Uno dei motivi per cui certi criteri meccanici e desueti di fissazione degli standard urbani sono sicuramente da rivedere, è la composizione della popolazione nonché la somma dei suoi confliggenti diritti allo spazio. Il caso più noto e attuale è quello degli «standard a parcheggio», che scambiati funzionalmente per una specie di diritto all’accessibilità (cosa che non sono affatto, come capisce chiunque ci rifletta) finiscono per diventare sia forma di degrado e impatto ambientale facilmente evitabile, sia occupazione di superfici sfruttabili invece per moltissime funzioni utili, dal verde a case o servizi. È accaduto che si sia scambiato l’essere umano con quella sua versione simil-centauro, con quattro ruote indissolubilmente avvitate sotto il sedere, procedendo in automatico a rispondere a quelle esigenze come fossero prioritarie. La svista tecnico-regolativa, non è però né l’unica né la peggiore dato che si tratta di un elemento grave ma puntuale: le cose si fanno più complicate quando si considera che tutto lo spazio e il metabolismo urbano sono da decenni in pratica appiattiti (dal punto di vista delle forme fisiche così come dei tempi, dei modi, delle regole, delle aspettative) su un esemplare di bestia tipo limitatissimo: l’umano maschio adulto nella cosiddetta fase della vita «massimamente produttiva». Nella formula dell’offerta rientrano pochissimo gli esemplari cuccioli, femmine, anziani, della medesima specie, e nulla o quasi nulla gli altri quadrupedi o bipedi alati che pure numerosissimi sciamano quotidianamente nella metropoli.
Non solo cani
Cosa fa la città sistematicamente per le specie non umane? L’unico «standard» riconoscibile come tale di fatto, sono le zone dei parchi adibite alle corse libere dei cani di norma tenuti al guinzaglio, e la parallela complementare gestione (pubblico-privata si potrebbe dire) delle deiezioni dei medesimi animali. Il resto degli animali urbani, o è segregato ai margini della percezione, o semplicemente non deve esistere, vuoi per esclusione come le specie da allevamento proibite entro i confini urbani, vuoi per attivo sterminio nel caso di altre considerate «infestanti». Se lo siano davvero, è una domanda che ci si pone spesso, soprattutto calcolando che molte presenze derivano di fatto dalla sovrapposizione dell’area urbana al loro habitat, o comunque a un relativamente elastico processo di adeguamento a modi e ritmi della città. Imperfetti, ma aspiranti cittadini a pieno diritto, si potrebbe dire. Ma vengono percepiti come pericolo e combattuti con ogni mezzo, dalle disinfestazioni degli insetti e dei roditori, a quelle guerresche campagne di abbattimento di erbivori o predatori di medie o grosse dimensioni. Anche accettando che non sia possibile immaginarsi una specie di convivenza naturale dentro un contesto eminentemente artificiale come quello della metropoli, e che di conseguenza si debba procedere per qualche tipo di «pianificazione demografica dei non umani», pare non ragionevole continuare sostanzialmente con l’approccio veterourbano-contadino perseguito sinora, per cui esistono animali utili e altri parassiti da sterminare: in una prospettiva ecologica, anche per nulla sentimentale, è del tutto illogico negare così la complessità dell’ambente, delle catene alimentari, e la stessa qualità urbana che dovrebbe derivarne.
La «gestione sociale» di una specie animale
In molte aree metropolitane dove il problema dello urban encroachment, ovvero dell’invasione da parte dell’insediamento umano degli habitat naturali ha una storia abbastanza lunga, si sperimentano da tempo forme di convivenza conflittuale che pur non escludendo lo scontro violento mirano a equilibri (un pochino) più avanzati tra umani e non-umani. È il caso del Canada, dove gli ungulati sono una presenza stabile e spesso assai fastidiosa tra case e uffici, con punte di vera e propria pericolosità nell’invadenza in massa di carreggiate per auto, orti parchi e giardini. Basta riportare qui un breve passaggio della strategia ufficiale urbana così come approvata dalla provincia della British Columbia nel 2016: «Non esiste certo una risposta semplice e lineare al problema di gestione dei cervi in città, e i programmi se vogliono essere di qualche efficacia devono comunque comprendere sia una convivenza conflittuale governata, che progetti di riduzione delle popolazioni. Conflitto governato significa vuoi uso di repellenti specifici in certe zone, alternative nella progettazione del verde e delle recinzioni, o anche banali quanto efficacissime forme di segnalazione e informazione, a partire dalla segnaletica rivolta agli automobilisti nelle zone più a rischio di incidenti con questi animali. La riduzione di popolazione è quella ovviamente effettuata con abbattimenti periodici programmati, ma esistono anche approcci di carattere amministrativo, educativo, regolamentativo». Insomma parrebbe evidente che anche in questo caso non è né tutto bianco né tutto nero: né scontri finali senza esclusione di colpi per la sopravvivenza di una specie, nella consapevolezza che stiamo tutti sulla medesima barca di un bacino territoriale e ambientale unico, né esagerate concessioni a un «naturalismo della convivenza» da cartone animato, perché in fondo un paio di secoli di regolamentazione sanitaria della – scarsissima – presenza di animali intra moenia qualche conoscenza ce l’hanno lasciata in eredità. E speriamo che studi ed esperienze le arricchiscano, ce n’è un gran bisogno.
Riferimenti:
British Columbia (Canada), Urban deer management, febbraio 2016
Immagine di copertina: Management of the Whitetailed Deer in Massachusetts, 1951