Capita spessissimo di notare vere e proprie spedizioni di gruppi di disabili in carrozzella nei grandi centri commerciali, e in generale di calcolare spannometricamente una notevole presenza individuale di persone con i medesimi problemi motori tra le scansie dei supermercati, dentro e fuori i medesimi centri commerciali. Il motivo non deve essere ovviamente spiegato a nessuno: è tanto più semplice spostarsi nelle ampie superfici lisce di un mall, di quanto non accada nelle comuni vie e piazze delle nostre città, peggio ancora quando si tratta di centri storici o periferie dove nessuno ha mai pensato a cose come le barriere architettoniche, i diritti del pedone e compagnia bella. Un punto a favore dell’odiata (da qualcuno) grande distribuzione? Probabilmente solo un punto perso sia dalla pubblica amministrazione che dagli interessi vari e diffusi che hanno contribuito a questo stato delle cose. Certo è vero, adattare contesti urbani tradizionali, magari resi un po’ più perversi dall’arrivo dell’automobile ovunque, è un problema molto più complesso che progettare un funzionale scatolone su una tabula rasa. Però la questione resta aperta, e non ha senso negarla, come fa chi ideologicamente continua a sostenere a spada tratta la superiorità in assoluto delle botteghe urbane classiche.
Prendiamo un caso emblematico come quello britannico, dove ormai da decenni il dibattito sia scientifico che sociale e politico sul tema è forse il più avanzato del mondo. E dove si è capito da tempo che lasciar fare solo al libero mercato, o imporre al contrario scelte pubbliche dirigiste, significa combinare guai peggiori di quelli già visibili in termini di squilibri urbano-extraurbano, desertificazione e degrado delle arterie commerciali, prosciugamento e comunque perdita di senso dei mercati rionali e assimilati. Cose che, come suggeriscono esperienza e buon senso, non si riflettono solo sui rapporti fra distribuzione e consumo, ma si allargano all’abitabilità e sicurezza dei quartieri, ai valori immobiliari, alla qualità ambientale in senso lato. L’ultimo tentativo di intervento in ordine di tempo è quello dell’autorità pubblica coordinata dall’esperta tecnica Mary Portas, che secondo alcune linee guida a integrare politiche urbane varie, eroga finanziamenti per il rilancio delle high-street. Il cui senso si può anche riassumere con la spinta ad offrire contesti e servizi davvero competitivi rispetto ai grandi contenitori urbani ed extraurbani, così che poi i meccanismi di mercato colmino il resto della distanza.
L’aspetto sottolineato all’inizio è di ordine prettamente urbanistico e edilizio: come si può realizzare, trasformare, gestire, far evolvere, un contesto spaziale adeguato ai bisogni sociali emergenti e via via maggioritari? Ci sono problemi di finanziamento, prima di tutto: deve sostenere tutto la città (e quindi il contribuente) oppure devono partecipare anche gli esercenti, e se si in quale misura? E chi decide modi e tempi della trasformazione? Quello che emerge per esempio dai progetti delle pedonalizzazioni nei centri storici, per le piste ciclabili o gli spazi condivisi, è un atteggiamento molto conservatore, a dir poco, dei commercianti. In pratica, avendo investito mentalmente e finanziariamente in un certo genere di organizzazione spaziale automobilistica, tradizionale, anche se magari del tutto inefficiente, i negozianti non ne vogliono sapere di assomigliare un po’ di più all’offerta del centro commerciale, anche se pretendono di essere tutelati da quella che considerano a torto o a ragione una concorrenza impari.
Ma c’è un altro aspetto, complementare e meno evidente, salvo che in modo diretto alla clientela. E si riassume così: non è vero che i piccoli esercizi, o in generale gli esercizi urbani e di quartiere, siano un fattore di vitalità, sicurezza, miglioramento della qualità. Anzi a volte quella qualità la peggiorano parecchio, come nella Londra letteralmente assaltata dai giganteschi contenitori come quelli della Westfield (a Sheperd’s Bush e nel complesso olimpico di Stratford), dove parallelamente imperversa il degrado sociale indotto dal genere di piccoli negozi che si collocano nei quartieri. Vendono schifezze, in pratica approfittando del piccolo monopolio locale, replicando con criteri simili gli effetti devastanti che negli Usa definiscono i cosiddetti “deserti alimentari”. Ampie zone dove per motivi vari – storici, socioeconomici, di mercato – non esiste una adeguata rete di negozi, e anche per i pasti casalinghi si ricorre per amore o per forza a cibi malsani, al modello fast-food, o peggio, con effetti micidiali sulla salute collettiva.
Eppure risulta difficile intervenire su un contesto del genere e non essere accusati di dirigismo magari stalinista: cos’hanno fatto di male questi negozianti, se non inserirsi in una nicchia di libero mercato offrendo prodotti e servizi che il consumatore in qualche modo apprezza, facendoli legittimamente guadagnare? Non c’è nessuna legge o norma municipale che proibisca di friggere bocconcini di carne, spillare bevande dolci gassate, proporre merendine industriali in vetrina, o fiaschette di liquore a poco prezzo, cose regolarmente prodotte e distribuite ovunque. Se si seguono le prescrizioni urbanistiche, sanitarie, di igiene, e si pagano le tasse, non c’è nulla di sbagliato. Mah: tutto legale forse, però come si chiede giustamente l’osservatore c’è qualcosa che non va. Ed è esattamente il fondamento di qualunque politica pubblica, fiscale, urbanistica ecc., a favore dei piccoli esercenti perché danno vita ai quartieri. Il pollo fritto e le fiaschette di grappa di vita ne danno piuttosto breve, soffocata da colesterolo e fegati ingrossati. La socialità misera che si raggruma attorno alle nuvole di grasso mescolate agli scarichi delle auto, in modi assai simili a quelli delle movide alcoliche di tutta Europa, è difficile da etichettare come trionfo dell’urbanità, e ancora più difficile da foraggiare con sussidi.
In conclusione, tutto il nostro spontaneo schierarci sempre a favore dei piccoli negozi, buoni a prescindere, come ogni schieramento spontaneo e istintivo alla fin fine è una grande sciocchezza che nasce da un equivoco. Siamo a favore di una città più bella e più giusta, non necessariamente di superfici unitarie più o meno contenute, o gestioni multinazionali o familiari, accessibilità libera o regolamentata. Quelle sono solo semplificazioni schematiche, a volte utili a volte no. Guardare in faccia le cose insomma, invece di inforcare le classiche fette di salame, aiuta sempre.