L’Ufficio Censimento definisce area metropolitana l’insieme di circoscrizioni amministrative confinanti che comprendono almeno 50.000 abitanti. Si calcola che al 1957 negli Stati Uniti esistessero 174 aree metropolitane con circa cento milioni di residenti. Molte di queste aree si fanno più difficili da individuare come entità separate, perché stanno divenendo parte di sistemi più complessi di città lineare. Ad esempio l’area che si estende da Boston a Washington, D.C., salvo per qualche piccola zona limitata, è un’unica regione urbana compenetrata. La medesima situazione la ritroviamo, in vari stadi di sviluppo, in altre zone come la fascia delle acciaierie Pittsburgh-Youngstown-Canton-Akron-Cleveland, o l’insieme Chicago-Milwaukee, o ancora la striscia Los Angeles-San Diego.
Se la crescita urbana non è certo fenomeno nuovo per gli Stati uniti, il rapporto fra popolazione urbana e popolazione totale è cresciuto più rapidamente negli ultimi anni. Fra il 1950 e il 1956, la crescita demografica è avvenuta per l’85% circa nelle zone urbane. E si prevede che entro il 1975, abiteranno in queste zone sessanta milioni di persone in più che al 1950, con un incremento del 71%. Detta in altre parole, la probabile crescita della popolazione metropolitana nel 1975 sarà pari alla somma di tutta la popolazione che al 1950 abitava le aree urbane di New York, New Jersey nord-orientale, Chicago, Los Angeles, Philadelphia, Detroit, Boston, San Francisco-Oakland, Pittsburgh, St. Louis, Cleveland, Washington, Baltimore, Minneapolis-St. Paul, e Buffalo, a cui vanno ancora aggiunti quindici milioni di persone. Visto l’interesse di individuare problemi importanti per la società americana e contribuire all’impegno per la loro soluzione, la Fondazione Ford è attiva con un proprio programma Urban and Regional dal 1955. Da allora ha finanziato in vario modo per un totale di quasi 9 milioni di dollari università e altri enti, per individuare punti strategici di intervento sul problema della rapida crescita urbana.
Prima di entrare nei dettagli di alcuni specifici progetti, è però utile delineare alcuni aspetti generali. Non esistono segnali di un rallentamento dell’urbanizzazione, né di un arresto dell’esplosione demografica in atto dal dopoguerra. Dato che a quanto pare le questioni non si esauriscono da sole col passare del tempo, deve pensarci l’uomo, ad operare verso nuovi equilibri fra progresso tecnologico e progresso sociale, e relativi cambiamenti. Se il problema urbano nel suo insieme viene esaminato per le varie parti componenti, vediamo che rappresenta gran parte delle questioni dell’individuo, della società, della politica. Riguarda la salute, la casa, il lavoro, l’istruzione, le cultura e il benessere, del paese in generale così come dei cittadini.
Trasporti
All’inizio del nostro secolo, l’amata epoca della carrozzella a cavalli, la carrozza a motore era poco più di un sogno a occhi aperti, per un piccolo gruppo di imprenditori innovativi. Oggi quel sogno è abbagliante realtà, con oltre 68 milioni di veicoli immatricolati. Nel 1975, si stima ci saranno oltre 100 milioni di auto circolanti – e ahimè bloccate nel traffico – su strade, autostrade, svincoli del paese. Il problema di trovar spazio a questi mezzi di trasporto meccanici che si spostano dentro e fra le aree urbane, si è moltiplicato con la velocità delle generazioni di insetti. Come spostare tutte quelle auto dentro ad arterie rapidamente sclerotizzate; dove parcheggiarle lungo vie che per loro natura hanno soltanto due lati; come conciliare il movimento dei veicoli privati con quello dei trasporti collettivi, i tram, gli autobus; e via di questo passo …
Gli urbanisti si confrontano coi vari «che fare» dei trasporti sin quasi alla disperazione. Il tema è uno di quelli fondamentali che stanno alla base della coesistenza metropolitana. Ostacolare il flusso di persone e merci, in entrata e in uscita dai sistemi urbani, significa strozzarne economia, salute, benessere. In un convegno organizzato dalle amministrazioni di diversi Stati nel settembre 1957, la situazione veniva brevemente riassunta così: «Il cuore del problema metropolitano è quello del trasporto di massa». Una indagine di Fortune aggiunge foscamente che «il tram è praticamente scomparso, l’autobus si sta dimostrando un sostituto inadeguato, si degrada il servizio dei treni pendolari, le metropolitane sono sempre più sporche, le superstrade riversano fiumi di auto verso i centri urbani … [L’automobilismo] sta modificando i caratteri fondamentali dell’area metropolitana, e sono in parecchi a temere il peggio». Il comune cittadino pendolare, che sia automobilista o pedone, teme: «Andrà sempre peggio? Possibile?». E dall’intrico della giungla del traffico gli risponde una voce soffocata: «SI».
Frammentazione amministrativa
Nel corpo urbano battono molti cuori. Uno è quello degli apparati amministrativi, che comprendono le circoscrizioni elettive, i distretti scolastici, o gli ambiti dei servizi pubblici come acqua, fognature, verde, antincendio. La parola chiave qui è «frammentazione», che secondo il vocabolario nelle scienze biologiche sta a significare «rapida e sequenziale produzione di nuove parti … man mano cresce la massa delle cellule, attraverso una loro divisione». Quanto estesa sia questa frammentazione, lo sanno solo pochi specialisti. Secondo uno studio del 1952 nelle allora 168 aree metropolitane esistevano ben 16.210 circoscrizioni di governo locale; 3.164 comuni; 2.328 municipalità; 256 province; 2.598 distretti e amministrazioni speciali, più 7.864 distretti scolastici. In media, 96 enti per ciascuna area metropolitana.
Davanti a questi dati nel 1956 il professor Coleman T. Woodbury, esperto studioso di questioni urbane, osservava: «L’enormità del caos appare anche più chiara se si osserva che 80 su 168 aree hanno una popolazione inferiore a 200.000 abitanti». E proseguiva «Le cifre poi non sono nemmeno la cosa più importante, si limitano a evidenziare la vera difficoltà: enti troppo piccoli per una amministrazione efficiente dei servizi; nessun responsabile in grado di cogliere con chiarezza la dimensione dei problemi e delle questioni, figuriamoci poi affrontarli; e si tratta di problemi che possono essere affrontati con qualche possibilità solo ad una scala assai più vasta di quella degli enti esistenti; mentre l’intenzione dei vari gruppi di potere è di frapporre ostacoli e continuare a gestire all’interno del proprio ambito».
Il problema della moltiplicazione degli enti, o «balcanizzazione» affonda le proprie radici nei secoli, quando esisteva un contesto politico, economico e sociale diverso. Statuti ottocenteschi e convenzioni rendono ancor oggi estremamente difficile una gestione adeguata. Ciò ha condotto molti esperti di questioni urbane a chiedere che si riveda tutto il sistema delle circoscrizioni urbane. Per fare un esempio di questa estrema difficoltà dovuta alla frammentazione, riportiamo un commento di O.W. Campbell, direttore amministrativo della Dade County, Florida: «Un’area metropolitana di solito è un garbuglio di amministrazioni locali in lotta fra loro, nessuna delle quali in grado di affrontare i problemi dei cittadini nel loro insieme, nessuna disposta a collaborare verso una loro soluzione».
Abitazioni e quartieri degradati
Nessuno sano di mente vorrebbe gli slum. Non esiste una città degna finché non si sono eliminati i quartieri del degrado. Nessun edificio monumentale o polo culturale – per quanto magnifico in sé – sarà mai in grado di controbilanciare la vergogna e la miseria collettiva determinate dall’esistenza di edifici cadenti, segno sicuro e discreto di sovraffollamento, malattie, povertà, sporcizia. Il dieci per cento della popolazione degli Stati Uniti, vale a dire diciassette milioni di persone, perlopiù in aree urbane, abita in case irrecuperabili. Altri milioni vivono in case degradate, infestate dai topi, prive di adeguata luce, riscaldamento, impianti; alloggi che solo stiracchiando al massimo, sin quasi al punto di rottura il concetto, vengono definiti «marginali».
Poco tempo fa sul New York Times Magazine, Edward J. Logue scriveva che la necessità di far piazza pulita dello slum apparirebbe forse più chiara se la gente «ci andasse a fare una bella passeggiata dentro, come si faceva una volta, su per quelle scale puzzolenti fino alle stanzette sovraffollate e spoglie; attraverso le vie delle sporche botteghe buttando l’occhio ai piani superiori, alle finestre vuote e impolverate; una passeggiata attraverso i laboratori orribili unti di grasso, di un’epoca in cui non si era mai sentito parlare della catena di montaggio. Appariranno così agli occhi lo sporco, la miseria, il pericolo, evidenti e impossibili da dimenticare». La demolizione dello slum a volte pare somigliare alla fatica erculea di pulire le stalle: se ne elimina uno, e intanto se ne forma un altro. Perché oggi quei quartieri degradati non sono più, come avveniva anni fa, confinati a una o due zone delimitate della città. Come il morbillo, spuntano a macchie su tutto il corpo urbano, e in tanti casi iniziano ad avvicinarsi al centro, o a diffondersi verso l’esterno del suburbio.
Un tempo abitati in gran parte da milioni di immigrati, oggi gli slum aprono le braccia ad accogliere sia cittadini locali che stranieri, anche se sempre rivolti ai redditi più bassi. Inoltre sono il luogo in cui si concentra chi per razza o colore è oggetto di segregazione abitativa. Tra le poche luci nel fosco quadro dello slum, brilla la Legge per la Casa del 1949. Legge importante non solo perché eroga fondi per la demolizione e ricostruzione, ma perché il governo federale così riconosce il degrado urbano come problema nazionale. Nonostante molti osservino una inadeguatezza dei finanziamenti (nel 1957 pari a 1,25 miliardi di dollari, contro i 33,5 miliardi per le autostrade), ne hanno approfittato molte città del paese per rinnovo urbano e nuove costruzioni. A fine 1958, erano 276 le amministrazioni che avevano in corso progetti di riqualificazione, e 261 stavano elaborando programmi.
Ma anche questo piano e altre iniziative pubbliche o private non riescono a mantenere il ritmo dell’incremento di popolazione urbana. Ogni anno nelle aree metropolitane si costruiscono 250.000 nuovi alloggi, ma se ne cancellano anche una quantità equivalente per demolizioni, espropri, cambi di destinazione d’uso a industriale. Si sono levate parecchie voci contro questo modo contraddittorio di non affrontare nella sua interezza la questione dello slum e della ricostruzione urbana. Fra cui Edward J. Logue, il cui articolo sul Times afferma tra l’altro: «Le città si devono organizzare per combattere efficientemente lo slum, nello stesso modo con cui efficientemente lottano contro gli incendi. Lasciare il problema nelle mani di qualche volenteroso urbanista o militante, è come se lasciassimo a un gruppetto di volontari coi secchi lo spegnimento dell’incendio di Times Square».
La città, il suburbio, i servizi
Nonostante sia decrepita e lisa, nonostante i sinistri scricchiolii, la città continua a evocare descrizioni grandiose. Harrison E. Salisbury ha scritto sul New York Times che «è una incredibilmente complessa replica dell’antico bazaar all’incrocio di due vie: luogo di incontro, scambio, lavoro, sosta, divertimento e relazioni sociali infinitamente varie». Altri avvertono invece come la medesima città stia diventando il luogo «del ricco, del povero, di chi non ha figli» , e cioè di chi può permettersela, di chi non può fuggire via, di chi non ha impegni e resta. L’esodo dura da molti anni ed è ormai difficile definirlo «trasloco verso il suburbio», piuttosto è una tumultuosa cavalcata a chi arriva prima. Gli esperti di settore prevedono che 50 milioni sui 60 di incremento di popolazione previsto per il 1975, saranno nei centri suburbani, cittadine o villaggi, solo 10 milioni nei nuclei centrali urbani.
Tra i fattori che contribuiscono a questa scarsa crescita relativa delle grandi città, il fatto che queste sono circoscrizioni definite, mentre quelle circostanti sono elastiche. Secondo sociologi e studiosi dello stile di vita americano, questa tumultuosa cavalcata verso il suburbio è anche una ricerca di status. C’è poi la speranza di prati verdi, linde stradine, bambini educati, scuole migliori. Ma salvo l’occasionale fortuna di qualcuno che trova davvero la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno dell’autostrada a sei corsie che porta al suburbio, gran parte delle speranze restano disattese nella enorme migrazione. Migliaia e migliaia si riversano dentro quartieri mal progettati, non in grado di assorbire tanta gente tanto in fretta. Risultato: spesso anche il suburbio finisce per assomigliare parecchio alla città da cui si era appena scappati.
Quando ci si accorge di questo, del trasloco in un suburbio troppo urbano, ci si accorge anche di essersi portati dietro dei problemi, e di averne trovati dei nuovi (che in città non c’erano) cme l’assenza di strutture culturali e per il divertimento. I nuovi arrivati trovano scuole sovraffollate e con insegnanti insufficienti, cosa che in fondo esiste anche in città, ma la corsa verso il suburbio ha esasperato il problema che si voleva risolvere. Poi ci sono i problemi di trasporto, perché il costruttore prometteva mezz’ora al massimo da casa al centro, ma rimane per sempre una promessa. Certo potrebbe cambiare, se in treni arrivassero in orario (o se non fossero stati aboliti, se le strade non fossero intasate, se non nevicasse e non piovesse mai, se, se, se …
E aumentano le tasse, nel suburbio, quelle tasse che da sempre fermentano nel corpo politico, inacidiscono l’animo del contribuente. Il residente suburbano lamenta che non c’è paragone tra la qualità dei servizi garantiti a parità di imposte in città e nei nuovi quartieri. Anche senza entrare nei singoli particolari, ciò rivela non trattarsi di un problema che si risolva scappando dalla giungla d’asfalto verso l’arcadia pastorale verde. Insomma il suburbio non è certo la soluzione magica ai problemi della città, gli abitanti dell’uno e quelli dell’altra stanno per così dire sulla stessa barca, sballottati dalle onde della crescita demografica, e da quelle del degrado metropolitano.
Da: Metropolis, Ford Foundation, 1959 – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini