Qualche anno fa, durante la tradizionale emergenza autunnale piogge, che vede tutti impegnati nel rito dell’indignarsi stagionale per l’indebita cementificazione dei dintorni di casa propria, era spuntata sui giornali la suggestiva foto di un centro commerciale allagato. Immediatamente e forse meritatamente assurta a feticcio di infinite campagne, personali e associative, contro la proliferazione di quei baracconi in ogni buco, indipendentemente dall’utilità in quanto negozi, e all’opportunità ambientale. Ok su tutta la linea, senza sollevare alcuna questione per il momento, ma sottolineare qui un aspetto sottaciuto: quella foto era simbolica anche per la sua relativa eccezionalità, nel senso che un centro commerciale allagato suona tecnicamente assai simile a un centro commerciale dove si fatica a trovare parcheggio, o dove si soffoca dal caldo d’estate, o dove si entra per trovare i negozi chiusi. Quella foto era simbolica e colpiva anche perché rappresentava qualcosa di eccezionale ai limiti dell’impensabilità insomma. E per capirlo basta andare in un centro commerciale in questi giorni di piogge autunnali continue e sostenute: ci si troverà una vitalità incredibile, che contrasta ulteriormente col deserto fangoso all’esterno.
La scatola delle meraviglie asciutte
Victor Gruen, l’inventore dello scatolone commerciale introverso con parcheggio a ciambella, sosteneva che la sua non fosse affatto un’invenzione, ma solo lo sviluppo coerente della famosa città su vari livelli e ambienti di Leonardo da Vinci, quella che spunta sempre dai famosi schizzi del genio toscano. E in effetti da un certo punto di vista è così: il sistema tecnologico del contenitore a clima controllato, con una circolazione di auto e pedoni il più possibile integrata, è a suo modo un capolavoro di efficienza: si arriva, si parcheggia in un posto di solito non lontanissimo dall’edificio (il vero automobilista cronico suburbano spesso non sa neppure cosa sia un ombrello), e si entra nell’ambiente simil-urbano della passeggiata commerciale, all’asciutto se diluvia, al fresco se ci sono quaranta gradi, con le panchine imbottite dove al massimo si viene scocciati, ma senza troppa insistenza, dal tizio dei divani letto anatomici o da quello dell’offerta telefonica del secolo. Naturalmente quello è, come ci insegnano i critici, il tempio del male, dove siamo in preda alla lussuria consumista del peggior capitalismo rapace, stiamo sfruttando il lavoro malpagato dei bambini dei paesi poveri, stiamo scaricando tonnellate di emissioni nell’atmosfera inducendo il suicidio della specie di qui a pochi mesi. Però, al netto da queste funeste prospettive, il culo all’asciutto non si può negare, mentre fuori diluvia, e nell’attesa dell’armageddon inevitabile sulla panchina imbottita, viene in mente il paragone con quanto è oggettivamente conciata la città là fuori.
La nostra bella città depredata
Perché qui sta il punto: la vera fregatura del centro commerciale è che si tratta del classico caso di invece, e non come ci viene spiegato da anni e anni di inoltre. Di solito si pensa a questa cosa in senso esclusivamente corporativo, coi paraocchi conservatori della solita storia dei negozi falliti per la concorrenza sleale (chissà perché sleale, lo devono ancora spiegare) degli scatoloni, delle vie desertificate, del peccato mortale di restare aperti di domenica invece di andare a messa e allo stadio, oltre che all’ospedale o al cimitero, come pare debba essere nella natura umana. La questione della svista fra inoltre e invece sta (invece) nel termine di origine americana disinvestimento: di fatto il governo del territorio in senso lato ha sottratto risorse alla città pubblica per destinarle perversamente al sistema suburbano, sostanzialmente privatizzato con l’eccezione degli spazi pubblici a orientamento automobilistico. Il risultato, anche al netto di ruberie, ignoranza, speculazione e relativi disastri, lo possiamo vedere passeggiando (o meglio sciacquettando) qualche centinaio di metri nei residui piazze, giardinetti, vie commerciali di qualunque città o cittadina in questo autunno ovviamente piovoso. Tre dita d’acqua paiono poca cosa, ma quando stanno ovunque, quando impediscono di fruire decentemente di qualunque ambito non privato, o di arrivarci a piedi decentemente asciutti, sono assai più di quel centro commerciale allagato il segno di una sconfitta. Si può invertire la rotta?
Riferimenti:
Qui su La Città Conquistatrice, Victor Gruen, Origine del centro commerciale (1960), estratto da Shopping Town Usa, Reinhold Publishing