’ultima fase del periodo bellico, quando la prolungata e forzata stasi delle costruzioni edilizie, fermando completamente tutte le attività edificatorie sul suolo nazionale, venne a determinare una netta cesura colla situazione edilizia anteguerra, ed in seguito alle sempre crescenti distruzioni del patrimonio edilizio delle grandi città industriali, che si prospettarono chiaramente la necessità, l’urgenza e la pratica possibilità di predisporre un piano di coordinamento urbanistico su basi regionali.
La cesura con la situazione anteguerra forniva infatti l’occasione di abbandonare i vecchi, arbitrari e dispersivi sistemi di costruzione, fino allora seguiti soprattutto nella edificazione cittadina (costruzione sporadica e caotica su parcelle frazionate e irregolari, senza un preciso piano distributivo, senza norme vincolative di densità e di soleggiamento, senza ordine di precedenze, senza integrazione sufficiente di attrezzature collettive, ecc.), e di sostituire ad essi, nella ripresa edilizia, un metodo di costruzione pianificata nel tempo e nello spazio.
Le distruzioni, detraendo un sempre maggior numero di locali alla già inadeguata consistenza edilizia d’anteguerra, proponevano l’urgenza di soluzioni radicali per colmare il crescente fabbisogno edilizio e reclamavano che la ricostruzione non fosse un semplice ripristino della situazione quo ante, ma si proponesse come norma il miglioramento della situazione precedente.
La distruzione di stabilimenti industriali poneva l’interrogativo se alla loro ricostruzione in sito non fosse preferibile il trasferimento in più adatte ed attrezzate località vicine o lontane.
Le distruzioni delle vie di comunicazione ponevano problemi di precedenza, di rettifiche, di migliorie.
Era d’altra parte evidente che una ripresa dell’attività edificatoria in tutti i settori edilizi, senza un preventivo piano di coordinamento sufficientemente esteso nello spazio, avrebbe significato ricalcare nella edilizia cittadina i vecchi sistemi di costruzione, appena appena addomesticati da quella blanda e condiscendente prassi urbanistica, che a Torino aveva dato i suoi frutti nella Via Roma nuova, nei casoni a blocco dell’Istituto Case Popolari, nello squallore delle barriere, nel selvaggio sfruttamento delle aree centrali e nella beata architettura dei villini.
Avrebbe significato non migliorare per nulla la situazione edilizia cittadina; ma all’opposto consolidare la situazione di sovraffollamento e di insalubrità delle abitazioni popolari, avrebbe significato non solo non risolvere, ma neppure impostare il problema delle aree industriali, avrebbe significato congestionare di traffico il Capoluogo, bloccarlo nei preesistenti errori urbanistici e continuare a concentrarvi il massimo dell’attività edificatoria, in una parola, avrebbe significato avviare Torino in tempo più o meno lontano verso la meta ambita e maledetta della metropoli, trascurando i problemi dell’intorno regionale.
Per prevenire queste conseguenze immediate e lontane e reagire a quello che sarebbe stato l’indirizzo naturale delle cose, non si presentava a noi, che tali tendenze osteggiavamo in linea critica, altro che una sola possibilità di azione: la compilazione, di un piano urbanistico dimostrativo.
Questi i moventi che spinsero il nostro Gruppo ad occuparsi fin dall’autunno 1944 del Piano Regionale Piemontese. Ci confortava allora la convinzione che la fine del conflitto avrebbe fornito l’occasione, veramente unica nella storia di questo secolo, di poter dare inizio ad una sia pur lenta, ma graduale ed integrale organizzazione urbanistica. Ritenevamo quindi indispensabile agire in questa direzione.
Purtroppo la situazione politica generale era quanto mai sfavorevole alla formazione dei piani. Le voci, che fin dal 1941-1942 si erano levate dalle colonne di Costruzioni e di Architettura Italiana a richiedere l’immediato inizio di una vasta e coordinata attività pianificatrice, erano rimaste senza seguito. I tempi non erano allora maturi: l’organismo politico italiano, che stava entrando nella fase finale della profonda crisi storica che ci ha travagliato, era assolutamente estraneo al promuovere, appoggiare e favorire una attività lungimirante, che richiede innanzitutto, da parte di chi la inizia e vi si dedica, una serena fiducia nel futuro ed una lunga prospettiva di pace. Parimenti, la successiva tragica situazione dell’Italia occupata, divisa e frazionata costituiva un forte ostacolo ad una attività pianificatrice regionale e nazionale. Ogni iniziativa di carattere ufficiale era dunque preclusa: non rimanevano che l’iniziativa e l’attività privata in un campo strettamente limitato.
Intanto una grave conseguenza della generale situazione militare e politica si stava profilando: non era assolutamente possibile che al termine del conflitto l’Italia avesse pronto un programma urbanistico ufficialmente approvato da immediatamente attuare.
Ciò importava, oltre che il crollo dell’illusione in una immediata mobilitazione generale per la ricostruzione pianificata, vagheggiata come ideale e luminoso trapasso dallo stato di guerra allo stato di pace, anche il pericolo dello slittamento verso quei sistemi di costruzione, che assolutamente si volevano contrastare e trasformare.
A mitigare questa cocente delusione stava la coscienza che la nostra situazione, comune del resto a molti dei paesi europei, squassati dal conflitto, non era ancora tale da pregiudicare completamente e per sempre la formazione dei piani: questi restavano pur sempre urgenti ed impellenti, ma era anche facilmente prevedibile che le difficoltà finanziarie, dovute all’assestamento economico e sociale, ritardando una ripresa edilizia su vasta scala, avrebbero determinato un intervallo di tempo sufficiente all’approntamento dei piani.
Una razionale riorganizzazione urbanistica era dunque soltanto ritardata, ma non ancora definitivamente compromessa.
Queste circostanze ben note, che fortunatamente appartengono ad un passato ormai lontano, giustificano il notevole ritardo con cui oggi si procede, in Italia, all’approntamento ed alla applicazione dei programmi urbanistici e spiegano anche, in parte, il presente generale disorientamento del pubblico nella scelta di un chiaro indirizzo nella ricostruzione edilizia.
L’aver richiamato tali circostanze di carattere generale serve inoltre per la comprensione delle difficoltà in cui si è mosso il nostro gruppo durante i primi passi per lo studio della pianificazione regionale del Piemonte.
Specie il reperimento e la raccolta del materiale statistico, occorrente per .una chiara visione d’insieme dei vari fattori urbanistici, non fu esente da ostacoli di ogni genere: le biblioteche locali bruciate o sfollate, la disorganizzazione completa degli Uffici e delle Pubbliche Amministrazioni durante l’ultima fase della guerra, la diffidenza generale da parte di ogni Ente, cui ci si rivolgesse, durante l’occupazione, per la richiesta dei dati, l’assenteismo e l’indifferenza degli stessi nei primi mesi dopo la liberazione, contribuirono ad aggravare il compito oneroso che ci eravamo proposti.
Finalmente il passaggio delle provincie del Nord al Governo Italiano ed il processo di riorganizzazione nazionale, unitamente al normalizzarsi della situazione generale, contribuirono a chiarire le relazioni ufficiali e facilitarono gli scambi colle autorità centrali.
La prima comunicazione pubblica del nostro studio fu presentata al 1° Convegno Nazionale per la Ricostruzione, tenuto in Milano nel dicembre 1945.
Successivamente nel febbraio ‘46, in occasione di una pubblica riunione indetta dal Sindaco di Torino, veniva data lettura di una relazione sui concetti generali del piano che ebbe notevole eco nella stampa locale.
Nel mese di aprile, su personale invito del Presidente del Consiglio delle Ricerche Prof. Colonnetti veniva allestita a Roma la prima Mostra di alcuni degli elaborati del Piano con l’intervento del Ministro Cattani e del Consiglio Superiore dei LL.PP. Nelle venti tavole esposte, erano illustrati in gran parte i risultati delle ricerche analitiche e statistiche effettuate nei vari campi di indagine, come premessa alla redazione del Piano.
L’interessamento e l’incoraggiamento delle Autorità a questi studi si concretavano successivamente nella decisione, da parte del Ministero dei LL.PP., di procedere alla compilazione del piano territoriale di coordinamento della Regione Piemontese. La pianificazione urbanistica regionale inizia ufficialmente così il suo primo esperimento in Italia, ed è per noi motivo di grande compiacimento che questo abbia ad esercitarsi sul territorio del vecchio e industrioso Piemonte.
Nelle pagine che seguiranno verrà illustrata e riassunta una parte dello studio regionale, sia nell’indirizzo metodologico che nei principi generali, ed alcune pratiche applicazioni.
[…]
3° Principi generali dell’urbanistica regionale.
Quali gli scopi di un piano regionale? Scopo generale del piano Urbanistico è quello di trasformare gradualmente la situazione di fatto di una data circoscrizione territoriale in modo da crearvi, in tempo più o meno breve, le più efficienti condizioni possibili per le attività produttive e le migliori condizioni ambientali di vita per la popolazione.
Per illustrare questo concetto noi possiamo pensare ad esempio che la Regione, oggi determinata nel suo stato attuale dall’elemento naturale, ma ancor più dal lavoro dell’uomo attraverso i millenni ed erede di una plurisecolare vita borghigiana, si trovi un po’ nelle condizioni di una vecchi bottega artigiana, in cui siano stati immessi da poco tempo, macchinari modernissimi, senza procedere ad una completa revisione e riorganizzazione delle attrezzature.
Se si vuole che la nuova macchina, impiantata nella vecchia bottega renda, è necessario rivedere i vecchi strumenti, sostituire gli inadatti e gli inservibili, distribuire tutti gli attrezzi secondo un processo di lavorazione che non è più quello artigianale, ripulire e riordinare.
Ecco il compito del piano urbanistico.
Naturalmente non si potranno apportare istantaneamente trasformazioni integrali. Il patrimonio edilizio, che noi abbiamo ereditato dalle precedenti generazioni, con tutti i suoi errori e le sue manchevolezze, non può essere annullato e interamente rifatto. Si tratta però di dare inizio ad un’opera di graduale ma profondo riordinamento, si tratta essenzialmente di razionalizzare tutte le opere edilizie che verranno eseguite nel prossimo futuro, per imprimere ad esse una giusta direzione. Si tratta in definitiva di stabilire le line direttrici principali lungo le quali tutta l’attività edilizia, pubblica e privata, industriale e agricola, prossima e lontana, possa indefinitamente svolgersi nelle condizioni di più alta efficienza.
Considerato in astratto ed in generale il concetto di efficienza e delle migliori condizioni ambientali di vita resterebbe tuttavia ancora molto vago se esso non avesse in concreto ed in particolare significati tecnici ben precisi nei singoli settori, cui si riferisce, e sui quali è opportuno soffermarsi alquanto.
Per l’abitazione significa
a) adeguare in tutte le nuove abitazioni il numero dei vani al numero dei componenti della famiglia, per garantire un grado di affollamento non superiore all’unità;
b) assicurare a tutte le nuove abitazioni un minimo di soleggiamento e di verde;
c) non oltrepassare dati limiti di densità fondiaria e territoriale;
d) procedere, nella formazione dei nuovi quartieri, al raggruppamento delle abitazioni secondo il principio organico. Esso si può enunciare in questi termini:
ogni gruppo di abitazioni forma un nucleo residenziale con i suoi servizi; dal raggruppamento di più nuclei; con l’aggiunta di servizi e di attrezzature collettive adeguate, nasce il quartiere organico residenziale; più quartieri organici, integrati da servizi comuni e sommati a congrue zone di lavoro (industriale, commerciale e artigiano), formano l’unità cittadina organica
”In tal modo la città residenziale diventerà una vera federazione di unità organiche e di quartieri organici residenziali, essi stessi federazione di nuclei residenziali” (Lebreton, La Cité Naturelle).
Per l’edilizia industriale significa:
a) predisporre nei complessi urbani esistenti, nelle aree di espansione degli stessi e nelle località di creazione di nuovi centri delle zone da destinare esclusivamente ad uso industriale;
b) nella determinazione di zone industriali tener conto di tutti quei fattori ubicazionali, che pongono una data area in condizione geograficamente favorevoli all’arrivo delle materie prime, alla loro trasformazione, alla distribuzione dei prodotti, ai reciproci scambi, di semilavorati tra industrie di un unico ciclo produttivo, all’afflusso e alla residenza della mano d’opera;
c) attrezzare le zone industriali con servizi generali utili al buon funzionamento della zona e ad incrementare l’efficienza degli impianti.
Il raggruppamento di numerose attività industriali permetterà di ripartire e sostenere l’onere di detti servizi, che andranno dagli allacciamenti stradali ai raccordi ferroviari, piani caricatori, magazzini generali, centrali termiche collettive, oleodotti, impianti di posta pneumatica, ecc. In un’area industriale attrezzata ogni nuovo impianto diventa automaticamente compartecipe degli investimenti di capitale, della comunità.
d) distribuire gli stabilimenti nell’interno delle aree industriali tenendo conto del ciclo produttivo generale e dei reciproci scambi di semilavorati e di prodotti, dando ai singoli stabilimenti la possibilità di espandersi e di contrarsi conformando volta a volta le dimensioni alle esigenze economiche e tecniche, in continuo divenire, della produzione industriale.
Per le attrezzature edilizie collettive significa :
a) adeguare qualità, dimensioni e numero delle attrezzature alle esigenze e al fabbisogno sia delle nuove unità cittadine organiche che di quelle zone dei vecchi centri esistenti che sono suscettibili di essere riorganizzate colla integrazione in misura acconcia di quei servizi di cui difettano;
b) distribuire le attrezzature in luoghi adatti ed a giusta distanza dalle abitazioni, al cui servizio sono destinate;
c) destinare. per esse zone tranquille di largo respiro, provviste di molta area verde e di area di riserva, con accessi separati e indipendenti dalle arterie di grande comunicazione.
Per la circolazione stradale significa introdurre nella rete varia esistente quelle modifiche che permettono:
a) di formare una completa rete di strade di grande traffico veloce tecnicamente efficiente (sezioni adeguate alle intensità di traffico, piste separate, incroci selezionati e corredati da manufatti che eliminano i punti di conflitto, ecc.);
b) di allacciare razionalmente le grandi linee di traffico regionale ai centri esistenti secondo la tecnica combinata dalle linee anulari di circonvallazione, e delle linee di penetrazione e di attraversamento veloce;
c) di riorganizzare la viabilità interna cittadina dei centri esistenti colla rigorosa classificazione in:
– arterie di grande traffico veloce (attraversamento e suoi affluenti);
– vie cittadine a traffico automobilistico lento (delimitanti i quartieri residenziali);
– strade residenziali pedonali e miste (interne ai quartieri);
d) di combinare l’allacciamento fra le strade di varia classe in modo che a alle linee di penetrazione e di attraversamento veloce si dipartano a giusta distanza, evitando il più possibile gli incroci a livello, le arterie di grande traffico veloce. Su queste si innestino a livello le vie cittadine a traffico lento, dalle quali si accederà alle strade residenziali. In tutti i casi, sia rigorosamente evitata l’intersezione a livello fra gli attraversamenti veloci e le strade residenziali.
Questi, in riassunto, alcuni fondamentali e noti principi tecnici di carattere particolare oggi diffusamente divulgati dalla più evoluta tecnica urbanistica, e la cui rigorosa applicazione consente una razionale risoluzione dei problemi edilizi e quindi la progressiva creazione di condizioni ambientali di vita migliori e più efficienti delle attuali.
Molti di essi si riferiscono a problemi che si riscontrano e si risolvono unicamente in sede di piano comunale e particolareggiato, ma già parecchi di essi, soprattutto quelli che si riferiscono alla tecnica delle nuove unità urbane, alla zonizzazione industriale e alla viabilità generale, riguardano problemi che non si possono impostare e risolvere altrimenti che in sede di piano regionale.
I principi esposti non esauriscono certamente il campo urbanistico; resta ad esempio da esaminare un importante settore: quello agrario. Lo abbiamo lasciato per ultimo perché, pur essendo intimamente connesso agli altri settori urbanistici, esso va esaminato con procedura sua propria ed in base a specifici principi.
Innanzitutto il problema agrario dal punto di vista urbanistico non è dissociabile dall’aspetto economico del maggior rendimento delle colture agricole. L’urbanista deve quindi associarsi all’economista agrario per concretare, dove occorra, un vasto programma di miglioramento e di trasformazione delle colture.
In esso, oltre ad essere contemplate particolari direttive di specifica tecnica agraria (rotazione agraria, incremento di produzione foraggiera, trasformazione dei prati stabiliti asciutti, sostituzione di colture, allevamento razionale del bestiame ecc.), dovranno essere affrontati e risolti problemi generali demografici economici e sociali, e quindi urbanistici, di enorme peso nel complesso dell’economia regionale, basata per la massima parte, in Italia, sull’economia agricola.
Essi sono essenzialmente due:
a) L’adeguamento della mano d’opera agricola ad un rendimento medio.
È nota l’alta densità di mano d’opera agricola in Italia. Là dove all’alta densità di mano d’opera agricola si aggiunge purtroppo anche una bassa produttività media del suolo (situazione dell’Italia Insulare e Centro-Meridionale, condivisa anche dalle regioni montane delle Provincie dell’Italia Settentrionale), si abbassa necessariamente il rendimento medio della popolazione agricola. Infatti, mentre l’agricoltore medio italiano coltiva 4,9 fed, cioè nutre col prodotto del suo lavoro, oltre sé stesso, altri 3,9 abitanti, e mentre l’agricoltore delle regioni di pianura, in Piemonte mediamente raggiunge gli 8,6 fed, nelle regioni di montagna piemontesi esso scende mediamente ai 2,3 fed, e in alcune Zone, particolarmente infelici, esso scende perfino al di sotto degli stessi limiti della propria sussistenza.
L’adeguamento ad un rendimento medio, indispensabile per ridurre i prezzi dei prodotti agricoli ad un livello tale da poter far fronte alla futura concorrenza estera, si può ottenere attraverso uno dei seguenti mezzi:
I – Aumentare la produttività unitaria agricola con migliorie tecniche.
II – Diminuire la densità coll’impiego della mano d’opera eccedente nella stessa località e ancora nell’agricoltura (messa a coltura di terreni incolti ecc.) o nella pastorizia e foreste.
III – Impiegare il supero di mano d’opera ancora in sito, ma in altre attività esistenti o di nuovo impianto (ad es. industrie alimentari ecc…).
IV – Permettere l’inurbamento.
V – Favorire l’emigrazione all’estero.
VI. – Favorire l’emigrazione interna, spostando l’eccedenza di mano d’opera in località adatte a riceverla, occupandola in attività produttive di nuovo impianto.
Ad esclusione della soluzione di inurbamento (sempre deprecabile se avviene nel modo spontaneo e caotico seguito finora), gli altri mezzi esposti sono applicabili e tra loro integrantesi. Il III e soprattutto il VI porgono problemi di trasferimento di popolazione e di impianto di nuove attività, che toccano nel vivo il problema urbanistico regionale.
b) La riforma agraria. – Molti gli studi che economisti e politici dedicano oggi al complesso problema della riforma agraria in Italia. Esso ha sostanzialmente due aspetti fondamentali: il problema delle dimensioni delle aziende agrarie e la revisione dei contratti agrari.
Il primo è un problema tecnico economico e politico che si presenta in modo molto vario nella Penisola e che va dal frazionamento del latifondo del Centro e Mezzogiorno all’accorpamento in unità organiche delle frantumatissime parcelle di seminativi e di prati nelle regioni montane.
Esso ha notevoli riflessi in campo urbanistico perché non è possibile effettuare un durevole frazionamento né un’utile rifusione parcellare senza al contempo provvedere ad un complesso di opere di bonifica pubbliche e private (strade, canali, acquedotti ecc.) e di attrezzature edilizie (case rurali, stalle, sili ecc.).
Il secondo aspetto, quello contrattuale, pur essendo intimamente collegato al primo, ha tuttavia un carattere giuridico e sindacale molto particolare, che fuoriesce dal campo urbanistico. Ciò nonostante hanno spiccati riflessi urbanistici alcuni schemi di riforma basati sulla gestione cooperativa delle aziende agricole, per le profonde innovazioni che essi apporterebbero nell’edilizia rurale con la introduzione, ad esempio, di nuove e complesse attrezzature collettive.
La separata risoluzione tecnica dei problemi particolari dei vari settori elencati non è ancora tale da produrre di per sé il piano regionale.
Questo rischierebbe in definitiva di frantumarsi in una numerosissima serie di varie iniziative, originate da particolari condizioni locali, e di soluzioni a queste strettamente collegate, che, se pur anche avvenissero colla razionale e illuminata applicazione dei principi tecnici esposti (il che comporterebbe già un gigantesco passo oltre alla prassi caotica delle soluzioni inefficienti e contrastanti), ancora non costituirebbero nel loro complesso tutto organicamente articolato, ma resterebbero una semplice somma algebrica di parti meccanicamente risolte e fra loro slegate, se mancasse l’elemento vivificatore del tutto, il centro motore del grande insieme regionale.
La pianificazione regionale si realizza e può assolvere il suo compito, può cioè condurre alla formazione di un organismo vivo ed efficiente, solo se viene promossa una diffusa circolazione sanguigna in tutti i settori, una profonda osmosi fra tutti gli elementi; solo se viene attuata la continua applicazione di un principio vivificatore.
La necessità di rifarsi ad un principio urbanistico generale si presenta quindi in definitiva come necessità di unità e di sintesi e la stessa ricerca e definizione di tale principio appare ora, dopo l’esame dei singoli problemi parziali, facilitata e chiarita.
Riassumiamo (anticipando i risultati delle analisi) la situazione regionale piemontese.
La Regione ha urgente necessità di saldare il deficit di abitazioni e di attrezzature: i centri urbani industriali sono sovraffollati, in essi esistono distruzioni totali, esistono tuguri inabitabili, esistono industrie in pessime condizioni ubicazionali, la campagna in alcune zone è esuberante di mano d’opera agricola, la montagna tutta soffre per l’altissima eccedenza della stessa mano d’opera.
Se si continua a costruire, un po’ meglio di prima, ma cogli stessi sistemi e nelle stesse località di prima, si saranno lasciati i problemi urbanistici demografici e sociali allo stesso punto di prima: i centri industriali continueranno ad affollarsi e ad enfiarsi, le montagne a languire. Né l’espansione a macchia d’olio, né il frazionamento dell’attività edilizia in mille opere slegate permetteranno mai una rigorosa applicazione dei principi tecnici enunciati.
Per sollevare contemporaneamente città, campagna e montagna dai mali di un cattiva urbanistica, praticata da mezzo secolo, e per razionalizzare la futura attività edilizia, industriale ed agricola, non c’è che un rimedio: instaurare una ordinata urbanizzazione del suolo, che preveda la successiva creazione nel tempo di nuove unità organiche, in cui troveranno contemporaneamente lavoro e abitazione i senza-tetto, gli ex abitatori di alloggi sovraffollati o di tuguri inabitabili, e gli emigrati dall’eccedenza demografica agricola e montana. Questi potranno diventare in tal modo i fortunati pionieri di una nuova civiltà del lavoro, impostata sulle più efficienti, più gradevoli e più serene condizioni ambientali di vita, frutto di una intelligente ed umana applicazione dei mezzi tecnici più moderni.
Il principio generale della urbanizzazione regionale capace di connettere le singole risoluzioni in un grande tessuto omogeneo, sta precisamente in questa procedura e in questo concetto:
CONVOGLIARE LA MASSIMA PARTE DELL’ATTIVITÀ EDILIZIA VERSO LA FORMAZIONE DI NUOVE UNITÀ CITTADINE ORGANICHE PERFETTAMENTE ATTREZZATE ED ECONOMICAMENTE ATTIVE.
Questo principio richiede, per poter esser tradotto in pratica, i seguenti presupposti:
l) la possibilità di effettivamente coordinare le attività edilizie, attraverso una opportuna procedura;
2) la possibilità di trasferire impianti industriali in condizioni ubicazionali migliori e di maggior rendimento;
3) la possibilità di creare nuove attività di produzione industriale;
4) la possibilità di organizzare tecnicamente le singole unità produttive entro un ciclo tecnico il più possibilmente completo ed efficiente (la zona industriale);
5) la possibilità di estendere, sull’intero territorio regionale, una oculata e previdente zonizzazione, che predisponga con lungimiranza gli adeguati vincoli sulle aree, che si prevedono, in futuro, destinate all’impianto delle nuove unità organiche.
Il principio; urbanistico enunciato, che non esclude per altro applicazioni di dettaglio della tecnica urbanistica a tutto il territorio, può essere nucleare per tutte le regioni industrialmente evolute. La sua applicazione è fonte di grandi trasformazioni economiche e sociali e feconda di deduzioni. Innanzitutto viene introdotto un metodo cosciente di urbanizzazione graduale ed organica del suolo, che permette la figliazione dal vecchio ceppo regionale di gemmazioni nuove, sane (igienicamente ed economicamente) e di grande vitalità. Ogni nuovo accrescimento è controllato e portato a vivere nelle migliori condizioni: eugenetica scientificamente perfetta. Non solo, ma i benefici influssi di questo metodo vengono risentiti in tutta la Regione, nei grandi e nei piccoli centri, nella campagna e nella montagna.
Anche ai problemi isolati e particolari viene impressa una direzione nuova e ben definita, anche per i vecchi centri può essere impostata, in questo senso, una proficua revisione urbanistica. Anziché anelare a sempre nuove espansioni, essi potranno iniziare con profitto una minuta opera di riorganizzazione interna basata sulla determinazione, nel tessuto già costruito, di zone ben delimitate che possano ricevere la individualità di un quartiere e che, colla integrazione di attrezzature collettive mancanti, con una solerte politica edilizia di sfollamento, diradamento e di risanamento, e con la intensificazione di zone verdi, possano aspirare a diventare quartieri attrezzati. Anche per i vecchi centri potrà quindi essere applicato il concetto federativo dei nuovi quartieri organici.
In tal modo il soffio di vita delle nuove unità organiche entrerà a vivificare puranche i grossi centri edilizi esistenti, salvandoli dalla tristezza dell’anonimo e insalubre casamento e dallo slittamento verso il dramma della gigantesca metropoli.
La metodica, rigorosa applicazione del concetto generale esposto e dei principi tecnici validi per le soluzioni particolari conduce inevitabilmente alla programmazione e coordinazione di una enorme massa di opere, pubbliche e private.
Ma il possesso di un principio fondamentale, chiaramente espresso e perseguito, permetterà pure di sceverare, nella mole di opere, quella logica successione che porterà a raggiungere progressivamente lo scopo.
La semplicistica obiezione, che spesso viene opposta, circa la impossibilità di impostare ed attuare piani lungimiranti in situazioni economiche difficili decade immediatamente colla facile osservazione che è pur sempre possibile la esecuzione parziale (fosse anche minima per ora), ma graduale ed elastica di un’opera che sarà completa entro un certo numero di anni.
La pianificazione regionale così esposta impegna la collettività ad un’opera di grande collaborazione umana, che può divenire reale solo attraverso la accettazione e la cooperazione generale, solo seguendo un cammino comune, percorso senza distorsioni prospettiche e senza individuali egoismi.
da: Metron n. 14, 1947