Molte fra le più feroci polemiche sul futuro dell’innovazione urbana, o meglio sull’opportunità di innovare e riorganizzare politiche urbane, dipendono dal vero e proprio terrore di chi si sente scavalcato, ed è convinto si tratti di un complotto di forze oscure per impossessarsi della metropoli eliminando il suo ruolo di cane da guardia del progresso sì, ma come dice lui. E coinvolgono prevalentemente, queste polemiche, strumenti di governo e relativi punti di vista prioritari per metterli in atto. Basta pensare a uno degli slogan più in voga attualmente, la cosiddetta smart city, per cogliere lo scontro di opzioni: ci sono gli innovatori tecnologici e organizzativi allo stato puro e brado, convinti di avere una bella pensata ingegneristica specializzata da mettere in campo per conto proprio, a cui tutto il resto deve mettersi in coda; e gli ex monopolisti del coordinamento (non sono un soggetto unico, vanno dagli urbanisti, ai trasportisti, agli esperti di infrastrutture classiche ecc.) che si arroccano nella propria torre d’avorio del privilegio garantito. Risultato finale, tocca poi alla pura discrezionalità della politica amministrativa, per propria natura ondivaga e attenta solo a consensi o lobbies, decidere quali aspetti privilegiare, mentre il mondo scientifico-tecnico al massimo finisce per crearsi un ennesimo micro-monopolio, magari professionalmente lucroso, un po’ meno foriero di progressi per la città.
Natura brada e addomesticata
Quel che vale per una cosa tanto contemporanea come la cosiddetta (molto cosiddetta) smart city, a maggior ragione vale per tutti gli apporti di settore che via via si sono ritagliati un proprio ruolo sedicente «comprensivo» nelle strategie urbane, spesso a mescolare formalmente linguaggi che invece non si mescolano affatto nelle pratiche, finendo per ingenerare indebite sovrapposizioni e conflitti sul territorio. Ultimo in ordine di apparizione quello con le discipline che in un modo o nell’atro si occupano di natura, sia essa un singolo componente spaziale e qualitativo dell’immenso mosaico urbano, oppure si tratti di una vera e propria rete complessa consapevole come quella delle infrastrutture verdi, comunque intese: dobbiamo assistere alla nascita di un altro specialismo, che va dalla landscape architeture, alle scienze naturali, alla neo-ingegneria ambientale ai comitati di casalinghe per il benessere della nutria attraverso il sindacato agricoltori di prossimità? Nel caso specifico di tutto ciò che si occupa di natura, tra parentesi, esiste un rischio ulteriore ben oltre l’ennesima parte convinta di essere un tutto, ovvero il rappresentare una possibile «antitesi» alla città stessa. Non è infatti ignoto come tante culture e approcci ai temi degli orti, dell’alimentazione a chilometro zero, del biologico, o della salute in rapporto alla disponibilità di spazi verdi, di fatto finiscano per avere riferimenti saldi in culture sostanzialmente antiurbane, a volte anche sul versante dei diritti e stili di vita.
Chi è l’urbanista?
Non è un caso, che da molti decenni ormai si discuta della natura dinamica e ad assetto variabile della figura del planner: vuoi in quanto figura fisica di coordinamento delle politiche urbane ad affiancare la discrezionalità politica, vuoi come soggetto collettivo partecipato di metabolizzazione delle istanze, specie nelle nuove prospettive rese meno fumose (e torna la smart city di cui sopra) dall’innovazione tecnologica e organizzativa. Cosa significa oggi infrastrutture verdi, nella metropoli in crescita a volte esponenziale, come accade nei grandi centri dei paesi in via di sviluppo demografico ed economico? Il rischio è che la potenzialità sia ambientale, che alimentare, che sociale, che energetica e climatica, finisca per essere banalizzata e ridimensionata proprio dal genere di approccio vetusto per specialismo monopolistici o aspiranti tali: il solito architetto-urbanista, o l’ingegneria ambientale tecnocratica delle reti, o (è il caso più rischioso, a mio parere) l’affermarsi dell’approccio neocontadino, naturalista in negativo, che vede tutto ciò che è green come grimaldello per scardinare l’idea stessa di città, di urbanità, di relazioni complesse, e sostituirle con aspirazioni sostanzialmente regressive e reazionarie. Le varie emergenze all’ordine del giorno renderebbero più concreto questo rischio, anche in buona fede, cedendo il passo alla «autorità» di chi ha la soluzione in tasca. Vigilare è meglio che subire.
Riferimenti
Ethiopia: Urban Farming in a Dynamic City, The Reporter, Addis Ababa, 28 novembre 2015