Tempo fa una giornalista del Times di Londra mentre andava al lavoro in bicicletta moriva in uno dei classici incidenti stradali stupido-tragici: il conducente di un veicolo in manovra non si era neppure accorto della sua presenza. Se ne leggono purtroppo da anni e anni di storie assurde del genere, che evidenziano in sostanza l’appiattimento delle nostre città, progressivamente da quasi un secolo a questa parte, a contenitori di indiscutibile mobilità motorizzata. Ma quello della Londra contemporanea è un ambiente particolarmente vivace, per il dibattito sul ruolo della bicicletta in città, alimentato da vari fattori concomitanti. Elencando piuttosto a caso: la riscoperta della mobilità personale di trasporto in forma molto elastica, dopo il blackout degli attentati, il varo della congestion charge in una fascia affatto microscopica della zona centrale, e ultimo ma non in ordine di importanza, un appassionato ciclista urbano, Boris Johnson, che fa il sindaco della capitale britannica.
In questo ambiente assai fertile, la reazione quasi naturale dello storico quotidiano Times, con l’ultima spinta dal caso della collega tragicamente scomparsa, è stato di lanciarsi con grande enfasi in un seminale appello per la sicurezza dei ciclisti. Che ha avuto come meritava grande eco internazionale, perché ovviamente non solo la questione e la sensibilità riguardano tutto il mondo, ma anche i tempi sono maturi ovunque, per intervenire con politiche precise, magari sulla scia di altre politiche per l’inquinamento, i consumi energetici, l’abitabilità dei quartieri ecc. Nel nostro paese il primo quotidiano a raccogliere la sfida è stato giustamente quello più popolare e diffuso, la Gazzetta dello Sport, condividendo e rilanciando parola per parola le proposte tecniche specifiche dei colleghi londinesi. Poco dopo con un articolo dal titolo perentorio «Due ruote sono meglio di quattro», anche il manifesto aderiva all’iniziativa, riprendendo il medesimo appello, parola per parola. Ed è proprio su quel «parola per parola» che ha iniziato a serpeggiarmi qualche dubbio.
Vero: a volte quando si tratta di schierarsi sono indispensabili drastiche semplificazioni, il meglio può essere nemico del bene, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, eccetera. Tutti riconosciamo l’ormai insostenibile strapotere dei veicoli a motore nelle nostre città, quartieri, territori abitati, e quanto sia pericoloso per sé e per chi non sta chiuso in un abitacolo. Ergo promuovere piste ciclabili riservate può anche essere comunque un passo avanti, indiscutibile, per la sicurezza. Però, se si prova solo a dare un’occhiata agli alleati nello schieramento pro-piste, forse aiuta a capire meglio, precisare posizioni, coniare magari una bella strategia di medio periodo da affiancare alle tattiche contingenti.
Ripartiamo dall’inizio, ovvero dall’origine dell’appello: il Times di Londra, che è il posto dove lavorava la giornalista-ciclista travolta dal mezzo in manovra. Ma c’è dell’altro. The Times è giornale un po’ in declino rispetto ai secolari fasti indiscussi, di proprietà Murdoch, sempre schierato quando la cosa conta sulle politiche conservatrici, intese con la C maiuscola dei Tories britannici, come è stato nel caso della campagna elettorale cittadina di Boris Johnson, o a livello nazionale del suo collega di partito appassionato di bicicletta Osborne, diventato – scusate se è poco – Cancelliere dello Scacchiere, nientepopodimeno che ministro dell’Economia da cui tutto il resto dipende, centesimo per centesimo.
La cosa resterebbe però ancora nel campo delle fumose o meno fumose dietrologie, se non nascesse da una considerazione pratica, così come emerge ripercorrendo i punti dell’appello, in particolare il n. 7: «I privati devono essere invitati a sponsorizzare la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili». Condivisibile, se pensiamo che i privati stanno alla base del famoso sistema Vélib voluto a Parigi dal sindaco socialista Delanöe, e che la necessità di percorsi ciclabili riservati la riconoscono tutti, ovunque. Ma confrontando grandi principi e realtà quotidiana, come a Londra, o New York, vediamo il sorgere di dibattiti anche aspri fra amministratori, cittadini, e associazioni di categoria. Argomento centrale di queste discussioni, sempre identico, ovvero il privilegio accordato a un certo tipo di utenza a scapito di un’altra: ciclisti contro pedoni, addirittura ciclisti contro ciclisti. Perché si scopre l’esistenza di un virtuale ciclista «di destra» contrapposto al ciclista «di sinistra».
A Londra il ciclismo al potere pare prediligere il cosiddetto modello lycra-clad, ultratecnologico, sportivo, ginnico e veloce, muscoli guizzanti e sfida quotidiana. Da quando la bicicletta è tornata di gran moda, si leggono abbastanza spesso sulla stampa i racconti di questi ciclisti su come affrontare curve, rotatorie, passaggi insidiosi, con determinazione e ribadendo il proprio pieno diritto alla strada. È a questo genere di ciclista, e indirettamente al suo complementare automobilista sfegatato (del tipo che da noi fa le corna dal finestrino) che si rivolge la politica delle cosiddette autostrade ciclabili: infrastrutture anche piuttosto costose per mobilità su distanze medio lunghe e a velocità elevate. Una logica da sede propria, esclusiva, dedicata, che legge il ciclismo (lo dice la parola stessa: autostrada) come nuova modalità privilegiata di spostamento, a cui dedicare specifici investimenti. Nessuna contraddizione, sembra, per il modello di ciclista alla Johnson, alla Osborne, del genere che non ha mai portato un cestino con la spesa, e soprattutto da politico liberal-liberista legge anche città e territorio come spazio di conquista anziché di relazione.
E certo anche le comuni piste ciclabili, quelle per nulla «autostradali», se messe al centro di una politica di interventi sulla mobilità, non sono esattamente il massimo. Innanzitutto per ovvi motivi di disponibilità di risorse: se vogliono diventare sistema si devono organizzare a rete, e le opere richiedono soldi, e tempo. A meno di non lanciarsi in pure operazioni di propaganda ideologica, al limite del ridicolo, come quella tentata a suo tempo da sindaco e assessore all’urbanistica milanesi, Letizia Moratti e Carlo Masseroli, dove con un colpo di pennello e senza alcuna opera, si trasformavano magicamente i marciapiedi in piste ciclabili, si può immaginare con quale comodità per i pedoni, o gli affacci residenziali e commerciali. Gli interessati hanno però a modo loro e prontamente reagito subito, eleggendosi un altro tipo di amministratori.
La logica delle piste o autostrade ciclabili, in sé e per sé, considerata invece anziché inoltre ed eventuale, rischia di replicare coi medesimi effetti l’invasione automobilistica delle città: si ritagliano spazi sottraendoli ad altri. Altro può essere il discorso parziale, di adeguamento di tratti delle arterie extraurbane, ma qui la politica specificamente ciclabile non c’entra nulla, e infatti nei punti delle proposte del Times tutto ruota attorno a un contesto cittadino. Ma con un punto 7 così specifico e caratterizzato, probabilmente anche tutti gli altri finiscono per risultare complementari: le regole di relazione fra i vari tipi di mobilità valgono là dove essi si devono incrociare, problema appunto eliminabile coi percorsi dedicati, gli attraversamenti a livello diverso, la semaforizzazione intelligente ecc. Un’idea di città tecnologico-corporativa difficile da condividere, anche se ci viene presentata come il paradiso, in confronto ai rischi attuali. Insomma, le risposte semplici ai problemi complessi sono sempre sbagliate. E certe frettolose adesioni acritiche a quell’appello di un giornale di centrodestra, pure. Poi si può sempre discutere, perché la pelle resta cara a tutti, ma anche la città vorrebbe entrare nel conto.