I piccoli parchi urbani dovrebbero essere qualche cosa di più che dei posti in cui sedersi o giocare. Dovrebbero anche essere delle scene da guardare da lontano; camminando lungo una strada, guardando fuori da una finestra, o cogliendone un’immagine fugace con l’angolo del nostro occhio. Quindi, i piccoli spazi urbani potrebbero contribuire all’interesse, alla varietà, e alla attrattività dei quartieri. Essi potrebbero essere una forza decisiva per contrastare la formazione di aree di degrado e di quartieri sporchi e densi… I vest-pocket park, in breve, non solo possono rispondere ad una funzione pratica di ricreazione ma potrebbero anche contribuire alla salvaguardia della città come un posto nel quale vivere oltre che lavorare.
Whitney Seymour North Jr.
La frase posta a premessa è contenuta in un testo del 1969 che costituisce un’opera di riferimento fondamentale per la successiva politica dei “piccoli spazi aperti urbani” di New York e, sul suo esempio, di molte altre città degli Stati Uniti: Small Urban Spaces: The Philosophy, Design, Sociology and Politics of Vest-Pocket Parks and Other Small Urban Open Spaces. Un testo scritto dal primo presidente della Park Association di New York City: uno dei principali attivisti e promotori della politica dei pocket park,1 che ha contribuito alla realizzazione dei primi “giardini tascabili”, nati a New York alla metà degli anni Sessanta.
Il lavoro fa ampiamente riferimento a questo testo, e, non casualmente, ha come titolo: Small Urban Spaces: Programming For Good Tot Lots i.
Ma il fatto che, nel titolo stesso, compaiano insieme i due termini “Small Urban Spaces” (piccoli spazi urbani), e “Tot Lots” ii (aree gioco per bambini), non è qualcosa di scontato.
Penso, anzi, che l’interesse principale di questo lavoro risieda proprio nella precisa – e condivisibile – scelta dell’autrice di legare insieme i due termini. Perchè un’area gioco per bambini non può essere nello stesso tempo un piccolo spazio urbano, in grado di attrarre anche altre persone oltre ai bambini e ai loro accompagnatori?
Non è uno spreco trascurare questa possibilità? In particolare nelle aree urbane più dense e, spesso, prive di qualità; prive, cioè, di una leggibile organizzazione urbana e di un qualsiasi “luogo” che costituisca un riferimento, riconoscibile e identitario, per la collettività che le abita.
Perché non pensare ad uno spazio che – oltre che per i bambini e i genitori o gli accompagnatori – possa essere pensato, progettato e, quindi, realizzato e, soprattutto, vissuto come un luogo di incontro e di sosta, anche per le altre persone del quartiere? Una pausa nella passeggiata di una persona anziana, che oltre a provar piacere, molto probabilmente, nel vedere i bambini giocare, le consenta di “spezzare” un percorso che, diversamente, sarebbe troppo lungo o faticoso.
Uno spazio per incontrarsi, un “luogo” in cui darsi appuntamento, uno spazio per sostare a leggere un libro, staccandosi per un attimo da un ambiente urbano spesso non solo anonimo ma sgradevole e “disorientante”iii.
Questo potenziale legame, pur non essendo esplicitamente affermato dall’autrice, viene messo in evidenza sia dalla scelta della letteratura presa in considerazione,iv sia, senza alcun dubbio, dai risultati delle intervistev, riportate in una apposita matrice, e dalle osservazioni da lei stessa svoltevi.
L’occasione che ha spinto l’autrice ad affrontare questo tema, come lei stessa dichiara, le venne suggerita dalla osservazione che in molte aree gioco di Mid-Cambridge,vii erano presenti altre persone, come lei, senza bambiniviii, e dalla riflessione che da questa semplice osservazione essa fa discendere: se “questi piccoli spazi urbani possono svolgere un ruolo importante non solo nella vita dei bambini più piccoli che vi giocano, ma anche nella vita di tutti i residenti del quartiere essi possono diventare degli spazi ancora più preziosi nei quartieri densi”.
La domanda successiva è: che cosa fa sì che queste aree possano risultare “attraenti per altre persone oltre ai bambini e ai genitori?”.
Dopo aver effettuato una sintetica rassegna delle indicazioni contenute nella letteratura sui piccoli spazi urbani e sulle caratteristiche delle aree gioco pubbliche per i bambini, l’autrice individua, secondo particolari criteriix, tre aree gioco per bambini in un quartiere di Mid-Cambridge sulle quali focalizzare l’attenzione.
Quello che le appare immediatamente evidente è come le tre aree, benché poste all’interno dello stesso ambito edificato e molto vicine tra di loro, fossero utilizzate in modo molto diverso: una delle aree era molto utilizzata ed aveva, in alcuni casi, un problema di relativo sovraffollamento, mentre le altre due risultavano sistematicamente sottoutilizzate o, spesso, completamente inutilizzate.
Quali sono le ragioni – si domanda l’autrice – che attraggono maggiormente la gente del quartiere a Cooper Square, anziché a Maple Avenue Park o a Wilder Lee Park? Si tratta di aree che, oltre ad essere tra loro vicine, sono anche dimensionalmente molto similix.
La letteratura – sostiene l’autrice – non dà una risposta chiara, anche se i gli elementi fondamentali messi in evidenza dalla letteratura presa in esame corrispondono in larga misura a quelli che emergono dai risultati della stessa indagine. I principali temi che vengono affrontati sono, nella sintesi dell’autrice, quelli delle attrezzature per il gioco, delle dimensioni, del rapporto sole e ombra, della sicurezza e della gestione. Lo studio dimostrerebbe “una vasta sovrapposizione tra le caratteristiche indicate dalla letteratura esaminata, e quelle che la gente percepiva come buone qualità nei tre lotti studiati”
E, tuttavia, non sono sufficienti: l’autrice segnala come i testi sulle aree gioco non forniscano particolari indicazioni oltre a quelle che riguardano direttamente le attrezzature per il gioco e i problemi legati allo sviluppo psicofisico del bambino. Né, aggiunge, oltre a quelle segnalate, altre indicazioni possono ritrovarsi nella letteratura sugli Small Open Spaces.
La ricerca della ragione di questa distribuzione profondamente diseguale dei fruitori nei tre “tot lot” esaminati, porta quindi l’autrice a cercare di individuare, attraverso l’osservazione diretta e l’esame dei risultati delle interviste, quelli che, con una espressione forse un po’ enfatica, essa chiama “the attributes of goodness”; espressione che ho tradotto – credo correttamente – con “caratteristiche di qualità”, ma che potrebbe anche essere interpretata, e la stessa lettura dello studio potrebbe suggerirlo, come “gli attributi della bellezza”: il termine di “bontà” (goodness) potrebbe, infatti, essere facilmente accostato – soprattutto quando è riferito alla qualificazione degli spazi urbani – a quello di “bellezza”.
Quali sono, allora, le ragioni che portano a preferire, in modo assolutamente evidente, un’area alle altre?
La domanda è certamente impegnativa, ma il dato della realtà del diseguale utilizzo è talmente evidente da imporla. Ed è una domanda indubbiamente interessante.
La risposta che l’autrice fa discendere dall’indagine e dalle proprie osservazioni è una risposta che implica, in modo evidente, temi legati ad una corretta analisi del contesto ed alla “sapienza” della progettazione dello spazio aperto pubblico: sia dal punto di vista del “programma funzionale” sia, forse soprattutto, da quello della qualità dell’ambiente e degli spazi che lo connotano; questi “attributi di qualità”, infatti, sarebbero: l’arredo, il rapporto con l’intorno, il disegno dello spazio, la funzione sociale, l’accessibilità, la vicinanza e la frequenza d’uso.
Nel concludere il suo lavoro (oltre a segnalare come l’osservazione della “diseguale distribuzione degli utenti dei tot lot individuata in questo studio” possa fornire “una base di partenza per future ricerche”) l’autrice sottolinea, quasi con cautelaxi, una verità che può apparire banale ma che – pensando alle molte, anonime “aree verdi” distribuite nelle nostre città – non sembra affatto scontata: che “la qualità dello spazio influisce sull’uso”.
La lettura di questo testo, quindi, credo potrebbe essere utile a chi progetta lo spazio aperto pubblico urbano (si tratti di un’area gioco per bambini, di una “piazza verde”, di un piccolo giardino …); perché non vi sono dubbi che la stragrande maggioranza delle aree verdi delle nostre città (le aree dello standard fissato dalle leggi statali e regionali) sia, in generale, desolantemente priva di qualsiasi investimento culturale e progettuale.
I dati della realtà ci porterebbero a dire che molti dei nostri “spazi verdi” sembrano essere totalmente privi non solo delle caratteristiche di qualità che l’autrice individua, ma anche delle stesse, spesso banalixii, indicazioni fornite dalla letteratura che affronta questi temi.
Ritengo, quindi, pienamente condivisibile l’affermazione contenuta al termine del secondo capitolo: le città “dovrebbero investire per il monitoraggio e la valutazione della qualità degli spazi aperti esistenti prima di prendere in considerazione la creazione di nuovi spazi pubblici ”. Non credo vi possano essere dubbi, infatti, che anche la sola spesa per il taglio dell’erba possa essere considerata uno spreco di denaro pubblico nel caso di “aree verdi” che, come spesso accade, risultano sostanzialmente inutilizzate o significativamente sottoutilizzate.
Vorrei, a questo punto, proporre un’intelligente riflessione che l’autrice, molto correttamente, esprime ad alta voce. Una riflessione che, purtroppo, sembrerebbe implicare inequivocabilmente (ed, evidentemente, non solo nella realtà del nostro paese) la mortificazione del tentativo stesso di investire energie culturali nella progettazione dei Piccoli Spazi Pubblici Urbani, nonostante sia difficile non riconoscere come questi spazi siano una delle risorse più preziose sulle quali intervenire per la necessaria “costruzione”, all’interno di quartieri costruiti spesso troppo in fretta, di nuove “centralità urbane”. Credo, infatti, che l’esigenza di spazi aperti pubblici “di qualità”, in grado di costituire un riferimento collettivo, una “infrastruttura della socialità”, sia un’esigenza particolarmente avvertita, e che dietro la domanda di “aree verdi” ci sia spesso una richiesta più complessa, di spazio pubblico di qualità, che non riesce ancora ad esprimersi compiutamente e che spesso gli amministratori e i funzionari urbani non sanno, o non vogliono, nemmeno tentare di interpretare.
Lascio parlare l’autrice: “Gli architetti del paesaggio stanno diventando sempre più consapevoli e impegnati nel progetto delle aree per il gioco, ma il budget destinato al miglioramento delle aree gioco non è abitualmente sufficiente per pagare le competenze di una progettazione professionale. Come risultato, altri professionisti come i produttori di attrezzature per il gioco e le imprese, sono chiamati a disegnare e a realizzare le aree gioco portando alla standardizzazione di questi spazi, alla uniformità e alla mancanza di creatività. Inoltre, poiché spesso le città lavorano solo con uno o due produttori di attrezzature per le aree gioco, vengono create aree gioco per bambini con le stesse attrezzature per il gioco, perfino lo stesso colore e la stessa configurazione”.
Sarebbe invece fondamentale pensare agli Small Urban Spaces – e in questa categoria, come la tesi sostiene, dovrebbero essere comprese anche le piccole aree gioco per i bambini – come a spazi con una precisa identità, che possano costituire dei riferimenti urbani per i cittadini; spazi qualificati nel loro disegno e nella loro organizzazione, in grado di offrire ambienti capaci di accogliere e favorire differenti possibili “contenuti”: l’incontro, la sosta, il gioco, la distensione, ecc.
Mi sembrano particolarmente convincenti, a questo proposito, le parole di Jane Jacobs che, nel descrivere un luogo pubblico “di successo”, immaginava uno spazio complesso, che potesse essere usato “secondo le occasioni, per motivi diversi: per riposarsi, per giocare o guardare altri che giocano, per leggere o lavorare, per mettersi in mostra, per un appuntamento, per assaporare da un tranquillo rifugio l’attività febbrile della città, per avere occasione di innamorarsi o di far conoscenze, per immergersi in un angolo di natura, per tenere occupato un bambino o semplicemente per vedere che cosa il luogo offre, e quasi sempre per divagarsi con la vista di altre persone”xiii.
La sfida che andrebbe raccolta è quella di realizzare piccoli spazi urbani nei quali possano avere luogo una pluralità di attività, di iniziative e di piccole manifestazioni di quartiere (mostre, feste, incontri, compleanni, ecc.); ma anche spazi con letti di semina in cui i bambini delle scuole più vicine possano piantare e veder crescere ortaggi, piante aromatiche, ecc.
In questi piccoli spazi urbani, infatti, una volta definito l’impianto morfologico-formale, potrebbe non essere già tutto deciso; potrebbe essere lasciata la possibilità alle scuole, alle associazioni o a gruppi di cittadini (e, perché no, anche ai guerrilla gardener) di intervenire, favorendo il senso di una loro – positiva e progressiva – appropriazione e cura da parte degli abitanti.
Credo di poter concludere questa breve prefazione osservando come la mancanza di attenzione, che troppo spesso si avverte su questi temi, sia particolarmente grave, soprattutto – lascio ancora la parola all’autrice – se si pensa che:
“questi spazi urbani sono dei tesori, nei quartieri urbani densi e non prestare attenzione al disegno, al miglioramento e alla manutenzione di questi spazi significa disinteressarsi del benessere e della stessa vita quotidiana delle comunità urbane”.
1 I pocket park (o, come più spesso venivano chiamati, vest-pocket park, letteralmente parchi a tasca di giubbotto, per essere generalmente “infilati” in lotti chiusi su tre lati) sono una nuova tipologia dello spazio pubblico urbano, generalmente “user generated”: ricavati per iniziativa delle comunità di quartiere – all’interno di isolati urbani densamente sfruttati – su piccoli lotti inedificati o liberatisi per la demolizione degli edifici preesistenti. I primi tre giardini tascabili furono realizzati ad Harlem nel blocco della 128th West Street, nel 1965. Il fronte, che si apriva direttamente sul marciapiede, corrispondeva a quello di un piccolo lotto edilizio: l’affaccio era in genere non più largo di sei metri, per una profondità interna di trenta. La dimensione di questi “lot-size park” era, quindi, modestissima: non superava, nei primi interventi, la grandezza di 180 – 200 m2. La loro caratteristica era quella di non essere stati previsti, “pianificati”, nel quadro di un preventivo disegno urbano, ma di essere stati realizzati “a posteriori”, sulla base dell’iniziativa di cittadini progressisti, filantropi, attivisti sociali e religiosi, che intendevano in questo modo contribuire a contrastare il degrado sociale e umano che caratterizzavano Harlem in quegli anni. Questa esperienza – descritta nel fondamentale libro, pubblicato nel 1969 da Whitney North Seymour, Jr., Small Urban Spaces: The Philosophy, Design, Sociology and Politics of Vest-Pocket Parks and Other Small Urban Spaces, New York University Press, 1969 – sembra avere conquistato, dopo il suo “sbarco” in Europa, nel 1997, una nuova giovinezza. In quell’anno l’amministrazione comunale di Lione lanciò un programma per la realizzazione di 25 “jardin de poche”, che si presentava con la dignità di un “progetto urbano” di grande respiro, nonostante le modeste dimensioni dei singoli interventi previsti; esso reinterpretava in modo originale l’esperienza newyorkese, dimostrandone la grande duttilità come strumento di intervento sullo spazio pubblico urbano. Dalle prime esperienze di Lione con la realizzazione di sette jardin de poche, tra il 1997 e il 2001, l’idea dei giardini tascabili si è diffusa, seppure talvolta in modo più episodico, in altre città francesi ed europee. A Villeurbanne sono stati realizzati tra il 2001 e il 2008 sette jardin de poche che interessavano lotti urbani vacanti, spazi urbani abbandonati o inutilizzati e spazi residuali della viabilità. A Ginevra nel 2006 è stato inaugurato il primo jardin de poche, recuperando un piccolo spazio inutilizzato per realizzare un semplice luogo di sosta lungo un importante percorso urbano. In particolare la realizzazione di pocket park sta per diventare uno dei “biglietti da visita” della città di Copenhagen in vista della manifestazione “Copenhagen 2015 – Eco-metropole”: per quella data la città di Copenhagen ha infatti previsto, nel quadro di un intervento complessivo sul sistema del verde e degli spazi pubblici, la realizzazione di 14 lommepark, il primo dei quali, Odinsgade, è già stato realizzato nel quartiere di Nørrebro.
Sulle origini e sugli sviluppi più recenti di questa nuova tipologia dello spazio pubblico urbano, si veda: Giampiero Spinelli, “Giardini tascabili – Harlem 1965: i primi pocket-park”
Prefazione a Carolina Simon, Piccoli spazi urbani: indicazioni per aree gioco di qualità, Maggioli 2010 – Pubblicata per concessione dell’Autore
NOTE
i Si tratta di una tesi, presentata da Carolina Natividade Simon come Partial Fulfilment of the Request for the Degree of Master in City Planning, al Massachussets Institute of Tecnology nel 2003, recentemente pubblicata in versione italiana e inglese: “Piccoli spazi urbani: indicazioni per aree gioco di qualità”/”Small Urban Spaces: Programming for Good Tot Lots”, traduzione e prefazione di Giampiero Spinelli, Maggioli Editore, 2010, su licenza del Massachussets Institute of Technology.
ii La National Recreation and Parks Association definisce i “tot lots” come il più piccolo tipo di parco destinato a servire i bambini al di sotto dei 12 anni. La NRPA suggerisce che questi parchi dovrebbero servire un raggio di utenza a piedi di ½ di miglio dalle aree residenziali (800 m cca).
iii A chi non è mai capitato di perdersi, o di non riuscire ad orientarsi, di non trovare “punti di riferimento” nelle informi periferie che, generalmente, caratterizzano le nostre città?
iv L’autrice, infatti, nell’indicare il tipo di letteratura da lei esaminata, che ha costituito riferimento per la stessa composizione del questionario, fa riferimento da un lato a testi come Small Urban Spaces: The Philosophy, Design, Sociology and Politics of Vest-Pocket Parks and Other Small Urban Open Spaces di Whitney Seymour North Jr. (New York, New York University Press, 1969), e, dal’altro, ad opere più recenti, specificamente dedicate alla progettazione delle aree per il gioco dei bambini.
v E’ indubitabile – e l’autrice lo dichiara esplicitamente, – che il campione limitato delle persone, in tutto 47, che hanno risposto al questionario e che sono state elaborate in una apposita matrice, non autorizzano a eccessive generalizzazioni; tuttavia l’insieme degli argomenti portati dall’autrice è convincente nel riconoscere che un “luogo” correttamente progettato non solo attrae più bambini e genitori, ma viene generalmente frequentato anche da altre persone, indipendentemente dai bambini.
vi Nei cinque capitoli della tesi l’autrice intende individuare un approccio in merito a come i progettisti, i pianificatori, i funzionari della città e le associazioni di quartiere potrebbero valutare i piccoli spazi urbani e le aree gioco per i bambini. Essa propone degli indicatori che segnalano le aree gioco ben fatte e suggerisce un metodo di valutazione. Il lavoro comprende una sintetica rassegna della letteratura sui piccoli spazi urbani e sulle aree gioco e una ricerca localizzata, basata sia su un’analisi dei frequentatori sia sull’osservazione diretta di tre aree gioco in Cambridge, MA.
Il primo capitolo introduce gli argomenti della tesi, i problemi e le intenzioni. Esso discute anche del ruolo dei piccoli spazi urbani e delle aree gioco per bambini come viene presentato nella letteratura che affronta questi temi. Il secondo capitolo introduce i casi studiati, tre aree gioco per bambini in Mid-Cambridge, e discute il loro contesto, anche alla luce di due studi predisposti dalla Città di Cambridge. Il terzo capitolo illustra il processo di ricerca a tre step usato per identificare le caratteristiche di qualità delle aree gioco:una rassegna della letteratura sui piccoli spazi urbani e sulle caratteristiche delle aree gioco pubbliche per i bambini; un esame dal punto di vista degli utilizzatori delle aree gioco: genitori e custodi che hanno risposto a un questionario scritto: osservazioni in situ delle aree gioco analizzate. Il quarto capitolo mette insieme in una matrice le informazioni ottenute dall’esame della letteratura, dai questionari scritti e dalle osservazioni. Il quinto capitolo, infine, conclude con una lista delle più importanti caratteristiche di qualità individuate nello studio e con raccomandazioni per il progetto delle aree per il gioco, suggerendo la direzione per ulteriori approfondimenti.
vii Mid-Cambridge, dove l’autrice risiedeva all’epoca dello scritto, è uno dei sei quartieri di Cambridge, nello stato del Massachussets, solo amministrativamente separato dalla città di Boston (sede del Massachussets Institute of Tecnology) di cui costiuisce l’estensione verso sud-ovest.
viii “Per due anni ho camminato in queste aree, e mi sono mischiata con i genitori e i bambini. Ho notato altre persone come me (senza bambini) approfittare dell’ombra, dei fiori, e della piacevole atmosfera che offrono questi spazi. Se questi tot lot erano in grado di attirare altre persone oltre ai genitori con i bambini, avrebbero potuto altri spazi essere progettati per rispondere anche alle esigenze di altri residenti del quartiere?”
ix Questi criteri sono: il successo, in termini di capacità di attrazione, di numero dei frequentatori; la concentrazione, la forte vicinanza tra di loro, all’interno dello stesso quartiere; e quella che essa chiama l’affiliazione, il fatto, cioè, che le tre aree non avessero differenti modalità di gestione ma fossero tutte gestite dal Department of Public Works of the City of Cambridge e fossero, quindi, liberamente accessibili a tutti.
x L’autrice osserva, infatti, come questi “tre tot lot sono a meno di cinque minuti di distanza, a piedi, l’uno dall’altro, sono gestiti dal Department of Publics Works e ognuno di essi è inferiore a 0,2 acri”. La dimensione di 0,2 acri corrisponde a circa 2.000 mq (un acro è pari a 4046,873 m2)
xi “La risposta alla domanda se la gente si sarebbe concentrata in un solo tot lot se tutti e tre avessero avuto attrazioni per il gioco simili è … incerta”.
xii Non si può non considerare banale l’indicazione espressa, all’inizio dell’ Ottocento, dallo stesso Ercole Silva, nel suo famoso libro Dell’arte del Giardino Inglese, quando dice, parlando dei Giardini Pubblici, che un giardino pubblico “dovrà avere alcune parti ombrose a ciascun’ora del giorno, ed altre felicemente esposte durante l’inverno”; mi sembra tuttavia interessante osservare come egli stesso – pur essendo pienamente consapevole di questa banalità – senta il bisogno di esprimerla.
xiii Jane Jacobs, “Vita e morte delle grandi città – Saggio sulle metropoli americane”, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1969.