Quando Gouverneur Morris, l’estensore materiale della Costituzione degli Stati Uniti d’America, giurista e latifondista dello Stato di New York, insieme ai suoi colleghi della Commissione Strade redige nel 1811 il primordiale, paradigmatico piano urbanistico della griglia di Manhattan, pare avere degli intenti e delle opinioni piuttosto convergenti con quelle espresse tanti anni dopo dalla «collega liberale» d’oltreoceano Margaret Thatcher: la società non esiste. Dentro quel sistema di pieni e vuoti ideale, di strade, viali perpendicolari, isolati regolarissimi al limite della paranoia, in realtà di posto per le relazioni sociali ce ne sarebbe pure in abbondanza, ma tocca scavarselo e costruirselo con sudore, spesso scontrandosi sia con le forze dello spazio che riempiono totalmente del sé edilizio gli isolati, sia con le forze del flusso che militarmente occupano la griglia stradale. L’etica di origine religiosa unita alla tecnica ingegneristica, è ciò che pare guidare mezzo secolo più tardi Ildefonso Cerdà nel suo parziale addomesticamento sociale della macchina urbana. In più ci sono di mezzo un paio di generazioni di scatenamento energetico e tecnologico nei trasporti (che hanno trasformato potenzialmente gli «spazi pubblici» delle vie in una solida impenetrabile muraglia di flussi veloci), e altrettanti di esperienza di vita quotidiana dentro la città moderna, che mancavano del tutto al piantatore coloniale ancien régime Morris. Dentro gli ottagoni di Cerdà – correzione tecnica dei brutali rettangoli dei Commissari liberisti di New York «ammorbiditi» sugli angoli – si dovrebbero precostituire alcune condizioni favorevoli al nascere di una specie di moderna aggregazione sociale urbana.
Tra alienazione e nostalgia
Come sanno i cultori di storia dell’urbanistica, di fatto le pie intenzioni dell’ingegnere cattolico catalano resteranno in gran parte pure petizioni di principio, e i suoi isolati a parte la forma ottagonale finiranno per assomigliare parecchio allo «spazio del mercato» così come tracciato agli albori della città industriale dai costituzionalisti americani. Così le forme di aggregazione sociale e nuova identità urbana dovranno forzosamente improvvisare nuovi equilibri dentro residui, a volte reali a volte inventati, di «villaggio tradizionale», anziché iniziare a sorgere ex novo dentro contesti più adeguati ai tempi. Ci penserà poi la nascente disciplina della sociologia urbana, prima nelle forme generali degli studiosi tedeschi, poi in quelle sperimentali focalizzate sui quartieri complessi americani, a valutare quanto di antico e quanto di inedito e nuovo si mescoli, in quelle comunità urbane, nelle loro dinamiche interne, nelle loro relazioni esterne. Secondo le prime formulazioni della Scuola Ecologica di Chicago (quasi contemporanee per giunta alle primordiali vaghe intuizioni sulla futura neighborhood unit) ricorre continuamente, questa dimensione tradizionale del villaggio, nella formazione di quartieri e interi settori urbani, salvo allargarsi o riplasmarsi gli spazi, l’idea di famiglia, di comunità. Resta però anche una certa casualità dei rapporti verificabili tra alcune formule di aggregazione spaziale e corrispondenti formazioni di relazioni sociali. Senza rendersene conto ci arriveranno prima gli architetti.
Dall’intuizione alla sistematizzazione, e all’equivoco
Tra i vari prodotti collaterali del grande Chicago Plan 1909 di Daniel Burnham, molto in sordina, emerge anche proprio l’idea che per fare comunità sia necessario spezzettare sistematicamente lo spazio della metropoli, ridimensionarla a proporzioni umane-familiari intermedia tra l’intimità dell’alloggio e lo spazio dilatato dell’economia urbana. Da qui il concorso per architetti su una superficie teorica prefissata dall’Amministrazione, a cui partecipano numerosi studi anche di grande prestigio, come quello di Frank Lloyd Wright per esempio (che qui visto il tema prevedibilmente non spicca per originalità né criteri innovativi). È un ex dipendente proprio di Wright a distinguersi, più per lo slogan scelto che per il tipo di soluzioni del quartiere: l’architetto William Drummond sceglie come motto, e siamo nel 1914, Neighborhood Unit, Unità di Vicinato. Chiudendo per la prima volta in un solo contenitore, se non altro logico e progettuale, i due aspetti della comunità e dello spazio fisico determinato ad hoc. Il medesimo lavoro lo sta iniziando anche il sociologo newyorchese Clarence Perry, a partire dal ruolo degli edifici scolastici a fare da hub sociale per l’identità e le attività locali. Lo stesso Perry, ripercorrendo vari progetti urbanistici (della scuola garden city ma non solo) dieci anni dopo perfezionerà il ragionamento nella cornice di un altro grande piano, quello regionale di New York, dove ancora più che a Chicago si avverte l’urgente necessità di «delimitazione comunitaria» nell’oceano di flussi della grande metropoli. Ne nasce la notissima teoria socio-spaziale della cosiddetta Unità di Vicinato, ripresa apparentemente solo nel nome da quella lontana intuizione dell’architetto Drummond di Chicago, neppure mai citato nella ricostruzione delle radici storiche del concetto. Ma da subito nasce un equivoco, alla testa del quale si pone addirittura il sociologo che ha fatto la scoperta di metodo: che sia cioè possibile fissare un metodo di progettazione spaziale standard per accogliere quella spontanea «identità di villaggio».
Schizofrenia pianificata
Un equivoco immediatamente colto al volo dalla rampante cultura degli architetti, a loro volta articolati in almeno due filoni: quello di fede garden city ormai tendenzialmente operante in ambiente suburbano (anche quando quella tabula rasa ideale è ottenuta ritagliando l’ambiente denso della metropoli); e quello del movimento moderno di derivazione avanguardista, con la passione per gli angoli retti, la serialità, e tutti i parafernali più o meno genialoidi noti a tutti. Nel primo caso il «dilemma di Ildefonso Cerdà», di trovar posto nella città moderna degli spazi-flussi per l’espressione di una nuova comunità, non si risolve perché tutto più o meno ruota attorno alla radice originaria della socialità spontanea e tradizionale di villaggio, quella recuperata strumentalmente per la real reform dalla strana coppia Howard-Unwin. Nel secondo caso, addirittura, è lo stesso architetto a decidere arbitrariamente, saltando a piè pari il lavoro scientifico di Clarence Perry, di cui si accetta giusto la copertina e l’efficace slogan già copiato, quali forme dovrà avere quella comunità. E a nulla varranno, neppure nel grande dispiegamento di forze tecnico-politiche-culturali delle new town nel secondo dopoguerra, i richiami della sociologia per rientrare un po’ dentro binari logici: il quartiere è terreno di caccia esclusivo dei progettisti architetti, sono loro a decidere non solo le forme fisiche, ma anche il genere di relazioni ideali che là dentro dovranno svilupparsi. Ci sono tutti i presupposti per una vera e propria «fabbrica di alienazione», per molti versi peggiore della tabula rasa originaria liberista di Gouverneur Morris & Co.: loro almeno lasciavano spazio, vuoi alla conservazione, vuoi all’innovazione comunitaria, per quanto in balia di qualunque forza superiore. Gli architetti, spietati nelle loro buone intenzioni, no. Inevitabile l’emergere di una solida cultura anti-urbana, espressa in una infinità di modi.
Riferimenti:
Dmitry N. Zamyatin, Post-City: Space and Ontological Models of Imagination, Polis. Political Studies, n. 3 2018